Quattro passi dentro casa: il non prato a nord-est

Il non prato a nord-est assomiglia molto a un campo da beach volley. C’è tanta, tanta sabbia e solo qualche spavaldo ciuffetto d’erba. Ripensandoci, ci sono anche due o tre margherite. Eppure, è stato un prato, e prima, ancora è stato sia un prato che un orto. L’orto è ben fissato nella memoria: mi mancano le verdure genuine, ma non le zolle da coltivare. Ho sempre schivato l’orticoltura, nonostante fosse la grandissima passione di mio nonno: lui aveva un grande orto rigoglioso che era la meta preferita dei suoi conigli in fuga.  Da bambina ho passato alcune estati coi nonni: in caso di fuga, l’allerta veniva estesa alla famiglia e ai vicini, a cui veniva richiesto di impegnarsi nella cattura, ma io tifavo per i conigli. L’orto di casa l’ho vissuto il meno possibile ma, quando è stato necessario, pena la moria delle piante, ho cercato di provvedere alla sua irrigazione, con esiti quasi sempre disastrosi. La canna dell’acqua finiva quasi sempre con lo sbattermi addosso, così che la terra si trasformava in fango e, per bagnare 20 metri quadri di terreno, mi inzaccheravo fino ai capelli. E poi… Premesso che ho paura di api, vespe e calabroni, vogliamo parlare di zanzare? Avete presente quante zanzare ci siano nella zona di Pavia? Non credo, ma se siete convinti di saperlo, immaginate il numero che avete ipotizzato e moltiplicatelo per quattro. La cifra ottenuta è presente h 24, come il Carrefour, che è sempre aperto, le zanzare moderne non si fanno problemi di orario.  In compenso, amano moltissimo l’acqua se vi mettete a bagnare l’orto arrivano a sciami.  La mia carriera di bagnatrice di orti, infatti, è finita prima di cominciare: i pomodori vanno bagnati dal basso, quell’altra cosa dall’alto, questo va bagnato pochi minuti, quell’altro di più… Che se c’è una cosa che non ho mai sopportato è la terra sotto alle unghie. Ho lucidato cavalli, infilato mani all’interno di bovini, raccolto quintali di deiezioni canine, ma la terra sotto alle unghie mi dà fastidio. Forse dovrei ringraziare le bollette dell’acqua che hanno iniziato a salire e l’orto a restringersi. Ho cercato di salvare un’aiuoletta di fragole, ma i cuccioli hanno sconvolto i miei piani. Le creature hanno anche ucciso il ciclamino, che ero riuscita a fare sopravvivere per quasi 5 anni. Cani, uh? Bell’affare!

Nel non prato, nella parte che fu orto, è anche seppellita una cucciolina appena nata, quella tutta bianca con le orecchie nere che pensavo di tenere per me. Ci sono anche le “tombe” dei pesci rossi. La mia carriera con gli animali è iniziata proprio dai pesci, meno dispendiosi e invadenti dei cani, e dei cavalli, a cui sono passata successivamente. Mi ricordo un funerale fatto per il pesce rosso, che era stato avvolto in uno straccio in cotone (come si fa con i pesci appena pescati) e messo in una scatola di biglietti da visita. Piovigginava, e avevo invitato alla cerimonia un paio di vicine di casa, che credo sarebbero state più volentieri a casa. 

Il non prato è anche l’area dove si stendono i panni. Dovete sapere che io non ho un’asciugatrice e, di conseguenza, ho sviluppato un’adorazione per questi elettrodomestici. In verità ammiro tutti gli elettrodomestici che se la cavano da soli, però… c’è anche una coscienza ecologica e risparmiosa. La Greta che è in me mi impedirebbe di asciugare i panni in asciugatrice durante una giornata di sole, ma se piove?  Per soddisfare la mia passione per le asciuagatrici, da un po’ di anni a questa parte, ogni volta che vado in Inghilterra, mi premuro di trovare una casa con l’asciugatrice. E mi diverto un sacco ad attaccare, contemporaneamente, asciugatrice, lavatrice, forno e asciugacapelli, roba che in Italia ti si fulmina il contatore!

Tornando al non prato, abbiamo, come dicevo, una parte che fu orto, e una parte che fu esclusivamente prato e “area cani”. Questa zona del giardino, infatti, era stata recintata per poterci lasciare il mio primo cane, Tommaso, un meticcio blue belton, mezzo setter e mezzo schnauzer. Tommaso aveva il vizio di scappare “per andare a gatti” (ricordava dove abitavano tutti i gatti del quartiere), così avevamo pensato di creare un’area a prova di fuga in cui lasciarlo quando non eravamo in casa. Mio zio gli aveva anche fatto una cuccia triangolare e post-moderna, dipinta di grigio, cuccia nella quale non credo sia mai entrato.  Non ricordo sia nemmeno stato da solo nella parte del giardino che gli era stata assegnata: stava molto più volentieri in casa.

Eppure, lì c’era un prato e una grossa quercia alla quale, per diversi anni, quando le zanzare giravano solo di notte, veniva attaccata un’amaca. Adesso ci sono delle siepi, dei mughetti, dei fiori LIDL che avevo acquistato come sementi e lanciato in giro a casaccio (perfettamente nel mio stile). C’è anche una recinzione che la “Lillina” cerca ostinatamente di scavalcare, infatti scrivo dal giardino mentre controllo quel che fa. Chi ha ucciso il non prato? Tante cose e nessuna: un po’ lo hanno rovinato i cuccioli, un po’ i muratori, un po’ il gran caldo. Il risultato è una distesa di sabbia che, a sua volta porta sabbia in tutta la casa.  Il mio approccio nei confronti della vegetazione è sempre stato quello di lasciarla crescere come cresce, senza intervenire, però, forse, adesso, il non prato ha bisogno di un supporto, questa volta non solo morale.

È in circostanze simili che riscontro tutti i miei limiti: non capisco niente di prati ma, soprattutto, non capisco perché il prato pubblico, che nessuno cura, sta benissimo e il mio fa schifo? Come va resistere l’erba sugli argini, che resta perfetta anche dopo le inondazioni? Sta il segreto nel limo della Mesopotamia? Sono il Po’ e il Ticino i fratelli minori del Tigri e dell’Eufrate? Siccome l’ultima cosa che voglio è diventare schiava del prato, ho iniziato a raccogliere informazioni sui prati a bassa manutenzione: mi serve un prato che sia resistente quanto una gettata di cemento. Della semenza “prato rustico” usata per re-forestare la parte frontale del giardino, non ho piena fiducia, mi sembra rustica quanto un Milanese fuggito a Cervinia per il lock down.  La scelta è pertanto caduta sulla semenza “Maciste”, un misto di festuca e non so cosa che lancerò in maniera assolutamente casuale e scriteriata tra la sabbia. Il venditore mi ha assicurato che va d’accordo con i cani, che non beve, che vive d’aria e che sopporta sia il caldo che il freddo. Se così sarà, il non prato tornerà ad essere prato.

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Quattro passi dentro casa: Le lampade di questa stanza

In una stanza tutto sommato minuscola, ci sono ben tre
lampade. Una ci vuole, che ci rischiari dalle tenebre, ma le altre due? Andiamo
a conoscerle, dalla più piccola alla più grande. La più piccina, non che ultima
in ordine di arrivo è una lampada del sale formato bonsai. Calcolando la
metratura della stanza, se volessi davvero usarla per ionizzare l’aria, cosa
che si mormora queste lampade facciano, avrei dovuto prenderla grande almeno il
doppio, invece ho scelto lei. A guidarmi, non solo lo spirito del risparmio, ma
anche la situazione. Io vado a impressioni, circostanze, eccetera e tale
lampada era stata annunciata come in vendita da LIDL. LIDL ha l’astuta capacità,
con il suo volantino, di creare aspettative. Da librivora, adoro il volantino
di LIDL, e pensare che, gli omini della pubblicità, spesso saltano la mia
cassetta della posta. In tempi normali ovviavo al problema sottraendo,
nottetempo suddetto volantino, dalle cassette altrui, magari proprio da quelle
su cui campeggia rabbiosa la scritta “NO PUBBLICITA’”. A me la pubblicità dei
supermercati piace, ma adesso rifuggo da qualsiasi superficie che possa essere
contaminata, forse gli omini della pubblicità lo sanno e non mi lasciano più nulla.
Se vi hanno rubato il volantino di LIDL, da febbraio in poi, non sono stata io!
Oltre a stuzzicarci, quelli di LIDL, sono bravi a fare leva sulla scarsità: se
un bene è scarso, viene percepito come un bene di valore. Nella mia infinita storia
accademica, ho studiato anche economia politica, altrettanto devono aver fatto
gli omini del marketing. Le massaie invece no, ci cascano ogni volta e le
mattine del lunedì e del giovedì, corrono da LIDL ad accaparrarsi gli oggetti
del desiderio, prima che l’ambita cianfrusaglia vada esaurita.

