Quattro Passi Dentro Casa: l’Enciclopedia del Cane

L’Enciclopedia del Cane sta sulla libreria a nord-ovest, quella anni ’80, ma di design. È stata collezionata con lentezza, fascicolo per fascicolo Frequentavo ancora le scuole elementari, ma già leggevo cose di una pesantezza indescrivibile. Ogni settimana arrivava un fascicolo nuovo che io andavo a ritirare dal giornalaio. I due giornalai che si sono succeduti durante la raccolta dei fascicoli avevano un entrambi un cognome che finiva in -oni e mi conoscevano benissimo: l’editoria necessita di clienti come me. Le enciclopedie, a quei tempi, funzionavano in maniera un po’ macchinosa: ogni settimana arrivava un fascicolo nuovo da ritirare dal giornalaio, poi, ogni tot fascicoli si ordinava al giornalaio la copertina.  Quando la copertina arrivava, si riportavano i fascicoli dal giornalaio che li mandava, insieme alla copertina, dal rilegatore. Dopo un tempo variabile, i fascicoli tornavano rilegati in un volume, ben avvolti nella carta da pacco. Per andarli a riprendere serviva tornare nuovamente in edicola, anzi spesso ci si andava più volte per sapere se fossero arrivati. L’edicola, insieme al supermercato, era l’anima del quartiere: dell’edicola resta solo il casottino, del supermercato l’edificio, ora occupato dalla farmacia e da un poliambulatorio.

Quando l’enciclopedia è iniziata, non avevo ancora un cane mio, sebbene lo desiderassi più di ogni altra cosa, la fissa per i cavalli è venuta dopo. Mentre imparavo a conoscere le razze attraverso l’enciclopedia, cercavo di capirle anche dal vivo, ma c’era un problema: a me piacevano i cani da caccia, l’enciclopedia partiva dai cani da pastore (Gruppo I), e procedeva lentissima verso il Gruppo VII (Cani da Ferma). Nel frattempo, cercavo di conoscere i cani del quartiere: quasi tutti appartenevano al Gruppo II ed erano stati comprati per fare la guardia. Ricordo schnauzer, rottweiler, dobermann, maremmani e qualcosa del Gruppo I, pastori tedeschi per lo più, e in pastore belga Tervuren, poi morto di piroplasmosi, che oggi chiamiamo babesiosi.

Arrivata al quarto volume dell’enciclopedia, ho scoperto i cani nordici, che in quegli anni iniziavano a andare molto di moda. Mi piaceva il samoiedo: tutto bianco e orsettoso al punto giusto. Lo chiamano il cane che sorride, peccato che abbai altrettanto. In strada, tuttavia, si vedevano solo husky, rigorosamente neri e bianchi, e con gli occhi azzurri, e alcuni chow. Mi piaceva anche il groenlandese che, tuttavia, l’enciclopedia sconsigliava di prendere come animale domestico. Invece, chissà perché, taceva di dire la verità sugli husky, che nel frattempo invadevano le case degli italiani, con esiti non sempre fausti. Qui gli husky non hanno mai rischiato di entrare: nessuno aveva intenzione di comprarmi un cane, tantomeno un cane da slitta.

Mentre l’enciclopedia mi propinava bassotti, terrier e segugi, e io volevo sapere tutto dei cani del Gruppo VII, i cani da ferma hanno trovato me. Il giovane esploratore, ovvero fuggiasco, era una un Deutsch Drahthaar, che aveva imparato a scappare dalla sua cuccia a igloo, dal suo serraglio, e dal suo giardino, per venirmi a trovare. Il problema era che puzzava quanto le fognature di una metropoli del sud-est asiatico e trasferiva tutti i suoi aromi su di me. Però, a patto che non mi ci strusciassi troppo addosso, avevo ottenuto il permesso di portarlo in giro per il quartiere. Io frequentavo ancora le scuole elementari e lui era più grosso e saggio di me, andavamo insieme in edicola, e poi lo riportavo, a malincuore, nel suo serraglio. Almar, così si chiamava, dopo qualche mese di amicizia è sparito, prima sostituito da un setter blue belton, e poi da una pointerina bianca e arancio. Temo sia stato l’odore a fregarlo: non sarei mai riuscita a convincere mia madre che lavandolo sarebbe diventato inodore, così niente drahthaar, anche se la razza avrà sempre un posticino nel mio cuore.

In quegli anni, mio zio, storico e fedelissimo kurzhaarista (allora li chiamavano bracchi tedeschi, o brac tudesch), si era portato a casa un setter irlandese incontrato in campagna: l’aveva seguito fino all’auto, era molto bello e aveva deciso di dargli una possibilità. Ricordo che era bellissimo, che si chiamava Rosso, e che è vissuto, se non sbaglio, fino ad almeno 17 anni. Però, ricordo di aver pensato qualcosa del tipo: “umm sì, bello, molto bello, ma qualcosa non mi torna, troppo appariscente”. Il bracco tedesco, al contrario, mi sembrava troppo essenziale; il pointer aveva qualche carattere distintivo in più, ma restava pur sempre un cane a forma di cane, con quattro peli addosso. Il gordon? No! Troppo scuro e massiccio! Il bracco italiano? Ma, sembra un segugio! Insomma, già allora non sapevo farmi andare bene niente!

