Quattro passi dentro casa: il divano dell’ Avanella
Disclaimer: il divano dell’Avanella non viene dall’Avanella. Già questo è un inizio grandioso! Ma, per chi non lo avesse capito, le mie narrazioni non seguono un filo logico, sono Joyciane. Il flusso, anzi il “ruscello” di coscienza è molto più fedele alla vita di quanto non lo siano gli ordini cronologici, né tantomeno il vizio di voler andare da A a B in linea retta: alla meta ci si arriva anche prendendo la strada panoramica.
Il divano dell’Avanella va contestualizzato nella storia di questa stanza. La stanza è quella intermedia tra le tre presenti al secondo piano di un’ordinaria villetta a schiera suburbana. Essa nasce, nei primi, anni ’80 con lo scopo di essere un ufficio dentro casa. In famiglia ci piace essere postmoderni. Conte, marzo 2020, ha detto che bisogna fare smart working: mi padre ha iniziato a farlo negli anni ’70. Il suo primo ufficio-da-lavoro-agile era il tavolo della cucina. Un tavolo della cucina marrone scuro, il colore lo ricordo bene perché non mi piaceva, affiancato, in corridoio, da un’altissima libreria nera dove stavano libri, cataloghi e pile di documenti cartacei. La cosa più speciale era la localizzazione dell’ufficio: pieno centro storico, all’ombra della cattedrale.
Poi, con la casa nuova, l’ufficio domestico si è conquistato una stanza intera, quella da dove scrivo ora. Questa volta all’arredamento ci aveva pensato un architetto e la stanza era stata agghindata con mobili bianchi e accessori rossi, tutta roba di design. È rimasto tutto così fino a quando il capofamiglia ha deciso di rinunciare al lavoro da casa spostandosi di nuovo in centro storico, un ritorno al lavoro impacciato. Io, che ancora frequentavo le scuole medie, ho ereditato la stanza e parte dell’arredamento, del resto i miei libri reclamavano scaffali. Nello spazio lasciato vuoto dai pochi mobili portati via era stato inserito un letto, bianco, anni ’70, l’ex letto di mio zio (perché qui non si butta mai niente) che sarebbe dovuto servire “per gli ospiti”. Nessun ospite l’ha mai utilizzato: l’idea era buona, ma… mio padre, non tutti siamo leggeri in famiglia, ne ha sfondato la rete sedendosi sopra. Se proprio volessimo dirla tutta, ma non si deve sapere, io, qualche volta, saltavo in piedi sul letto, ma credo lo facciano tutti i bambini. Ritengo pertanto che le reti a molle dei letti siano state progettate tenendo conto anche di questo, declino di conseguenza ogni mia responsabilità.
Dopo questo incidente, la stanza è rimasta senza letto e ho cercato di viverla alla giapponese: con tappeti, mica tappeti, e persino con un futon che mi ero portata in aereo dal Giappone. Lo avevo acquistato candidamente a Kobe e poi caricato in aereo a Osaka, senza pensare che una ragazza piccola con un pacco enorme, arrotolato nella carta, avrebbe potuto destare sospetti. Infatti, così è stato, un finanziere a Malpensa mi chiese proprio cosa contenesse il pacco. Quando gli dissi “Un materasso, se vuole glielo apro!”, mi spedì via per evitare complicazioni.
Nonostante il futon, continuavo a sentire forte e chiara l’esigenza di un divano vero che doveva essere: economico, comodo, piccolo, perché la stanza è piccola, e facile da trasportare. Come tanti esseri umani, adoro il catalogo Ikea, cioè adoravo il cartaceo, che di solito arrivava ogni settembre. Anzi, qui non arrivava mai, ma riuscivo ad avere sottobanco la copia di mia nonna, che tanto non ci sarebbe andata lo stesso all’Ikea di Corsico. Mi scuso con le cugine se ho rubato l’ambito catalogo per anni, a loro insaputa, ma bisogna pure arrangiarsi. Il catalogo Ikea incarna quello che rappresentava il catalogo Postalmaket nella mia infanzia: in pratica guardi tutto, vorresti comprare tutto, e poi non compri nulla. O, in alternativa, vai in fissa, guidi fino all’Ikea, perlustri per ore e poi ti accorgi di non riuscire nemmeno a sollevare dagli scaffali quello che vorresti caricarti in macchina e portarti in casa.