No, sul serio, mi rifiuto: la corsa tra gli scaffali roba da
Flinestones. Magari una certa cosa la vorrei tanto, ma riesco a non
darlo a vedere. Mi approccio ai cestoni delle offerte con finto distacco,
allungo l’occhio e, se la cosa non c’è più, proseguo incurante verso i fiocchi
di latte: ai cani piacciono, è una bella scusa. Questa lampada, così come le
ali da pipistrello da fare indossare al cane (che invece avrebbe preferito i
fiocchi di latte) è stata comprata nel tardo pomeriggio. Era l’ultima ed era
evidentemente una predestinata. L’accendo spesso e, lo scorso autunno, o forse
era primavera- insomma era quel periodo di monsoni, la lampada si è messa a
piangere allagando il ripiano della libreria. Nessun miracolo di San Gennaro,
voleva solo dirmi che c’era troppa umidità, come se non me ne fossi accorta da
sola. Che poi, che avrà da lamentarsi, abita vicino alla porta della stanza,
sul tetto della mini-libreria a sud, nel punto meno umido della casa. È stata fortuna,
non ha neppure dovuto scegliere dove stare, la presa della corrente ha deciso
per lei.

La seconda lampada vive sulla scrivania, ma non ha mai avuto
un posto fisso, va e viene a seconda di quanti pc (ne ho due), quanti libri e
quante altre cose, stanno sulla scrivania.  Quando il tavolo è troppo occupato viene
sloggiata per terra, sul parquet, a farle compagnia qualche pelo di setter. Il
non avere un posto fisso, le permette di guardare la stanza, e il mondo fuori
dalla stanza, da diverse prospettive. Può persino succhiare la corrente da ben
due prese elettriche diverse. Non so quasi nulla di questa lampada, mi è stata
regalata dopo che qualcun altro l’aveva recuperata sulla via della discarica.
La spina andava riparata, ma una volta fatto (non da me) funziona benissimo.
Credo abbiano scelto di mandarla qui perché è la classica lampada da scrivania,
anzi da scrivania di una biblioteca. Probabilmente ne avete viste di simili
nelle biblioteche, o nei film. È una di quelle lampade con un cappello verde bottiglia,
piuttosto largo e orientabile. Il gambo è stretto e dorato e poggia su una base
larga, sempre dorata. Queste lampade vintage, sono chiamate anche lampade
Churchill (My Dear Sir Winston <3 ), o ministeriali. La leggenda
vuole che negli anni ’30, in Europa, fossero di moda sulle scrivanie dei VIPS, a
me fa tanto Ivy League, o Seven Sisters, per tirare l’acqua al
mio mulino.  La mia Winstonina ha qualche
graffio sul gambo e dei graffi più marcati sulla base, comunque se li sia
fatti, fanno parte della sua storia. L’accendo poco, in genere d’inverno, o
quando la giornata è uggiosa. Illumina quanto basta, ma non troppo.

La terza lampada è la lampada regina, ovvero quella che regna
quando il sole non c’è più, ma a tu hai bisogno di vederci chiaro, lo chiamano smart
working
e non finisce con il tramonto. Non ci sono lampadari in questa
stanza, solo questa lampada “alogena” che parte dal pavimento e va verso
l’alto. È rosso papavero e ha quasi 40 anni, ma non li dimostra, viene dal
vecchio arredamento “di design” di questa stanza. Il problema è che si è
portata dietro una certa filosofia spendacciona tipica degli anni ’80: mangia
quanto uno Shire! Con Shire intendo quegli enormi cavalli da tiro dalle zampe
pelose, l’idea di prenderne uno “da compagnia” mi è subito passata dopo aver
scoperto quanto mangiano. Ad oggi, non sono ancora riuscita a convertire la
Signorina Shire al LED, non trovo lampadine della sua taglia: lei succhia,
illumina e scalda, come si addice ad una vera lampada alogena della Milano da
bere.  In inverno, funziona come secondo
termosifone, in estate… le preferisco il buio.

È talmente calda da aver cercato di fondere un pezzo della
libreria e di aver quasi dato fuoco alla casa. Antefatto, questa stanza è
esposta a nord per una parete, e a est per l’altra. In inverno è GELIDA anche
con il riscaldamento acceso: le case te le costruiscono belline e trac, la
fregatura che non sai. I vecchi serramenti, quelli comprati insieme
all’abitazione, erano stati fabbricati dalla Casa dello Spiffero, e io ho avuto
una delle mie idee. Seguendo quanto consigliato dall’adorabile rivista British Country
Life
, mi ero procurata dei pesanti tendoni patchwork. Ottimo risultato
estetico e funzionale, ma alla rossa lampada non piacevano, le toglievano
centralità. Così, colpa sua, o colpa mia, che non ho curato le distanze, un
giorno d’inverno, mentre scrivevo al pc, ho sentito un rumore sopra la mia
testa. Ho fatto finta di niente per un po’, che avevo altro da fare, e poi,
riguardando in alto, ho visto fumo e fiamme provenire dalla tenda. Senza farmi
prendere dal panico, sono uscita dalla stanza, ho spento la lampada
(l’interruttore è fuori) e poi mi sono messa a cercare un recipiente con cui
poter lanciare efficacemente dell’acqua verso l’alto.

Non trovando niente al piano, sono scesa in cucina e ho preso un’insalatiera in porcellana inglese, di quelle bianche e blu con i paesaggi disegnati, ovvero le uniche stoviglie degne di esistere. E fu così che Rossella domò l’incendio a insalatierate d’acqua. Poi venne l’assicuratore che risarcì i danni, inclusa l’anziana scrivania di design che con l’acqua si gonfiò.

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Quattro passi dentro casa: La libreria a sud, il piano attico

Ci ho pensato, riflettuto, e ripensato: anche le librerie
meritano di essere raccontate.  Magari a
rate, per non tramortire, e inframmezzate con elementi più leggeri. Le mie
librerie sono pesanti, sovraccariche. In tutti i sensi.

La libreria ha sud, è in realtà, una delle due che poggiano
contro il muro meridionale della stanza. Abbiamo la libreria vera e propria, e
la sua cucciola, che ha solo tre ripiani. A separarle c’è un cassettone che per
il momento non avrà voce in capitolo. La libreria a sud è uno scaffale
bianco-giallognolo che appartiene alla serie Billy di Ikea. È il primo mobile
che ho comprato da Ikea, il primo mobile che abbia mai montato da sola. Il
fatto che si chiami come un cane, per l’esattezza come l’ex cane di mia nonna,
deve avermi aiutato non poco.

Ikea è sempre una sorpresa: studi il catalogo; decidi cosa
vuoi; vai in negozio; vedi gli ambienti; vai in magazzino; rintracci il tuo
prodotto e scopri, ogni sacrosanta volta, che l’agognato elemento d’arredo è
uno scatolone piatto e lungo. Ci vuole molta fantasia ad immaginarlo in tre
dimensioni, e ce ne vuole ancora di più a dargli l’opportunità di trasformarsi
in un mobile vero. Siccome non ho mai avuto come coinquilino il caporeparto del
Leroy Merlin, ho sempre affrontato le istruzioni di Ikea in prima persona e
rigorosamente da sola: non amo ricevere suggerimenti in quei frangenti. Potrei
reagire male, molto male, è meglio che mi sentano solo viti e bulloni, o
finirei con l’iniziare una nuova carriera al porto di Genova. E poi, vuoi
mettere, trasformare la confezione lunga e piatta in un mobile vero? Tutto da
sola?

La libreria ha sei ripiani, ma oggi ci soffermeremo sul
primo dall’alto: il piano attico. Un libro non dovrebbe mai augurarsi di finire
al piano attico. Se è stato messo a dimora lì, significa che non te ne importa
abbastanza. Non verrà sfogliato spesso, né verrà spolverato. Più è basso il
proprietario, più questa cosa sarà tragicamente vera. Sul mio piano attico c’è
un gruppo eterogeneo di libri, scritti in italiano, in inglese e in francese.
Gli argomenti sono i più disparati: abbiamo una raccolta di Hemingway; un libro
di scienze forensi; Libertà di Franzen; robette commerciali; un bel saggio – in
verità un po’ tirato – sul ruolo della donna nella caccia, scritto da
un’antropologa; un manuale di obedience canina anni ’60; un libro che ci
hanno fatto leggere in terza elementare; dei saggi di filosofia e alcuni libri
scritti da autori nippo-americani.