Invece, il setter inglese… intrigante e setoso, ma non troppo, era la giusta via di mezzo.  La maggior parte degli inglesi presenti nel settimo volume, di otto, era bianca e nera (blue belton): io ero rimasta colpita dal bianco arancio “Lindo della Bassana”.  I miei, che già avevano dribblato il drahthaar, avrebbero fatto a meno anche del setter, eppure ero quasi riuscita a convincerli: c’era una setterina blue belton al canile municipale e sono andata a vederla con mio padre, che ha cercato di prendere tempo.

Pochi giorni dopo, non fidandomi delle promesse di nessuno, ho raccattato il primo randagio (che probabilmente non era tale) avvistato transitare per il quartiere. Era blue belton, aveva una bellissima coda frangiata da setter e fermava e guidava proprio come un’inglese. Il pelo arruffato e la “durezza” ne tradivano le origini, almeno in parte, teutoniche. Tommaso, così si chiamava, era molto probabilmente mezzo setter e mezzo schnauzer: all’eleganza del primo, univa la serietà e la predatorietà del secondo. Sul suo diario di caccia sono segnati topi, talpe, galline, bisce, gatti… mai altro mio cane fu così spazzino.

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Quattro passi dentro casa: il non prato a nord-est

Il non prato a nord-est assomiglia molto a un campo da beach volley. C’è tanta, tanta sabbia e solo qualche spavaldo ciuffetto d’erba. Ripensandoci, ci sono anche due o tre margherite. Eppure, è stato un prato, e prima, ancora è stato sia un prato che un orto. L’orto è ben fissato nella memoria: mi mancano le verdure genuine, ma non le zolle da coltivare. Ho sempre schivato l’orticoltura, nonostante fosse la grandissima passione di mio nonno: lui aveva un grande orto rigoglioso che era la meta preferita dei suoi conigli in fuga.  Da bambina ho passato alcune estati coi nonni: in caso di fuga, l’allerta veniva estesa alla famiglia e ai vicini, a cui veniva richiesto di impegnarsi nella cattura, ma io tifavo per i conigli. L’orto di casa l’ho vissuto il meno possibile ma, quando è stato necessario, pena la moria delle piante, ho cercato di provvedere alla sua irrigazione, con esiti quasi sempre disastrosi. La canna dell’acqua finiva quasi sempre con lo sbattermi addosso, così che la terra si trasformava in fango e, per bagnare 20 metri quadri di terreno, mi inzaccheravo fino ai capelli. E poi… Premesso che ho paura di api, vespe e calabroni, vogliamo parlare di zanzare? Avete presente quante zanzare ci siano nella zona di Pavia? Non credo, ma se siete convinti di saperlo, immaginate il numero che avete ipotizzato e moltiplicatelo per quattro. La cifra ottenuta è presente h 24, come il Carrefour, che è sempre aperto, le zanzare moderne non si fanno problemi di orario.  In compenso, amano moltissimo l’acqua se vi mettete a bagnare l’orto arrivano a sciami.  La mia carriera di bagnatrice di orti, infatti, è finita prima di cominciare: i pomodori vanno bagnati dal basso, quell’altra cosa dall’alto, questo va bagnato pochi minuti, quell’altro di più… Che se c’è una cosa che non ho mai sopportato è la terra sotto alle unghie. Ho lucidato cavalli, infilato mani all’interno di bovini, raccolto quintali di deiezioni canine, ma la terra sotto alle unghie mi dà fastidio. Forse dovrei ringraziare le bollette dell’acqua che hanno iniziato a salire e l’orto a restringersi. Ho cercato di salvare un’aiuoletta di fragole, ma i cuccioli hanno sconvolto i miei piani. Le creature hanno anche ucciso il ciclamino, che ero riuscita a fare sopravvivere per quasi 5 anni. Cani, uh? Bell’affare!

Nel non prato, nella parte che fu orto, è anche seppellita una cucciolina appena nata, quella tutta bianca con le orecchie nere che pensavo di tenere per me. Ci sono anche le “tombe” dei pesci rossi. La mia carriera con gli animali è iniziata proprio dai pesci, meno dispendiosi e invadenti dei cani, e dei cavalli, a cui sono passata successivamente. Mi ricordo un funerale fatto per il pesce rosso, che era stato avvolto in uno straccio in cotone (come si fa con i pesci appena pescati) e messo in una scatola di biglietti da visita. Piovigginava, e avevo invitato alla cerimonia un paio di vicine di casa, che credo sarebbero state più volentieri a casa. 

Il non prato è anche l’area dove si stendono i panni. Dovete sapere che io non ho un’asciugatrice e, di conseguenza, ho sviluppato un’adorazione per questi elettrodomestici. In verità ammiro tutti gli elettrodomestici che se la cavano da soli, però… c’è anche una coscienza ecologica e risparmiosa. La Greta che è in me mi impedirebbe di asciugare i panni in asciugatrice durante una giornata di sole, ma se piove?  Per soddisfare la mia passione per le asciuagatrici, da un po’ di anni a questa parte, ogni volta che vado in Inghilterra, mi premuro di trovare una casa con l’asciugatrice. E mi diverto un sacco ad attaccare, contemporaneamente, asciugatrice, lavatrice, forno e asciugacapelli, roba che in Italia ti si fulmina il contatore!