Tornando a tempi più moderni, essendo a caccia di divani, mi piaceva assai il design dell’Ektrop: molto classico, molto inglese, specie quello bianco a fiori neri. Molto bello, ma troppo caro e troppo grande. La pensavo così fino a quando, all’Avanella, ebbi un colpo di fulmine. Cosa sia l’Avanella lo sapranno al massimo una decina di amici, qualche centinaio di Italiani, e qualche migliaio di stranieri, perché all’Avanella vanno soltanto gli stranieri. I pochi italiani che la conoscono, sono quelli che ci abitano vicini, o sono gli amici della proprietaria, quasi tutta gentaglia che va a caccia e ha cani. L’Avanella può infatti vantarsi di aver ospitato più di un personaggio illustre appartenente a questa fetta di mondo. E sempre l’Avanella può raccontare di avere avuto, prima tra tanti, un capo guardiacaccia donna, con tanto di laurea in scienze forestali. L’Avanella è tante cose in una. Chi è curioso può andare su internet e scoprire che l’Avanella è un agriturismo, ma io non la considero tale. L’Avanella è anche una riserva di caccia, per l’esattezza un’azienda faunistico venatoria, ma anche qui siamo un po’ sui generis. Agriturismo? Il complesso di strutture dell’Avanella: villa, fienile e villini (le scuole) ricorda tutt’al più in villaggio. Negli agriturismi di solito si mangia, all’Avanella no: puoi dormire, tuffarti in piscina, o lavare i panni sporchi in mezzo agli altri. Se vuoi mangiare devi andare a Certaldo, o a San Gimignano, oppure passare alla HOOPPEE (il toscano per COOP) e poi accendere il fornello. La caccia all’Avanella è un lusso solo per pochi: Francesca & gli amici. I fortunati posso cacciare il cinghiale, il capriolo, i colombacci e i fagiani, ma non luglio quando all’Avanella ci sono finita io.
A luglio all’Avanella fa solo caldo: questo mi ha portato a conoscere molto bene i suoi interni. Francesca mi aveva collocato nel fienile, al piano terra del fienile, il territorio riservato alla famiglia e agli amici. La struttura originale del fienile era stata conservata: il piano terra era quindi piuttosto buio, lungo e stretto e suddiviso in due parti. La stanza da letto, con il bagno, ne occupavano un terzo; gli altri due terzi erano un lunghissimo spazio aperto al centro del quale spiccava un divano Ektrop, bianco e a tre posti.
Che all’Avanella si cominciasse presto, lo intuii sin dalla prima mattina, dalle ombre e dai rumori uditi nel dormiveglia. I rumori sconosciuti erano stati provocati da Francesca che, in orario antelucano, aveva depositato una brioche con la panna nell’angolo cucina. Nelle mattine successive, il mio sonno fu disturbato presenze meno nobili: un bambino, credo russo, che ritenevo risiedere al piano alto del fienile, correva e urlava sin dalle prime luci dell’alba. Francesca, a dieci anni di distanza, continua a dire che non c’era nessun bambino russo al secondo piano, io seguito a credere che abbia fatto confusione sul registro delle presenze. All’Avanella, non solo si comincia presto, ma tra cene, escursioni e grigliate si finisce tardi. Poi, di notte i cinghiali bussano alla porta, così giorno si collaudano i divani. Fu così che scattò l’amore tra me il divano Ektrop.
Era amore sì, ma non abbastanza forte per farmi decidere a comprarne un gemello, costava troppo ed era troppo grande. Un paio di mesi dopo aver abbandonato il mio divano toscano preferito, venni a sapere che il mio amico P. sarebbe andato all’Ikea per comprare le forchette. La P puntata è per tutelare la privacy del malcapitato a cui mi sono appiccicata, per aver modo di trasportare fino a casa un divano di Ikea. Lo sventurato, infatti, era munito di auto simil-furgonata che aveva sufficiente spazio per trasportare un divano piccolo, almeno in teoria. Così siglammo un patto: “Io ti porto all’Ikea, ma ci stiamo al massimo 10 minuti.” Sembra incredibile, ma abbiamo davvero sfidato e vinto l’Ikea esplorandola in 10 minuti. Era andato tutto alla grande, fino a quando i miei occhi hanno incrociato il profilo spaurito di un Ektrop a due posti. Era proprio quello bianco, con in fiori neri. Il povero divano era stato abbandonato nell’angolo delle occasioni perché ferito a bordo zampa, un’infermità minore, ma che ne riduceva sostanzialmente il prezzo, facendolo rientrare nel mio budget. Ci siamo guardati e ho capito che non potevo lasciarlo lì. Cioè, non l’ho capito proprio subito, ho tentennato per altri dieci minuti che mi sono costati una punizione. L’ho dovuto caricare sul carrello (da me) e poi spingere suddetto carrello, con il divano sopra, fino alla cassa, tra l’ilarità e l’ammirazione degli astanti.
L’avventura è proseguita nel parcheggio quando abbiamo scoperto che un pezzo di divano, in qualsiasi modo lo girassimo, sarebbe rimasto fuori dall’auto. Peggio di una carretta del mare, ma un elastico, un portellone legato alla meglio, una targa dell’Uzbekistan, quest’ultima in senso figurato, ci hanno fatto passare la paura. Il mio Ektrop è qui, sotto alle cornici blu, in perenne memoria del “divano dell’Avanella”.
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