La letteratura nippo-americana, o giapponese-americana, è
pressoché sconosciuta in Italia, forse perché pochissimo è stato tradotto
dall’inglese. Durante la Seconda Guerra Mondiale, questo gruppo etnico è stato
oggetto di forti discriminazioni, culminate con la reclusione di migliaia di
persone in campi di internamento. Gli scrittori nippo-americani hanno nomi
giapponesi: sono nati negli Stati Uniti da genitori giapponesi. La mia
preferita, quella su cui ho scritto la mia tesi di laurea, magistrale, è Hisaye
Yamamoto. Seventeen Syllables (diciassette sillabe), la sua raccolta di
racconti, alloggia altrove, è a portata di mano.

Alla descrizione della mensola, è seguito un forte impulso a
sgomberare: ma tutti i libri del piano attico si sono salvati, ad avere la
peggio sono stati dei CD. Gli inglesi lo chiamano decluttering
(rimozione del clutter, cianfrusaglie) e sono volate nel bidone un po’
di cose, non troppe perché la discarica è chiusa. Ho passato gran parte della
mia vita ad accumulare, fino a quando, frequentando un corso di feng shui,
ho cambiato prospettiva. Il fatto che io abbia fatto un corso di feng shui,
non vi deve stupire, sarei capace di seguire anche corsi su come dipingere il
carapace delle tartarughe. Il fatto che invece abbia iniziato a liberarmi degli
eccessi, invece, ha stupito anche me. Non succede sempre-sempre, ma adesso da
alcune cose riesco a staccami. Il libro sul feng shui, però, è al piano
sotto, il che mi impone di rimandare ulteriori approfondimenti. Decluttering,
tuttavia, suona bene con book crossing e, i miei primi esperimenti di
sgombero, hanno riguardato proprio i libri.

In effetti ne ho parecchi, anzi ne ho troppi: cauti e
silenziosi, i libri hanno preso possesso di questa casa. Ho iniziato a leggere
quando non sapevo ancora leggere: guardavo le figure o, peggio, pretendevo che
gli altri leggessero per me. Sin da bambina, ho chiesto e ricevuto in regalo,
un sacco di libri, e quando dico “sacco” immaginatevi una valanga. I genitori
sanno dire no a un giocattolo, ma se chiedi un libro non gli sembra di
viziarti.

Le biblioteche le ho invece sempre frequentate con
parsimonia: andava spesso a finire che, una volta riportato il libro a casa
sua, ne andassi a comprare una copia per conservarla in eterno, tanto valeva
comprarla da subito senza fare tanti giri. Non paga del cartaceo accumulato,
quando mia nonna ha traslocato, mi sono portata via anche tutti i libri che
stavano lì, con la scusa che la nuova casa era più piccola.

Accumula che accumula, post feng shui, venne il
giorno in cui un vicino di casa, dovette mettere a disposizione il suo Apecar
per trasportare, in diversi viaggi, i libri che avevo deciso di donare alla
biblioteca del paese. Questa storia dell’Ape che sfrecciava avanti e indietro
sulle strade di campagna la racconto con un pizzico di orgoglio, per essermi
scrollata di dosso quintali di libri, e con una punta di imbarazzo, per averne
accumulati così tanti di cui, in fondo, mi importava così poco.  A quel grande esodo, ne sono seguiti di minori:
ogni tanto di o tre libri prendevano la via della biblioteca. Quali libri?
Quelli che avevo già letto e che non mi erano piaciuti. Quelli che avevo già
letto, ma non avrei riletto e, infine, quelli che non avevo mai letto, e non
avrei mai letto. Yes, because, in una delle mie fasi di accumulo pre- feng
shui
avevo scoperto l’Augusto.

L’Augusto è l’omino che vende i libri usati in Piazza del
Duomo a Pavia, nei giorni di mercato. Con la scusa che costavano poco, che
erano interessanti e che avevo imparato a montare librerie, col vai e vieni
dall’Augusto, in pochi mesi ne ho riempite altre due. Hai voglia a sgomberare,
a una libreria si sono sfondati i ripiani e, interpellato l’aggiusta-tutto, si
è rifiutato di aggiustarla, fino a che non l’alleggerisco. Campa Cavallo che
l’Erba Cresce, sono quasi sicura che il surplus librario sopravviverà
alla quarantena. Eppure, sono cambiata: romanzi, narrativa e libriciattoli vari
li leggo in ebook, anche perché non saprei dove metterli; acquisto libri
cartacei con misura e continuo a donare, ma, a guardarsi intorno, è rimasto
tutto uguale.

Le biblioteche però, le ho abbandonate: volevo che i libri
fossero disponibili per la comunità, volevo poterli magari andare a trovare se
ne avessi sentito la mancanza e, invece, ho tragicamente scoperto che i libri
non sarebbero rimasti lì. Niente macero, NO PANIC, ma li avrebbero girati a
carceri, sale d’attese d’ospedale, scuole, eccetera eccetera. Bene, ma non
benissimo, non li volevo rinchiusi forzati in un luogo sconosciuto, così ho
cambiato approccio.

Taaanti, anni fa, durante il mio primo viaggio all’estero da sola, in Irlanda, avevo trovato un libro su un autobus di Cork: On the Road, di Jack Kerouac. Quel libro voleva viaggiare, infatti è arrivato fino in Italia, così, ricordandomi di lui, ho iniziato a pensare che il destino di un libro era quello di trascorrere la sua vita su uno scaffale, ma solo se amato, o di viaggiare libero fino a trovare “il suo posto”. I libri che escono di qui, e che nessun amico vuole adottare, oggi vengono liberati attraverso un circuito di book crossing, gli auguro buona vita e li immagino in tanti luoghi e in tante avventure. Libertà!

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Quattro passi dentro casa: L’Acquarello Blu

Oggi corso di agopuntura veterinaria online, nove ore
attaccata al pc, di una cosa posso vantarmi: in quarantena non mi sono mai
annoiata. Mi hanno fregato un altro imbrunire, però piove, quindi la luce non è
la stessa. C’è buio, sembra di essere rimbalzati in autunno. Occorre vederci
chiaro, ma troppa luce non mi piace: accendo una lampada. È domenica ma ho
perso il senso del tempo.

Scrivo per cercare di ritrovarlo, ho anche paura che mi
scappino le idee. Ne ho avuta una, ieri sera, le migliori idee nascono col
buio, non voglio che svanisca. Più che un’idea è stata un’intuizione, un “epiphany”,
come le chiama Joyce. L’intuizione è balenata veloce e si è subito collegata ad
uno dei miei quadri. Mio perché lo possiedo, non perché l’ho disegnato. Non
sono proprio capace di disegnare, è qualcosa che mi manca tanto, ma oramai mi
sono rassegnata. Però le opere d’arte mi piacciono, anche se mi piacciono a
sensazioni, più che a logica.

Questo quadro è arrivato così, per tanti casi. Su Ebay mi
avevano colpito degli acquerelli con dei cavalli, li faceva un’artista di nome
Michele Weise (una donna, a dispetto del nome), che credo stesse in Arizona.
Ero riuscita a strappare tre dei suoi acquerelli-con-cavallo ad un prezzo
stracciato: credo troppo stracciato per starle simpatica, in mezzo all’ordine, non
so più come, era finto anche un quadro, più o meno, astratto. Ci ho messo il
“più o meno” perché io ci vedo un tramonto sul mare, ma altri potrebbero
vederci solo delle strisce di colore, per giunta con delle enormi sbavature. A
me piace così, con i suoi colori e con il suo sole. Pazienza per la cornice,
non era esattamente quello che volevo, facciamo finta di niente.

In questo acquarello ciascuno può vederci quello che vuole.
Può darsi anche altri credano che il gioco di colori rappresenti un tramonto
sull’acqua, ma sono certa che il paesaggio che vediamo non sia lo stesso per
tutti, probabilmente nemmeno i colori.  L’epifania di ieri sera era qualcosa del
genere. Una persona, o un’animale, non sono mai gli stessi: cambiano a seconda
del contesto, e cambiano a seconda di chi li osservi. Prendiamo Briony, il mio
cane: potremmo dire che è un cane da caccia, se la porto a caccia; che è un
cane da prove, se la porto alle prove; o che è un cane da compagnia, se la
metto sul divano.  È lo stesso cane, ma
diventa ogni volta qualcosa di diverso. Così come Rossella può essere vista in
tanti modi a seconda di quello che sta facendo. 
Siamo quello che siamo perché siamo o… siamo quello che siamo in base a
quello che facciamo?