Tornando al non prato, abbiamo, come dicevo, una parte che fu orto, e una parte che fu esclusivamente prato e “area cani”. Questa zona del giardino, infatti, era stata recintata per poterci lasciare il mio primo cane, Tommaso, un meticcio blue belton, mezzo setter e mezzo schnauzer. Tommaso aveva il vizio di scappare “per andare a gatti” (ricordava dove abitavano tutti i gatti del quartiere), così avevamo pensato di creare un’area a prova di fuga in cui lasciarlo quando non eravamo in casa. Mio zio gli aveva anche fatto una cuccia triangolare e post-moderna, dipinta di grigio, cuccia nella quale non credo sia mai entrato.  Non ricordo sia nemmeno stato da solo nella parte del giardino che gli era stata assegnata: stava molto più volentieri in casa.

Eppure, lì c’era un prato e una grossa quercia alla quale, per diversi anni, quando le zanzare giravano solo di notte, veniva attaccata un’amaca. Adesso ci sono delle siepi, dei mughetti, dei fiori LIDL che avevo acquistato come sementi e lanciato in giro a casaccio (perfettamente nel mio stile). C’è anche una recinzione che la “Lillina” cerca ostinatamente di scavalcare, infatti scrivo dal giardino mentre controllo quel che fa. Chi ha ucciso il non prato? Tante cose e nessuna: un po’ lo hanno rovinato i cuccioli, un po’ i muratori, un po’ il gran caldo. Il risultato è una distesa di sabbia che, a sua volta porta sabbia in tutta la casa.  Il mio approccio nei confronti della vegetazione è sempre stato quello di lasciarla crescere come cresce, senza intervenire, però, forse, adesso, il non prato ha bisogno di un supporto, questa volta non solo morale.

È in circostanze simili che riscontro tutti i miei limiti: non capisco niente di prati ma, soprattutto, non capisco perché il prato pubblico, che nessuno cura, sta benissimo e il mio fa schifo? Come va resistere l’erba sugli argini, che resta perfetta anche dopo le inondazioni? Sta il segreto nel limo della Mesopotamia? Sono il Po’ e il Ticino i fratelli minori del Tigri e dell’Eufrate? Siccome l’ultima cosa che voglio è diventare schiava del prato, ho iniziato a raccogliere informazioni sui prati a bassa manutenzione: mi serve un prato che sia resistente quanto una gettata di cemento. Della semenza “prato rustico” usata per re-forestare la parte frontale del giardino, non ho piena fiducia, mi sembra rustica quanto un Milanese fuggito a Cervinia per il lock down.  La scelta è pertanto caduta sulla semenza “Maciste”, un misto di festuca e non so cosa che lancerò in maniera assolutamente casuale e scriteriata tra la sabbia. Il venditore mi ha assicurato che va d’accordo con i cani, che non beve, che vive d’aria e che sopporta sia il caldo che il freddo. Se così sarà, il non prato tornerà ad essere prato.

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Storie di Covid: appari e scompari

di Paola Ferraris

Storie di COVID – ovvero, la sparizione di taluni e l’emersione di altri.
Dopo il lockdown, s’è molto disquisito dei c.d. “untori” – i runners dell’ultima ora, i ginnasti, ed… i padroni di cani. Tutte sub-specie di esseri umani, secondo l’autorevole opinione del popolo dell’ #iorestoacasa, in quanto incuranti del bene supremo della salute altrui e del sacrificio che tutti i reclusi stavano – ed avrebbero dovuto – sopportare a causa della “sub-specie” che, imperterrita, ha continuato a circolare. Poi si è scoperto che i fatti non erano proprio quelli … ma questa è un’altra storia.
Sta di fatto che, circa una settimana post lockdown, un folto gruppo di habitués con cani sono scomparsi … ora, chiunque abbia un cane ed esca con regolarità, più o meno di vista conosce i frequentatori dei parchi di zona ed i “passeggiatori” con cani. La loro sparizione rappresenta il quarto segreto di Fatima … hanno soppresso le creature? Le tengono rinchiuse in casa e le fanno sporcare all’interno? Sono emigrati? Boh … se mai ci sarà risposta, si saprà quando tutto questo finirà.
In compenso, sono misteriosamente apparsi soggetti, con creature a quattro zampe, mai visti prima (come noto, fonte di altrettante polemiche sui social e non solo). Il quinto segreto di Fatima… li tenevano imbalsamati in naftalina? Erano congelati, da tirar fuori in caso di necessità (con doti da preconizzatori degne del Mago Otelma)? Hanno adottato dai rifugi, in epoca di COVID, per potere uscire??
Questi soggetti sono misteriosamente apparsi, con le loro creature, creando non poco scompiglio tra frequentatori abituali delle (poche) aree cani rimaste fruibili. Ignari del bon-ton da area cani, che imporrebbe di chiedere “Posso?”, soprattutto ai proprietari di maschi o, comunque, ai proprietari di creature “vivaci” (i.e. lievemente aggressive). Coloro, invece, accedono all’area cani, con piglio disinvolto, ignorando le rimostranze dei presenti. Anzi, la risposta standard è “non si preoccupi, il mio cane è tranquillo, non fa niente”, il tutto mentre la creatura “tranquilla” cerca di affondare i denti nel collo del tuo cane …
Provocando la diaspora degli habitués. Costretti ad espatriare ed occupando, abusivamente e trasgressivamente, le aree limitrofe, non deputate ai cani (con tutto ciò che ne consegue, ma anche questa è altra storia …).
Poi, ci sono coloro con creature mignon, che si affacciano al cancello e, con piglio autoritario, ti urlano “scusi/scusate può/potete chiudere il cancello” (ché, nell’area cani vi è un cancello, montato misteriosamente, che la divide in due) ed entrano con le bestie di satana mignon, che ringhiano ed abbaiano ai cani grandi al di là della rete. Anche loro, misteriosamente apparsi dal nulla in periodo di lockdown. E simpatici quanto un cactus nelle mutande (cani e padroni).
Li chiamo, indistintamente, COVID19. Non avendo il (dis)piacere di essere on a first-name basis.
E mi chiedo: scompariranno, così come sono apparsi, quando si potrà tornare alla normalità? Le “creature”, emerse con il COVID, dove le nasconderanno o le porteranno? Torneranno ad essere rinchiuse ed imbalsamate? Il sesto segreto di Fatima. Chi vivrà, vedrà.