Cosa ci definisce? Il contesto? Quello che facciamo? Noi
stessi? Gli altri? Un po’ tutte queste cose, messe insieme. Avete presente certe
insalate di riso, d’autore anonimo, in cui si butta dentro un po’ troppo di
tutto? Si rischia di essere percepiti così, o peggio ancora di diventare una di
quelle pizze con troppi ingredienti, tanto invadenti da non lasciare cuocere la
pasta.  Per mantenerci integri, e ben
cotti, serve un po’ di autostima, solo così ci autodefiniamo.

Lo stesso cane a cui io voglio un mondo di bene, potrebbe
essere, per altri, un disturbo: altro che fenomeno di qui e fenomeno di là, è
solo un cane che abbaia. È solo il cane che ti obbliga ad attraversare la
strada, perché il tuo lo vorrebbe azzannare, o il cane che rende difficile la
consegna delle casse dell’acqua.  Per
inciso, non ho mai definito il mio cane un fenomeno, ma mi piaceva l’idea di
usare questa parola per evidenziare la soggettività, a volte persino la miopia,
con cui si percepisce la realtà.

Individuale, soggettivo, relativo: il mondo è ciò che
percepiamo, anche le persone. La precarietà sembra acuirlo.  Di questi tempi non si può, per lo meno io
non riesco, fare a meno di sentirsi un po’ Mercoledì Addams: pensate ai morti
di Coronavirus, chi erano costoro? La stessa persona, quasi sicuramente, era
tante persone: cambiava a seconda del contesto e dell’osservatore. Quello che
era il signor Arancioni (ho preso un colore meno diffuso di Rossi, o Bianchi, altrimenti
mi accusano di portare sfiga) in ufficio, probabilmente non era la persona che
conoscevano in famiglia; né quella a cui erano abituati gli amici, o i compagni
di hobby. 

Una luce bianca quando passa da un prisma si scompone in
tanti colori.

L’acquarello blu, non è solo blu: c’è viola, rosa, giallo, arancio, azzurro, grigio, nero, una punta di bianco. L’acquarello blu è tante cose, insieme.

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Quattro passi dentro casa: le mensole bianche

Due mensole bianche, queste le protagoniste della giornata. Provate voi a scrivere qualcosa di interessante e di intelligente su due mensole bianche. A raccontare, a colpi di foto photoshoppate, l’ultima in Papua Nuova Guinea, è capace anche una talpa. Senza offesa per le talpe, lo dicevo perché le talpe vedono poco, quindi credo fotografino anche peggio. La vacanza, il regalo, il successo sportivo, la cattura della bionda, insomma sono queste le cose più postate sui social.  Molto più facile scrivere “Il mio cane ha vinto un 1 kg di formaggio alla gara dove c’erano altri tre concorrenti”. Ogni riferimento a cose e ha persone è puramente casuale, sia mai che io intenda di penna ferire. Però, anche se adesso è parecchio di tendenza dire che non state sui social: chi è chiuso in casa, dove volete che sia? Quelli che mancano, tutt’al più sono i post auto-celebrativi, non c’è proprio nulla da celebrare. I post sulle mensole? Al di là delle difficoltà intrinseche, non è nemmeno normale sparpagliare parole sulle mensole.

Eppure la mensola è qualcosa di molto egualitario, tutti
abbiamo almeno una mensola, nella peggiore delle ipotesi la teniamo sul
pavimento del garage perché non siamo capaci di fare due fori nel muro, e di
questi tempi è meglio non fare entrare nessuno in casa. Ho detto che la mensola
è egualitar-proleataria, non che “siamo tutti sulla stessa barca”. Qualcuno
deve aver osato dirlo, in questo periodo intendo, e sono scoppiate rivolte. In
effetti c’è chi viaggia su uno yacht, chi ha la zattera di Tom Sawyer, chi sta
attaccato ad un tronco e chi ha fatto naufragio. La reclusione in spazi interni,
però, è egualitaria: mancano la libertà e la fraternità, ma tutti abbiamo un
muro da fissare. Magari abbiamo anche una finestra, e lì iniziano le
differenze: il panorama cambia e, con lui, anche la carica virale che ci
aspetta fuori.

Comunque, le mensole bianche stanno sopra alle cornici blu e
al divano dell’Avanella. Sono due mensole Ikea, non ricordo la serie, Lack
forse. Le avevo scelte bianche perché mi piacciono i mobili bianchi e perché il
bianco crea un bel contrasto con malva della parete. Ovviamente c’era la
fregatura, e io sono stata un pollo: il mobile bianco sintetico ingiallisce e,
a distanza di anni, costoro hanno assunto un colorito sinistro, tra il
giallognolo e il verdastro.  O, forse, ho
avuto la vista lunga: adesso le mensole sono quasi dello stesso colore del passepartout.
Se non sono rimaste distese sul pavimento del garage, lo devo a mio zio, un dei
pochi, in genealogia, a saper far due buchi ne muro. Gli ho chiesto di insegnarmi,
ma lui ha cambiato discorso. Eppure, le prime mani di malva le avevo date io:
dopodiché ho sempre chiamato l’imbianchino.

Sulle mensole massicciotte e io ci ho messo un sacco di
cose. Partiamo dal lato che più dà verso l’esterno: dalla libertà alla
clausura. Come prima cosa troviamo un telefono cordless. I fili che lo
collegano alle prese, quella telefonica e quella elettrica, penzolano come due
liane fino a raggiungere, all’incirca, l’altezza al garrese di un fox terrier,
lì iniziano ad ingarbugliarsi. Il cordless è bianco, ma è stato un caso,
ed economico, tanto non lo usa nessuno. Io non rispondo a telefono fisso, la
linea esiste solo per la fibra. Chi mi conosce lo sa, quindi quando suona il
fisso: A) non è per me; B) è un parente molesto; C) è una televendita e D) è un
ladro che vuole sapere se sono in casa. I casi A, B e C è meglio perderli che
trovarli, il caso D, se il ladro mi trova in casa, il problema diventa il suo.
Vi garantisco che se ne andrebbe, nella migliore delle ipotesi, solo per
sfinimento ma, a proposito di sfinimento, avete notato anche voi che con la
quarantena sono scomparse le telefonate dei call center?

Non chiamano neanche più sul cellulare, a dire il vero, non
che io d’abitudine risponda al cellulare. Sostanzialmente le telefonate non mi
piacciono. Si disturba sempre quando si chiama qualcuno, nessuno ha il coraggio
di dirvelo in faccia e riassetta la voce invece di mandarvi al diavolo: un
atteggiamento di facciata. La telefonata è invadente, la telefonata interrompe.
La telefonata è arrogante, salta persino la fila: vi è mai capitato di essere
in coda da qualche parte, sta quasi arrivando il vostro turno, avanzate con la
lentezza di un gasteropode, e a ogni persona fisica smaltita, segue una pausa
lunga tre telefonate. L’operatore non taglia corto, e voi che vi siete vestiti,
preso una secchiata d’acqua e parcheggiato in divieto siete lì in piedi a farvi
saltare davanti da un fantasma in pantofole che sta sgranocchiando un babà,
bella roba.

Accanto al telefono acchiappa polvere, abbiamo tre
contenitori porta riviste in cartone. Sono bianchi a fiori blu, quasi come il
divano dell’Avanella. Essi contengono qualche rivista di caccia sudafricana, un
atlante colorabile sull’anatomia del cane, delle fotocopie e dei libri
fotocopiati. Illegali? Nì, è tutto setterume (roba di setter) fuori stampa,
italiana e estera, non avevo altro modo per leggerli.  A seguire abbiamo il libro di Stanley Coren,
lo psicologo americano che, invece di fare lo psicologo, ha il vizio di
scrivere di cani. Questo libro, però, si chiama “Cani e Padroni”, infatti parla
anche dei padroni.  Il prossimo lotto
sono i due libri di anatomia (Nickel et al.) che erano il requisito minimo per
passare l’esame di neuroanatomia col Ferrandi. Per chi ha conosciuto il Ferrandi,
non serve aggiunga altro, chi non ha avuto il piacere, meglio così. Dopodiché
abbiamo l’isola blu: il librone di microbiologia e immunologia veterinaria.
L’hanno scritto dei vip del settore e, visti i tempi, a rivenderlo potrei farci
ei bei soldi. Avevo preso 29, che caspita di voto è 29?

Po mi sembra di intravedere: “L’uomo che ascolta ai
cavalli”; “Flush” di Virginia Woolf in lingua originale; un saggio di Chomsky
sull’11 settembre, ormai passato di moda e “Le malattie infettive del cavallo”:
questo è un po’ più attuale. Come vicino di mensola abbiamo “Le malattie del
cane” della “zia” Lucia Casini, docente unipi.it. Quella cosa ricoperta con la
carta a quadretti di una vecchia colomba pasquale è il libro di embriologia,
quando si dice non voler vedere.  Il
libro successivo, al contrario, “Training Your Own Birdog” ha il titolo in bella
mostra e viene da una biblioteca del Maryland, via Ebay: lieta di averlo salvato.
 Siccome la logica non mi piace, accanto
a lui troviamo “La cucina orientale”, di Pearl S. Buck. Prima di avere la copia
originale del 1975, trovata dall’Augusto, il rigattiere di Piazza del Duomo a
Pavia, ero sopravvissuta con alcune fotocopie dello stesso. L’apertura degli
italiani alla cucina etnica ricordiamocelo, è piuttosto recente e, sempre per
essere coerenti, le poche cose che ho cucinato in vita mia, torte escluse, sono
orientali, e vengono da questo libro. Pearl S. Buck (1892-1973), per chi non lo
sapesse, è una scrittrice americana che ha vinto sia il Nobel che il Pulitzer e
che ha trascorso gran parte della sua vita in Cina.

Tre libretti sui cani, di cui uno sui setter, la separano da una fila di copertine color pastello. Sono i 102 Classici del ‘900 di Repubblica, ne ho solo 54, ma fanno la loro porca figura. A me piace vedere varietà tra le pile di libri, ma queste collane hanno un senso: servono a chi compra i libri per metterli in soggiorno e far vedere che legge. L’esistenza di tali individui è reale, ne sono a conoscenza fin dalla prima infanzia. I libri sono sempre stati una calamita per me, quando non sapevo ancora leggere guardavo le figure e pretendevo che gli adulti mi leggessero le parole. Non ho mai rubato caramelle, ma libri sì. La leggenda vuole che all’età di circa quattro anni, fui portata a casa di amici dei miei per una delle solite cene. Cosa accadde? Qualcosa di molto imbarazzante: attratta dai libri, iniziai a toglierli dalla libreria, erano bocchi di polistirolo nascosti da sovra-copertine! Non vorrei sbagliarmi, ma mi pare non ci invitarono più a cena. Ho deciso di non presentarvi i 54 libri uno per uno, però tra di loro c’è un secondo libro della Buck, “Vento dell’est, vento dell’ovest”, e “Possessione” un romanzo molto British che mi era piaciuto assai. Altrettanto British sono gli annuari dell’English Setter Association of UK che arginano la collana. Blu. Indaco e turchesi attaccati al rosso di una raccolta di tarocchi Shining Tribe verso cui non ho mai provato una particolare empatia. La prima fila di libri termina con altri due volumi di anatomia veterinaria, quelli dell’esame di Anatomia Veterinaria II.

Però c’è anche una timida seconda fila, ovvero qualche libro
che, siccome non sai dove mettere, finisce in cima a quelli messi in ordine. Al
centro di tutto una mattonella misteriosa ricoperta con la pagina di un
calendario. È una mattonella che adoro: è stata ricoperta per proteggerla. Dietro
la carta c’è… “The Norton Anthology of English Literature”, 2656 pagine scritte
in caratteri minuscoli. Le ho lette e tradotte, una per una, per la mia “prima
laurea”: l’esame funzionava che aprivano una pagina a caso, dovevi tradurre
quello che ti capitava e dimostrare di averlo letto. Sto provando or ora ad
aprire a caso e mi escono Wordsworth (si può fare); Milton (insomma); Marlowe;
Pope; Tennyson. Se voglio Joyce, Chaucer, Yeats o Beckett li devo andare a
cercare, e con loro trovo anche un segnalibro con un setter che indica l’inizio
del XX secolo. Sembra proprio un secolo fa.

Gli altri libri senza fissa dimora sono di un certo rango e si
sono nascosti nel cellophane, perché se aspettano che io li spolveri… Abbiamo: “Cacciatori
si diventa” (1956); “Addestramento del cane da ferma” (1931) e “Il pointer”
(1974). Gli ultimi due stanno, uno ciascuno, in dei sacchetti per surgelati.

Esauriti i libri, rimangono i alcuni soprammobili sopravvissuti allo sterminio, non amo particolarmente genere.  Un bovaro del bernese in pelouche, proveniente da New York, un mezzo palco di daino, un sasso che riproduce un mio cane e una tavolozza con al centro una grouse, e tutti attorno altri selvatici da piuma tipici della Britannia.

Se ti è piaciuto trovi il precedente qui e il successivo qui.




La quarantena dei cani da caccia (e non)…

Questo pezzo si riallaccia a quello in cui invito i
cacciatori a farsi portavoce della propria passione. Bene, per quel che ho visto
fino ad ora, sia i cacciatori, sia i cinofili che partecipano a prove di lavoro
con cani da caccia, si stanno comportando egregiamente per quanto riguarda la
gestione dei cani in quarantena. Credo di poter dire la stessa cosa anche di
coloro che hanno altri cani sportivi, come quelli da canicross e sleddog.

Come voi sapete, i nostri cani hanno tanto, tanto tanto,
bisogno di fare attività fisica e di esplorare. Credo che i “peggiori”, in
questo senso, siano i cani da ferma e i cani da slitta, i segugi sono un po’
più calmi per natura. Io, dopo una fuga dalla recinzione, che per fortuna non
si è più ripetuta, ho messo il GPS addosso alla cucciola. È un semplice Tractive,
un GPS per poveri insomma, ma che funziona anche come fitband. In pochissimi
giorni, stando quasi esclusivamente in giardino, la canina ha scalato le classifiche
mondiali per l’attività motoria. Cioè, vi rendete conto? I miei cani escono tutto
l’anno, quale sia il clima, quale sia la stagione. Se si va a caccia e si
lavora, meglio, se non sì può facciamo lo stesso dei lunghissimi giri al
guinzaglio. Sono un compromesso e sono scomodi, per loro e per me, ma è
qualcosa di cui loro sentono la necessità. Io non mi diverto affatto, farei
volentieri altro.

Per chi non lo sapesse, ho scritto una tesi di laurea sul benessere
del cane da caccia: uno dei punti fermi, quando parliamo di benessere di un
animale, è il rispetto dei fabbisogni etologici propri della specie. L’esplorazione
del territorio è, per il cane, un fabbisogno etologico. Il quantitativo di esplorazione
di territorio, necessaria al soddisfacimento dei bisogni, varia a seconda della
razza in questione. Ci sono circa 400 razze canine, ciascuna ha una sua
peculiarità. Facendo di quasi tutta l’erba un fascio, le razze da caccia hanno
una necessità di esplorazione del territorio altissima. Parliamo di cani che in
lavoro fanno decine di chilometri al giorno. Non soddisfare queste necessità etologiche
genera stress, che se diventa cronico genera patologie, fisiche e comportamentali:
lo stato di benessere viene meno e scivoliamo verso il maltrattamento animale.
Per questo, quando i miei cani non possono correre facciamo almeno 8-10
chilometri al giorno marciando al guinzaglio, una marcia bella sostuenuta.

Siamo a di fronte ad animali da lavoro, più che da compagnia,
animali per i quali non potersi muovere e non poter correre è molto grave. Se
non lo sapete, ve lo dico io, una delle ultime circolari, ha riammesso l’allenamento,
a porte chiuse, dei cavalli da corsa, chiedetevi il perché. I nostri cani non
sono tanto diversi da cavalli da corsa, ma in materia di cani è impossibile legiferare
con la stessa chiarezza: troppo labile il confine tra cane da lavoro, finto
cane da lavoro e cane da compagnia. Eppure, nessun proprietario di cane da
lavoro, a quanto ne so io, si è lamentato nel veder equiparare il suo bracco
tedesco da 25/30 km al giorno, al pechinese da divano della signora del
condominio verde. Nessuno, e dico nessuno, ha alzato la voce, rotto le scatole,
o chiesto dispense.