Quattro Passi Dentro Casa: La libreria a sud, il secondo piano

I piani, in questo, caso li contiamo dall’alto: contarli dal basso è complicato. A causa delle microscopiche dimensioni della stanza (piena di libri), il divano dell’Avanella, impatta direttamente contro la libreria a sud, nascondendone i piani bassi. Il ripiano di cui si parla, sta appena sotto a quello che io chiamo “piano attico”. Sul tetto della libreria non c’è granché da dire perché, a colpi di feng shui, sono riuscita a svuotarlo. Prima ci stava una beccaccia imbalsamata che non riuscivo più a gestire perché accumulava troppa polvere. Così, anche perché il feng shui sconsiglia gli imbalsamati, e i fiori secchi, l’ho regalata a chi la sapeva apprezzare.

Ma torniamo ai libri, questo ripiano assomiglia a una pizza, ma di quelle più improbabili. Così come su certe pizze potete trovare mozzarella, prosciutto ed ananas, qui andiamo dalla grammatica tedesca all’oncologia veterinaria, passando per la medicina complementare e le tecniche di scrittura creativa, un bel casino! Però, mi rappresenta benissimo. Parliamo un po’ di questi eterogenei inquilini. La grammatica tedesca: ho fatto un breve corso di tedesco, non ho imparato granché ma, la motivazione che mi ha spinta a fare il corso è che mi scoccia molto quando non riesco a leggere, o a capire, qualcosa, e il tedesco è una lingua abbastanza diffusa. Sopra alla grammatica tedesca c’è quella danese, così, tanto per dire.

Lì vicino c’è un’altra Norton Anthology of Literature, dicasi un tomo gigantesco, ma questa è Women, quote rosa con copertina blu. Nelle sue 2500 pagine racchiude alcune tra le più prestigiose scrittrici e poetesse che hanno scritto in inglese: ci sono americane, inglesi, canadesi, irlandesi etc., sono tutte qui. La ricordo come uno dei primi libri acquistati su Amazon, oggi giace accanto a un classico come “Il maestro e Margherita”; a “Gente di Dublino” (Joyce resta sempre Joyce) e al “Nome della rosa”. C’è anche Freud, con i suoi sogni, che confina con Woodhouse e con dei racconti di cani. Tra la saggistica c’è qualcosa di psicologia e di linguistica, un libro sulla santeria cubana, un saggio sul Vajont, uno sui capelli rossi e miei libri dei corsi di scrittura. Dopo aver scritto, per anni, improvvisando, ho frequentato corsi su come scrivere: articoli, racconti brevi, libri gialli e libri per bambini. Ho scritto racconti, ma mai libri gialli, né libri per bambini, eppure ne ho letti centinaia.

Degno di nota è anche il libro sulle terapie complementari nei volatili: ne avevo provata una su dei riproduttori di fagiani, e aveva funzionato. Lì vicino c’è anche una disanima scientifica sulle terapie “alternative”: mi ero iscritta al corso vero e proprio, quando studiavo in Massachusetts, ma il corso era a numero chiuso e, ovviamente, sono rimasta fuori. Però, l’esistenza di quel corso mi aveva fatto scoprire Hampshire College: un mondo a parte! Hampshire College (secondo alcuni Hempshire College) è stato fondato dopo il ’68: non esistono voti, si lavora su progetti, e gli studenti di orticultura coltivano verdure per tutti. Noi cinofili sappiamo che a Hampshire, insegnava l’esimio Prof. Coppinger che, ovviamente, in quell’anno era in sabbatico. Lui non c’era, ma il le sue pecore sì: aveva riempito il campus di ovini per i suoi esperimenti con i cani guardiani da gregge. Stavo a Mount Holyoke, il college di Emily Dicksinson, più prestigioso e competitivo di Hampshire, ma ho sempre pensato ad Hampshire come a un’ occasione persa. Ci sarei stata bene, magari mi avrebbero messo ad accudire il gregge.

Più in là ci sono due libri sugli stencils: la mia inadeguatezza nelle arti figurative è tale che riesco a fare disastri anche con le “formine”. L’unica cosa che io abbia mai stencillizzato bene – con un pennarello, che col pennello sbavo – sono le barriere della cassa parto dei cuccioli. Però, nessuno ha visto le mie creazioni artistiche: ho dovuto levarle dopo due giorni perché i diavoli le scavalcavano senza badare all’arte. C’è anche un vecchissimo libro su come si giudicano i cani in esposizione: è americano, raccomanda onestà e buone maniere da parte dei giudici, ha un po’ un sapore d’altri tempi.