I cacciatori che escono con il cane tutto l’anno (quelli che
escono solo da settembre a gennaio non li considero nemmeno), anche quelli che
abitano in campagna, si sono adeguati. Quasi nessuno carica più il cane in
macchina: in tanti mi raccontano di cani che, sconsolati guardano l’automobile
e sembrano chiedere perché non possono salire. I pochi “evasori”, che ancora si
azzardano a far fare una corsa al cane, vanno di nascosto, appena prima dell’alba,
in posti improbabili: quando inizia ad esserci troppa luce rientrano.  Io, che non ho mai imparato ad alzarmi all’alba,
cerco comunque di alzarmi il prima possibile e faccio un giro con i cani al guinzaglio,
in mezzo ai campi.  Sì, faccio più di 200
metri, ma sto attentissima a non incontrare nessuno, a non passare troppo
vicino alle case, e a non continuare ad andare avanti e indietro. È finita qui,
poi faccio un giretto attorno a casa dopo cena. E faccio le stesse cose qualunque
sia il clima. Non ho il benché minimo piacere di farmi vedere in giro, mi
sembra di fare un torto a quelli che stanno in casa. Né una passeggiata in
mezzo ai pollini – a cui sono allergica -(e al virus) trainata da due cani, ha
alcunché di ricreativo.  I cani in
compenso sono nervosi perché, per tutta la giornata, stando in giardino, subiscono
un continuo via vai di cani, gatti (escono anche un sacco di gatti ultimamente),
biciclettari senza cane, runners, bambini, passeggiatrici, sembra di stare in
una località di villeggiatura.

Da quando è stato dichiarato che praticamente a spasso ci
puoi andare solo con il cane sono comparsi cani che non erano mai usciti di
casa in vita loro. Oppure, lo stesso cane viene portato fuori 6-7-8-10 volte al
giorno da un familiare diverso.  Il cane
è generalmente una creatura di 5kg che se ne starebbe volentieri sul divano.
Vedo bouledogue trascinati, cani anziani mezzi zoppi, labrador obesi che, prima
d’ora non avevano mai messo il naso fuori dal cortile. A loro non interessa
esplorare il territorio, questi cani non hanno bisogno di fare decine di
chilometri al giorno: hanno semplicemente dei proprietari che credono di essere
più furbi.

Nessun cane atleta, nessun cacciatore, nessuno sportivo con
il cane. Solo tanta “brava gente” ingenua al punto da credere che poter uscire,
oggi, sia un privilegio. Tanta “brava gente” senza senso civico né rispetto per
chi con il Covid 19 è volato via.




Quattro passi dentro casa: l’imprevisto

Per oggi, in programma avevo messo la mensola, o il muro,
non avevo ancora deciso, ma tutti i miei programmi sono saltati. C’è stato un
imprevisto: un’inezia in tempi normali, un guaio quando hai un’epidemia in corso.
Mi fa quasi paura dirlo: sono dovuta andare al supermercato.

Antefatto, il 21 febbraio, giorno di individuazione di
Mattia, il presunto paziente 0, ero a Lodi. Codogno e Lodi sono vicine: ricordo
bene il barista, forse di Codogno, inalberarsi perché quel “coglione” se ne era
andato in giro per tanti giorni, come se fosse sano. Lo ascoltavo pensando, con
mezzo cervello, che il povero Mattia non aveva idea di essere malato, l’avevano
persino spedito via dall’ospedale. Con l’altra metà di cervello, guardavo i
cartelli che avvisavano delle chiusure di mensa e bar in occasione della
Pasqua, e del 25 aprile.  Guarda un po’,
oggi è Pasqua, chissà che fine avranno fatto quei cartelli: mesi spesi ad
avvertire… nessuno.

Noi veterinari le epidemie le conosciamo, nessun vet ha sottovalutato il coronavirus, però, una timida confidenza da parte della categoria ve la devo fare: “Pensavamo che venissero adottate misure di contenimento più incisive. Pensavamo che venissero adottati piani di monitoraggio più accurati, facendo ricorso ai test di laboratorio. Pensavamo che tutti noi saremmo stati classificati come sani, malati, portatori e magari anche immunotolleranti. Pensavamo che la gente avrebbe avuto un filo in più di senso civico, o che sarebbero arrivate delle multe salate.” Invece, colpa di tutti, o di nessuno, la tempesta, si è trasformata in un uragano. A proposito, a che lettera siamo rimasti con la nomenclatura degli uragani? Nel dubbio, ripartirei dalla A e, trattandosi di corone, Adelaide dovrebbe suonare abbastanza regale.

Ve la ricordate Cassandra? Non è un’attricetta da cinepanettone,
è quella della mitologia greca: ecco, mentre io iniziavo a premurarmi di non
contrarre il virus, limitando uscite e contatti umani, tutti mi davano
dell’estremista germo-fobica. Ammetto che si metteste ad urlare “Orsetta!!!”
per strada, mi potrei anche girare, e non solo perché da lontano suona simile a
Rossella.  Però, non stavo giocando
all’asociale, ero semplicemente consapevole.

Il mio ultimo ingresso in un supermercato, cioè il penultimo, se consideriamo anche ieri, risale a quei giorni lì: scaffali mezzi vuoti e gente che non aveva ancora capito che doveva stare “su dà dosso”, nonostante i miei sguardi molto espliciti. Entrare di nuovo in un supermercato? No, grazie, andate avanti voi! Però, mentre incredibilmente la scuola italiana, cioè tutta la scuola italiana tranne unimi.it, è riuscita a traslarsi online, i supermercati sono tornati ai tempi del telegrafo. Esselunga Online non funziona; Bennet Drive si pianta; LIDL non consegna nel comune in cui è collocato, ma consegna altrove; Iper e Carrefour sono distanti. Resterebbe la Protezione civile, con un po’ di farina nei capelli, uno scialletto e gli occhiali morsicati dal cane potrei anche gabbarli, ma… I negozietti di quartiere? Sto in una frazione senza negozi, urbanizzazione residenziale molto anni ’80. Però negli anni ’80 eravamo un filo più smart e qui c’era un supermercato a due piani. Chissà perché pensando agli anni ’80, mi viene in mente il maglioncione fucsia in angora con un gigantesco fiocco sul davanti, chissà che fine ha fatto. O la tuta nera di Topolino con le scritte rosa evidenziatore.

However, ho tirato circa 40 giorni senza entrare in
un supermercato, come ho fatto? Beh, in famiglia c’è fin troppa gente che smania
dal desiderio di andare al supermercato, risolvendomi il problema, ma anche se
non avessi forma di vita intorno, tolti i cani, sarei comunque rimasta
serenamente lontana dagli scaffali.  Stando
ai social, tutti gli italiani si sono messi ad abbuffarsi e a cucinare: io
reclamo la mia coerenza, e non mi vergogno a dire che di mangiare, mi importa
meno di prima. “Stai mentendo! Panifichi!” Non esattamente: panifico
conto terzi per tenere gli anziani di famiglia lontano dal panettiere, gioco al
piccolo chimico con le cotture, e al piccolo allevatore con i lieviti. Tutto
qui.

Sostanzialmente il supermercato non mi serve, ho il freezer
pieno e il porto d’armi. Nel mio congelatore ci sono starne, fagiani, cinghiali,
pizze, qualche piatto pronto e persino… Un quarto di pastiera annata 2019, che
non ho ancora scongelato, di questo passo la mangerò a Ferragosto. C’è anche la
torta della Laurea in Medicina Veterinaria: se i Windsor conservano per decenni
le loro torte di nozze, lo posso fare anche io. Quanto ai supermercati, ne ho
diversi vicino a casa e, in momenti asettici, li ho sempre frequentati in orari
infelici, a testimonianza del mio disamore per le folle. Non uso carrelli, solo
borse e cestini: vado, compro ed esco, niente indugi. Come tutti, ho delle preferenze:
mi piacciono gli assortimenti di Esselunga, Iper e Carrefour, ma sono scomodi.  Vicino a casa ho Bennet, Italmark e LIDL. Il
mio preferito è il tedeschino giallo e blu: è piccino, economico, e intrigante:
propone sacco di stranezze che gli altri non sanno inventarsi. Italmark ha la
freddezza di un Iceberg e io mi sento il Titanic, il Bennet è troppo festa di paese
e io sono la solita snob.