E poi? Libri sul Giappone: ho studiato giapponese per tre anni e girato buona parte del Kansai da sola, terrorizzando tutti quelli a casa perché andavo in metropolitana di notte da sola, ma là è sicuro! Verso il confine della libreria c’è il libro del feng shui che, insieme al corso sullo stesso argomento, ha cambiato il mio approccio nei confronti delle cianfrusaglie, ma è lunga da spiegare; uno con i gatti inseriti in famosi ritratti, regalatomi non so come con del cioccolato, un libro sui celti e un libro su Praga. Questo è uno di quei libri che affiderei volentieri al book crossing, ovvero di cui non mi importa granché, se non fosse che la gita scolastica a Praga è stata un disastro assoluto. Il tutto ebbe inizio con la “seduta spiritica” e poi proseguì con: i corridoi da albergo di Shining; la gente che vomitava anche l’anima; quelli che rotolavano sul pavimento; le marmellate scadute e io e altri due o tre semi-abbandonati sotto la neve nel cimitero ebraico. Noi e un sacco di corvi che gracchiavano, i fiocchi di neve alla fine di marzo. Ci sarebbe anche da raccontare del portafoglio zeppo di marchi e documenti che trovammo su un marciapiede. Lo consegnammo immediatamente a un poliziotto chiedendoci, subito dopo, se il proprietario dei soldi li avrebbe mai rivisti. Forse avevamo fatto la scelta sbagliata.

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Il secondo piano, oltre ad assomigliare a una pizza, ricorda anche uno di quei giganteschi tacchini ripieni che si mangiano il Giorno del Ringraziamento: so quanto sono enormi, e quanto sono ripieni, perché assaggiai uno a Pittsburgh, dalla cugina Florence. Tradotto in libri, significa che, alla regolare fila di ordinata, si sovrappongono ai volumi altri appoggiati in maniera longitudinale o, più onestamente, messi “come meglio si accomodano”. “Tramonto e polvere”; “Le nebbie di Avalon”; “Diari di dame di corte dell’antico Giappone”; “Storia di Genji, il principe splendente”, etc. etc. fino a arrivare alla poco glamour “Rassegna di diritto e legislazione veterinaria”: ne abbiamo adottati alcuni volumi a testa perché il dipartimento intendeva buttarli nel bidone. A proposito di cassonetti, prima che prendesse piede la raccolta differenziata, avevo i cassonetti a due passi da casa: il segnatempo della Oregon Scientific, che vive al secondo piano, era stato abbandonato lì fuori, perfettamente funzionante.

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Quattro Passi Dentro Casa: Il Kefir

I granuli di kefir abitano in taverna. Nella stagione fredda vivono su uno scaffale, in un barattolo che li nasconde dalla luce. Nella stagione calda, invece, vanno in villeggiatura con un siberino, in una borsa termica. Con la mezza stagione mi trovo ad un bivio: se fa troppo freddo si addormentano, se fa troppo caldo si in@zzano e si ingozzano di latte, gonfiandosi.

È come ad avere a che fare con un animale che ha, allo stesso tempo, problemi gastroenterici e problemi comportamentali. Eppure, sarà perché mi piacciono i casi complicati, non li ho ancora uccisi. Sono arrivati lo scorso agosto, dalla colonia “della Pina”, e sono rimasti.  Ho provato a cedere dei loro discendenti, ma solo un’adozione su tre era andata a lieto fine, quella di una dottoressa che lavora al reparto malattie infettive. Con il Covid 19 ho perso di vista sia lei che i kefirini. Nel frattempo, miei sono diventati una sorta di terzo animale domestico, accudito ad orari regolari, a costo di farmi vedere in videoconferenza mentre li filtro.

Che poi io il kefir, neanche lo bevo quasi più, lo avevo provato per una disbiosi, con dei benefici, ma l’ho poi sospeso, per fare altri esperimenti, visto che con la medicina ufficiale non avevo mai risolto nulla. Però… non ho mai buttato i granuli. Ho continuato a filtrarli ogni giorno alla stessa ora, e a dare loro il latte della marca preferita. Sono granulini fortunati, tramite le mie solite “vie traverse”, sono riusciti a mangiare anche della latte di vacca appena munto. Perché si dice “vacca”, non “mucca” e io non ho mai fatto mistero della mia passione per questi animali.  Da piccolina avevo una fattoria di plastica, che poi mia madre mi ha obbligato a regalare, anzitempo. Mettevo gli animali in recinti divisi per specie e funzione: i cavalli avevano un recinto triangolare e c’erano un sacco di pecore.  Anche i miei presepi sono sempre stati zeppi di pecore, quasi più ovini che statuine.