Come se adesso avessi il diritto di scegliere: Conte ci ha
detto che dobbiamo stare a casa, e sfamarci con quello che abbiamo dietro casa.
Fare la spesa potrebbe pertanto voler dire: andare nell’orto, bracconare un
cinghiale, rubare le uova a un agricolo o, se proprio sei sfigato e vivi in mezzo
al cemento… andare al super. E qui insorge il problema delle code: i signori
della grande distribuzione hanno subito approfittato di quella legge che
impedisce di tagliare le code… ai cani. Come se non mi fosse stato chiaro il
concetto, in mattinata mi erano arrivate immagini dell’Esselunga di San Donato Milanese
alle 7.00 AM: una coda che… lasciamo perdere. Ma seriamente, quanto mangia la
gente? Considerando che sento da sempre un certo bisogno di spazio attorno a
me, mentre facevo opera di auto-convincimento per uscire di casa, ho mantenuto
un punto fermo: fankulo la coda, se c’è lei, vengo via io.

Così, tra una meditazione e un’indagine di mercato, per
capire chi andasse al supermercato, sono arrivate le 7.00 PM. Quelli in coda
dalle 7.00 AM, avranno finito di rimpinzare i carrelli? Dopo un serrato testa a
testa con Italmark, aveva vinto il Bennet in virtù della parafarmacia. La carne
delle bestiole era esaurita, ma la bestiola junior, aveva sabotato il
mio piano di bracconaggio azzoppandomi. Strattone triplo carpiato, e quello che
dovrebbe essere il tensore della fascia lata si era messo ad urlare, sin dalla
notte precedente. Impossibile sdraiarsi, o sedersi, impossibile provare a Keep
Calm & Carry On
senza una botta di chimica. E qui comincia l’avventura.

Introduzione: l’orario era da terno al lotto. Ci sarà
ancora gente? Non ci sarà più gente? E… se insieme alla gente fossero spariti
anche i viveri? Ragioniamo: gli anziani privi di personal shopper shoppano
alla mattina; le siure alle 7.00 PM cucinano, e quelli col cane stanno
in giro col cane.

Capitolo I: L’Abbigliamento. Più difficile è la
missione, più è importante non dare nell’occhio. Se il virus non ti vede, va da
un’altra parte. Niente lenti a contatto, l’occhiale lilla protegge di più.
Niente correttore e fondotinta, occhiaie e pallore ti fanno sembrare già
malato, non è il caso di infierire. Solo di una cosa non posso fare a meno, la
spazzolata alle sopracciglia, che ancora un po’ mi cascano negli occhi.  L’abbigliamento lo descriviamo dal basso:
scarpe da trail Decathlon, perché dovendo scegliere tra Fight or
Flight
, di questi tempi meglio sgommare. Jeans a gamba dritta blu scuro H&M.
Li avevo presi all’Iper Montebello quando è nata Briony. Ci entro ancora, sono
di un bellissimo blu notte, e chissene frega se c’è uno strappo sul ginocchio.
Magliettina sintetica Zara, a righe con base fucsia con una punta di ametista:
fingiamo un atteggiamento positivo, con tanto di anti-sfiga. Capelli rivendibili
nel reparto ortaggi.  Nessuna borsa (si contamina),
solo una bella shopper in tela verde bottiglia: tanto lavabile, quanto
arrogante, essendo sponsorizzata da Armi Magazine. Al suo interno un paio di
guanti e il portafoglio. Il tocco di classe lo avrebbero dato i soprascarpe
monouso turchese, ma poi? Se mi tolgo prima i guanti blu Mediterraneo, per
toccare il portafoglio viola quaresima, poi con cosa tolgo i soprascarpe
turchese? Con un secondo paio di guanti blu Mediterraneo? E se, per, malasorte,
la coppia di guanti blu Mediterraneo contaminata, incontra la coppia di guanti blu
Mediterraneo, allevata in purezza? Pirandelliano, via i soprascarpe.

Capitolo II: La Macchina. Non l’accendevo da più di una settimana. L’ultima volta l’ho fatta girare stella attorno a casa, con diagonali non più lunghe di 200 metri. Mi è parsa felice di vedermi, ma credo sperasse la portassi in campagna. L’ho capito dalla cimice che passeggiava sul volante: camminava avanti e indietro, mentre io non riuscivo nemmeno a posare il gluteo sul sedile. Ho ignorato la cimice e sono partita, abbattendo il muro dei 200 metri, con il quale se ne sono andate un sacco di false certezze. Se la gente deve stare in casa, e uscire solo per reali NECESSITA’, se io sono stata più di 40 giorni, da cui il vocabolo “quarantena”, senza vedere un semaforo, com’è che c’è la solita coda al semaforo? Dove vanno costoro? Non ne ho idea, per fortuna non andavano dove andavo io: il parcheggio del Bennet era stato sfoltito dalle auto. Sembrava un melo appena potato, frastornato e illuminato dai raggi dell’ora dorata. Qualche persona sostava in prossimità dell’ingresso, alcuni a cavalcioni di una moto, altri in piedi: le finte spese per uscire di casa a parlare col cellulare. Lo sportello esterno del McDonald era chiuso.

Capitolo III: Il Supermercato. Spente le luci in galleria: anche qui aveva vinto l’ora dorata. Non ho mai capito perché tutti ammattiscano per fari e faretti. Luci spente e commessi assenti. Serrande e saracinesche abbassate, e se la serranda non c’era mai stata, via con i nastri di delimitazione, non superate la riga.  Procedevo dritta con guanti, mascherina e borsone, l’elisir da trangugiare prima della battaglia. Un vigilante, ecco il primo intoppo: “Deve prendere il carrello!”, “Devo proprio?”, “Sì”. È una regola stupida, ecco l’ho detto, non a lui, a voi. Cinque anni di medicina veterinaria, cinque anni a studiare la biosicurezza, un mese in un laboratorio più-o-meno sterile in cui si fabbricano embrioni bovini… Tanta sapienza frantumata da un Vito Catozzo in giacca nera. Perché devo toccare un caspita di carrello contaminato che hanno toccato altre centinaia di persone? In quel momento ho sentito l’odore del sigaro di Sir Winston: “Keep Calm & Carry On”.  Quel fumo non mi ha nemmeno scaldato, con una temperatura corporea di 35.7, potevo tranquillamente entrare. Tranquillamente per modo di dire, mentre claudicante mi accingevo a concludere la prima falcata, l’altoparlante strillava, cioè, raccomandava, di fare in fretta. Davanti a me un’orgia di uova di Pasqua, colombe e coniglietti, ma la gente sta sempre a mangiare? Inizio a provare più empatia verso coloro che affogano i dispiaceri nell’alcol.  Proseguivo lenta e silente con paraocchi e museruola. Flector: spuntato. Insalata: pigliane una insacchettata e andiamo. Sushi: costa caro e lo hanno toccato in troppi, lascia perdere. Farina DIMENTICATA. Latte e ricotta per le creature: spuntati. Trita per le creature: sarebbe stato meglio andare all’ingrosso-che-costava-meno, spuntata. Olio di canapa per le creature: spuntato. Per smettere di sentirmi un rider di Glovo, ho acquistato per me il primo sacchetto di patatine avvistato; un caprino fresco DOC DOP DOCG IGP ECOBIO e chissà che altro, e un filetto di tonno fresco che non credo ricomprerò mai più. La voce dell’altoparlante ci stava addosso come un leone che incalza le antilopi, ma i pochi presenti, me compresa, andavano piano. L’impressione che galleggiassimo tra le luci dei neon nuotando da uno scaffale all’altro. Più che stare tutti nello stesso mare, la sensazione era quella di stare nello stesso acquario: pesci, molluschi, crostacei eccetera, tutti a battagliare contro la stessa acqua (aria) inquinata. Diversi, tra i crostacei adolescenti maschi, si perdevano ogni volta che si sganciavano da uno scaffale, curioso vederli chiedere l’AIUTO-DA-CASA a mamma crostaceo. Io mi sono lasciata, in qualche modo, trasportare dalla corrente, il mio personale ruscello trasportatore mi faceva prendere questo è quello. Ho scritto “prendere”, non “scegliere”. Ero quella che compara, che guarda le etichette, che controlla le date di scadenza: chissà quando potrò tornare ad essere così.

Capitolo IV: La Cassa. C’è una cassiera bionda. È una
bionda per finta e ha i capelli crespi, vaporosi. Di questi tempi, restare bionde
per finta è un miracolo tradito solo dal giallo canarino, dagli occhi scuri e
dalla pelle olivastra. La mamma di Barbie Malibù è arrabbiata perché lei “era
stata a casa, perché era stata male” (!!!), la sua collega invece sta a casa
per finta”
. Nel dubbio estendo le distanze, lei ha un grembiule rosso e tanta
voglia di chiacchierare.