Tornando ai bovini, li ho sempre guardati con un che di induista: la vacca sacra, la vacca madre terra (in medicina cinese i bovini appartengono all’elemento terra).  Infondono calma, mi danno un senso di sicurezza: ricordo benissimo l’aereo in atterraggio su Newcastle. I puntini neri sotto di me erano vacche Angus, ed erano ovunque, quasi nei giardini di casa. L’accoglienza che ci voleva: del resto dico sempre che se vincessi alla lotteria, mi metterei ad allevare Angus al pascolo! Magari anche Varzesi, la razza è poco importante: mi basta una mandria sul prato e qualcuno che si ricordi di loro, vista l’altalenanza del mio senso pratico. Ho scelto di non fare il veterinario di vacche, ma ammiro i buiatri, perché non reggerei né gli orari, né la fisicità del lavoro. Però, reggerei i loro proprietari molto più facilmente di quanto mi accada con certi proprietari di “pets”: con gli “agricoli” (non me ne abbiate se vi chiamo così, è affettuoso), ci vado d’accordo. Spesso parlano la stessa lingua dei cacciatori: questi due mondi sono molto vicini, e se si trova la giusta chiave comunicativa, diventa tutto facile.

Ai kefirini parlo in italiano, a volte anche inglese, la mia lingua dell’anima: sono cresciuti bilingue, come i cani. Mi sono chiesta se non fosse il caso di imparare il russo, a quel punto potrei forse capire le chilometriche telefonate delle badanti: parlano a alta voce perché sono convinte che nessuno le capisca. Per ora, dopo anni di spionaggio, sono ferma a “Da e Te sam”, non posso che migliorare. Ne frattempo, le bestioline si lasciano filtrare in anglo-italiano: li passo dal vaso grande al vaso piccolo, serve un imbuto (rosa), un colino (marrone), una spatolina (fucsia e blu) e una bilancia (rosa), se la giocano LIDL e IKEA. Bisogna schiacciare bene i granuli per far colare la cremina, poi pesarli e dare la giusta quantità di latte in base al loro peso. Se ci sono avanzi del giorno precedente, questi vanno in una bottiglietta che in origine conteneva un succo di frutta finlandese. Un succo filosofico la cui etichetta dice “you live longer than snow”, di questi tempi non è così scontato.

Io mi affeziono agli esseri viventi, non mi distacchi neanche con il diserbo, così pur non consumandoli, li ho filtrati e sfamati per mesi, fino a che… li ho chiamati in soccorso e loro, con gratitudine, hanno risposto alla chiamata. È tutto così surreale, nazione che vai, estinzione che trovi: in Inghilterra hanno finito la carta igienica, in Italia, dove si pensa prima a mangiare, e poi a risolvere il problema di eliminare le scorie, è finito il lievito. Un bel problema per chi si era messo a panificare conto terzi!

Quando mi imbatto in problemi di difficile risoluzione, mi torna in mente che bisogna pensare “Out of the box”, così ingrano la marcia. Se mi impegno raggiungo il livello di risoluzione del problemi “Hermione Granger Avanzato”, e se la volontà non basta, mi ricordo ho due lauree e mi metto ad invocarle. Di solito funziona: è così che ho aggiustato la maniglia del water un sabato sera, non poteva proprio stare così fino al lunedì! Quindi, adesso? Lieviti: batteri; prosecco col fondo; date le brioche al popolo, le perle ai porci, evvai di brainstorming! Tatjana, Lessia, Ludmilla, Lydia, Katia, Ivan, Vladimir, Igor, tutti qui che mi aspetto da voi un miracolo.  Altro che #mangiapaneatradimento! Grati, fedeli, addestrabili e anche un po’ imprevedibili, come un buon cane da ferma, hanno prodotto un buon lievito, sovversivo quanto basta. Da un mese buono qui si panifica a “madre di kefir”, detta anche Grande Madre Russia: il mio quarto animale domestico, da sfamare regolarmente!

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Quattro passi dentro casa: L’angolo del calendario

Oggi è venerdì, la scuola di specialità si è mangiata tutta la mattina e parte del pomeriggio. La mattinata si è aperta con “la diarrea del suinetto”, la scarsa cena della sera precedente si era chiusa con la foto di un vomito e una di una diarrea emorragica. Ai proprietari piace terribilmente documentare le anomalie corporali dei loro cari pets, il picco lo si raggiunge all’orario dei pasti, incluso quello della prima colazione.

Comunque, prima che mi arrivassero quelle foto, riflettevo
sul fatto che ho scelto proprio un lavoro di merda, nel vero senso del termine.
Una cosa che mi sarebbe piaciuta fare, tra le tante, è l’arredatrice di
interni. Grazie ai miei corsi sul feng shui e sulla medicina cinese,
potrei persino inventarmi un lavoro. Fino a qualche mese fa, ritenevo
appetibili le professioni gioiose come quelle legate alla moda, al fitness,
o al turismo. Ma adesso? Che faranno costoro? Si trasformeranno in installatori
di plexiglass?  Ci scherzo su, ma
rischiano di accadere cambiamenti epocali. E chi avrà ancora il coraggio di
iscriversi a medicina? L’ho schivata per un pelo, passando da Medicina (sì, ero
entrata) a Medicina Veterinaria. 
Conclusi gli studi in Medicina Veterinaria, ho pensato di aver commesso
un grave errore, ma adesso? Mi ci vorrà del tempo a capirlo, e quel tempo
passerà con un cellulare cronicamente infestato da vomiti e diarree.

Non avete idea di quanti cani stiano cagando, e vomitando. È disgustoso, ma le segnalazioni si moltiplicano, lo scrivo, sia mai dovesse capitare anche a voi… Stress? Virus? Ipoclorito gettato sull’asfalto? Anche qui, servirà del tempo per capire. Nel frattempo, torniamo ai calendari. Accanto alla rossa lampada “shire”, c’è un muro in tinta grigetto-lavanda, che fa angolo con la libreria di design anni ’80. Direi che posso definirla in discreta forma, fatta eccezione per i pomelli e la paretina a est mezza ustionata. I pomelli, quelli delle ante, sarebbero in numero totale di cinque, ma due sono scomparsi: uno si era rotto e, un aspirante tuttofare con meno senso pratico del mio, se ne è portato via due per comprare dei pomelli nuovi. È successo quasi un anno fa. Nel frattempo, pur cercando, non ho mai trovato dei pomelli che mi piacessero abbastanza: sono fatta così. Gli attuali sono bianchi, né magri, né grassi, né tondi né quadrati, sostanzialmente insignificanti. In più fatico a capire quanto debba essere lunga la vite dei nuovi: sembra facile, ma così non è. Cerca di qui e cerca di là, ho guardato su Amazon, ho guardato da Ikea e poi mi sono scordata di comprarli, ho guardato in qualche ferramenta e poi ho aspirato a Leroy Merlin. Contemporaneamente, l’occhio scappava tra le cinesate di Aliexpress, senza mai decidersi a rischiare.  Il trauma della cinesata suprema l’ho superato, non è questo il punto, anche qui era un problema di misure, nonché di tempi di spedizione. La quarantena rende pazienti e offre quella manciata di minuti liberi che ti permette di cercare bene, online, tra mille proposte.  Ordine fatto a inizio lock down, adesso è in dogana, vedremo se ho azzeccato le misure, vedremo se mi piacerà la forma: li ho presi simili a quelli della scrivania.

La paretina a est della libreria, ha un angolo ingiallito e
raggrinzito, ricordo del mezzo incendio scampato. Poco più in basso, rispetto
alla cicatrice, c’è un gancio, uno di quelli adesivi che di solito si mettono
in cucina, per appenderci gli strofinacci. Il mio, invece, lavora nello studio,
è giallo arancio triangolare e mi ricorda una fetta di formaggio.  Lavora tutti i giorni, come Atlante, e porta
il peso dei calendari. Ogni anno compro un calendario nuovo, che affermazione
scontata! Intendo dire che al calendario dello studio ci tengo particolarmente.
È una mia personalissima tradizione, che dura da tantissimi anni. Deve essere
un calendario bello,  deve piacermi
davvero e lasciarsi un po’ usare come agenda, un giorno capirete il perché.

Questo posto è stato occupato, per tanti anni, da calendari
fotografici tedeschi che compravo alla Fiera Cavalli, a Verona. Poi ancora
cani, cavalli, paesaggi, calendari fatti da me con i cani, c’è stata una certa
variabilità genetica, fino a che, i calendari fotografici hanno drammaticamente
perso qualità: non trovo più niente che mi piaccia. A partire dall’autunno
inizio a cercare un nuovo calendario, destinato ad accompagnarmi per un po’.
Parto con entusiasmo, ma va a finire come con i pomelli. Negli ultimi anni ho
risolto con dei calendari pseudo-artistici a tema Disney e con quelli in della
Légami in cartoncino, il minore dei mali. Il 2020 è l’anno di Peter Pan, che è
insieme ripiego e aggancio a Tinkerbell e Tigerlily: siamo ad aprile e l’anno
sembra rispecchiare la mediocrità dei fogli che ne scandiscono il tempo.

Ai piedi del calendario c’è il cestino della spazzatura che è adesso si chiama differenziata e che lì dentro, è fatta solo da carta. È rosso, ha le rotelline, è quadrato e ha dei buchetti. Ha quasi 40 anni, come la lampada “shire” e la libreria di design. È nato per farti pensare: ricorda un porta riviste, o forse un porta vaso, è troppo bello per il pattume reale. Nato come cestino, è stato poi promosso al ruolo di porta riviste, compito che gli è quasi costata la vita. Un giorno, ben rimpinzato di libri e di giornali, l’ho messo sul confine della scala a chiocciola, per arginare il Roomba. Orbene, il Roomba l’ha speronato e lui è rotolato giù per tre rampe di scale, tonfando come un elefante che rotola giù dalle Alpi e seminando pubblicazioni lungo il percorso. Ripescandolo incolume dalla taverna, ho imparato che: non bisogna mai cercare di arginare il Roomba e che, rivelazione superflua, non sono tagliata per i lavori domestici.

Un paio d’anni dopo, a causa di un letto troppo grande per una stanza troppo piccola, il rosso cestino è tornato a fare il cestino, ma con classe: accetta solo carta pulita destinata al riciclaggio. Così, dal basso guarda in alto, sorridendo a un calendario, quasi certo che prima o poi lo accoglierà.

Se ti è piaciuto, qui puoi leggere il precedente e qui il successivo.