“Lei sta andando a lavorare?” Ok, insomma è complicato,
vai tu a spiegare in due parole, la vita di un “libero professionista” iscritto
a due ordini professionali. Un saltimbanco, così ho semplificato. “Beh
lavoro da una vita da casa
(VERO) e diciamo che ho praticamente
annullato quello facevo fuori casa.”

Così ha replicato “Quindi lei è abituata a stare in casa,
a lavorare da casa?”

“Si certo, non è nulla di nuovo per me”.

“Perché vede, io per fare il mio lavoro devo venire qui.
Ma la gente, tanta gente, sa quelli che andavano in ufficio, magari avanti e
indietro a Milano, adesso lavorano da casa. Quindi… è possibile! Perché non ci
hanno pensato prima? Anche per l’inquinamento”.

Capitolo V: La Galleria. Lo hanno capito anche le bionde, PUNTO. Ho salutato, ringraziato, tolto i guanti, preso la borsa per il manico con un pezzo di Scottex tarocco e ho percorso a ritroso la galleria.  Bottega Verde, Erbolario, negozi di intimo, gioiellerie, abbigliamento, Kiko, Sephora, Carpisa, Vodafone, le solite catene da centro commerciale qualunque. Poi un’agenzia di viaggi con decine di offerte in bella mostra; Paolino, quello che credo faccia il pollo arrosto; la gelateria con il gelato che sa di polverina; il McDonald, con i macarons fluorescenti, che il primo lunedì del mese ti regala una tazzina di caffè, e tutta la piazza del cibo.

Io, il silenzio e la luce dell’ora dorata.

Se ti è piaciuto trovi il precedente qui o il successivo qui.




Sii portavoce delle tue passioni

Gentaglia, o brava gente? Stando a dati di qualche giorno fa, le donazioni da parte dei cacciatori per l’emergenza COVID_19,  hanno superato il 1.500.000 euro. A queste donazioni “identitarie”, ovvero fatte attraverso le associazioni di categoria, andrebbero sommate anche quelle fatte singolarmente. So per certo di cacciatori che hanno fatto, di loro iniziativa, offerte a enti e ospedali. Andrebbero anche calcolate le offerte che sono state fatte, e che verranno fatte, in “memoria di”, perché purtroppo il coronavirus si è portato via anche molti di noi. Non sapremo mai, con esattezza, quanti soldi sono stati donati dai cacciatori, ma in fondo… che ci importa? Ricordo le donazioni dei cacciatori per il terremoto dell’Emilia e per i successivi, ma chi se le ricorda? Forse quelli che le hanno fatte, forse quelli che le hanno ricevute, ma l’opinione pubblica? Se il mondo se ne è scordato, che ci importa? Vuole la categoria guadagnare visibilità attraverso le offerte? Credo proprio di no, anzi, al contrario, molti tra coloro che hanno donato, lo abbiano fatto per il piacere di farlo, perché sentivano di dover donare, non per essere notati, o ringraziati.

Sia chiaro, avete e abbiamo fatto tutti bene a donare, è
sicuramente una bella dimostrazione di solidarietà da parte della categoria, ma
da sola non basta. Infatti, come avrete sicuramente letto, gli animalisti hanno
inventato dei pretesti per attaccarci, inventandosi che le donazioni non erano
vere, eccetera eccetera. Attaccano persino perché, ad oggi, la stagione
venatoria 2020/2021, non è stata sospesa. Come se non ci fosse un indotto
dietro alla caccia, come se non ci siano (di già) degli allevamenti di selvaggina
che scoppiano, come se la Beretta non avesse riconvertito parte della sua
produzione alla creazione di valvole per i respiratori.

Queste cose però le sappiamo solo “noi”, sono notizie che
non fanno rumore. Questo nostro “noi”, invece, deve aprirsi, smettere di essere
un cerchio chiuso, deve espandersi. Lì fuori devono capire che siamo “brava
gente”, devono capirlo attraverso i nostri gesti di tutti i giorni, gesti di
vita e gesti di caccia. Sulla vita di tutti i giorni, cosa volete che vi dica:
non fregate i parcheggi, aiutate le vecchiette ad attraversare la strada,
magari fermatevi se per terra vedete delle strisce pedonali, queste cose le sapete
già, non mi dilungo.

Quanto alla caccia, diventate ambasciatori della vostra passione. Fermi, alt, dove andate, tornate indieeeeetro! Non vi sto incitando ad aprire improbabili profili Instagram per esibirvi tipo influencer dei poveri, NO-NO-NO! Di questi, e soprattutto di “queste”, ne abbiamo già abbastanza: non deve importarci della nostra di visibilità, deve importarci della nostra passione. Occorre spiegare, con saggezza, quello che facciamo. Il 28 di marzo avevo in programma una giornata per raccontare i cani da caccia in un centro cinofilo; il 16 di aprile sarei dovuta andare in una scuola elementare a parlare di cani, inclusi quelli da caccia.  Questi sarebbero stati esempi di divulgazione positiva e propositiva, ovviamente sono saltati, ma qui non ci si perde d’animo.

Io per esempio faccio colazione sfogliando quelle vecchie
riviste cinofile e venatorie che non ho mai avuto il tempo di leggere. Sono
certa, o per lo meno mi auguro, che ne esistano a pacchi anche nelle vostre
case, così come spero che qualcuno di voi abbia ancora vecchie pubblicazioni
degli anni ’30, ’40, ’50, eccetera. Ve li ricordate i disegni di Lemmi? Vi
ricordate con che garbo e con che classe erano discusse la caccia e la
cinofilia? Bene, riprendiamo in mano quelli scritti e lasciamoci ispirare,
scriviamo anche noi (su questo blog c’è sempre spazio per i contenuti di
qualità) e cerchiamo, attraverso i social, che oggi sono l’unico contatto con
il mondo esterno, di presentare le nostre passioni nel migliore dei modi.

Ho qui accanto una copia di The Shooting Gazette, è mezza
mangiata dal cane, ma leggo che è stata pubblicata nell’aprile del 2018: ci
sono andati DUE anni per trovare il tempo di leggerla. Ma ho fatto bene a non
gettarla, contiene un articolo che si chiama “Be the Best You Can Be” in
cui David Edgan ci invita a essere le migliori persone possibili durante la
pratica venatoria, e a essere i migliori portavoce possibili della caccia. Cosa
possiamo fare? Innanzitutto, comportarci bene in campo. Vale di più un fagiano,
o il rispetto delle norme di sicurezza? Altre cose? Raccogliere le cartucce
sparate, rispettare le distanze da case e strade, trattare e preparare bene i
nostri cani, ma poi? Dobbiamo anche allargare il nostro punto di vista,
comprendere l’importanza della gestione faunistica e del nostro ruolo
all’interno della stessa. Dobbiamo essere cacciatori formati ed informati,
pronti a rispondere, con dati e fatti, alle domande che ci vengono poste.
Dobbiamo conoscere le normative, le specie, l’ambiente, dobbiamo essere
preparati: in questo modo si fa divulgazione, solo così si tolgono le munizioni
dalle dei nemici. E poi?

Scusate se salto di palo in frasca, ma non voglio che mi
scappino le idee. Per esempio, se vi fermate in un ristorante dopo una
mattinata di caccia, siate rispettosi e sobri. Al tavolo accanto potreste avere
qualcuno che non a pensa come voi, o qualcuno che non sa nulla della caccia:
essere grezzi e volgari non è il miglior modo per presentargliela. Sui social,
comportatevi nello stesso modo. Io difficilmente posto foto di cadaveri, in
genere sono in bocca al cane o, ben più raramente, già serviti a tavola.
Fotografare piatti a base di selvaggina è un regalo che possiamo fare alla
caccia: chi li vede capisce che la selvaggina in tavola è molto buona, e che
non ci sono sprechi. Si scopre che quello che è stato abbattuto viene mangiato:
indirettamente si salva un animale d’allevamento.

Se volete pubblicare altri tipi di foto con animali morti
chiedetevi: “è etico il mio atteggiamento?” (se state ridendo con una nutria in
mano, non è etico – ve lo dico io); “fa impressione?”; “è di buon gusto?”.
Insomma, pensateci un attimo, pensate a quanti lo possono vedere, e poi postate,
o non postate.

Ricordate sempre che la promozione, sana, delle nostre
passioni è la miglior difesa e iniziate dal basso, magari invitando i
miscredenti a venire con voi al tiro al piattello, o ad accompagnarvi a addestrare
il cane.