Quattro passi dentro casa: Le lampade di questa stanza

In una stanza tutto sommato minuscola, ci sono ben tre
lampade. Una ci vuole, che ci rischiari dalle tenebre, ma le altre due? Andiamo
a conoscerle, dalla più piccola alla più grande. La più piccina, non che ultima
in ordine di arrivo è una lampada del sale formato bonsai. Calcolando la
metratura della stanza, se volessi davvero usarla per ionizzare l’aria, cosa
che si mormora queste lampade facciano, avrei dovuto prenderla grande almeno il
doppio, invece ho scelto lei. A guidarmi, non solo lo spirito del risparmio, ma
anche la situazione. Io vado a impressioni, circostanze, eccetera e tale
lampada era stata annunciata come in vendita da LIDL. LIDL ha l’astuta capacità,
con il suo volantino, di creare aspettative. Da librivora, adoro il volantino
di LIDL, e pensare che, gli omini della pubblicità, spesso saltano la mia
cassetta della posta. In tempi normali ovviavo al problema sottraendo,
nottetempo suddetto volantino, dalle cassette altrui, magari proprio da quelle
su cui campeggia rabbiosa la scritta “NO PUBBLICITA’”. A me la pubblicità dei
supermercati piace, ma adesso rifuggo da qualsiasi superficie che possa essere
contaminata, forse gli omini della pubblicità lo sanno e non mi lasciano più nulla.
Se vi hanno rubato il volantino di LIDL, da febbraio in poi, non sono stata io!
Oltre a stuzzicarci, quelli di LIDL, sono bravi a fare leva sulla scarsità: se
un bene è scarso, viene percepito come un bene di valore. Nella mia infinita storia
accademica, ho studiato anche economia politica, altrettanto devono aver fatto
gli omini del marketing. Le massaie invece no, ci cascano ogni volta e le
mattine del lunedì e del giovedì, corrono da LIDL ad accaparrarsi gli oggetti
del desiderio, prima che l’ambita cianfrusaglia vada esaurita.

No, sul serio, mi rifiuto: la corsa tra gli scaffali roba da
Flinestones. Magari una certa cosa la vorrei tanto, ma riesco a non
darlo a vedere. Mi approccio ai cestoni delle offerte con finto distacco,
allungo l’occhio e, se la cosa non c’è più, proseguo incurante verso i fiocchi
di latte: ai cani piacciono, è una bella scusa. Questa lampada, così come le
ali da pipistrello da fare indossare al cane (che invece avrebbe preferito i
fiocchi di latte) è stata comprata nel tardo pomeriggio. Era l’ultima ed era
evidentemente una predestinata. L’accendo spesso e, lo scorso autunno, o forse
era primavera- insomma era quel periodo di monsoni, la lampada si è messa a
piangere allagando il ripiano della libreria. Nessun miracolo di San Gennaro,
voleva solo dirmi che c’era troppa umidità, come se non me ne fossi accorta da
sola. Che poi, che avrà da lamentarsi, abita vicino alla porta della stanza,
sul tetto della mini-libreria a sud, nel punto meno umido della casa. È stata fortuna,
non ha neppure dovuto scegliere dove stare, la presa della corrente ha deciso
per lei.

La seconda lampada vive sulla scrivania, ma non ha mai avuto
un posto fisso, va e viene a seconda di quanti pc (ne ho due), quanti libri e
quante altre cose, stanno sulla scrivania.  Quando il tavolo è troppo occupato viene
sloggiata per terra, sul parquet, a farle compagnia qualche pelo di setter. Il
non avere un posto fisso, le permette di guardare la stanza, e il mondo fuori
dalla stanza, da diverse prospettive. Può persino succhiare la corrente da ben
due prese elettriche diverse. Non so quasi nulla di questa lampada, mi è stata
regalata dopo che qualcun altro l’aveva recuperata sulla via della discarica.
La spina andava riparata, ma una volta fatto (non da me) funziona benissimo.
Credo abbiano scelto di mandarla qui perché è la classica lampada da scrivania,
anzi da scrivania di una biblioteca. Probabilmente ne avete viste di simili
nelle biblioteche, o nei film. È una di quelle lampade con un cappello verde bottiglia,
piuttosto largo e orientabile. Il gambo è stretto e dorato e poggia su una base
larga, sempre dorata. Queste lampade vintage, sono chiamate anche lampade
Churchill (My Dear Sir Winston <3 ), o ministeriali. La leggenda
vuole che negli anni ’30, in Europa, fossero di moda sulle scrivanie dei VIPS, a
me fa tanto Ivy League, o Seven Sisters, per tirare l’acqua al
mio mulino.  La mia Winstonina ha qualche
graffio sul gambo e dei graffi più marcati sulla base, comunque se li sia
fatti, fanno parte della sua storia. L’accendo poco, in genere d’inverno, o
quando la giornata è uggiosa. Illumina quanto basta, ma non troppo.

La terza lampada è la lampada regina, ovvero quella che regna
quando il sole non c’è più, ma a tu hai bisogno di vederci chiaro, lo chiamano smart
working
e non finisce con il tramonto. Non ci sono lampadari in questa
stanza, solo questa lampada “alogena” che parte dal pavimento e va verso
l’alto. È rosso papavero e ha quasi 40 anni, ma non li dimostra, viene dal
vecchio arredamento “di design” di questa stanza. Il problema è che si è
portata dietro una certa filosofia spendacciona tipica degli anni ’80: mangia
quanto uno Shire! Con Shire intendo quegli enormi cavalli da tiro dalle zampe
pelose, l’idea di prenderne uno “da compagnia” mi è subito passata dopo aver
scoperto quanto mangiano. Ad oggi, non sono ancora riuscita a convertire la
Signorina Shire al LED, non trovo lampadine della sua taglia: lei succhia,
illumina e scalda, come si addice ad una vera lampada alogena della Milano da
bere.  In inverno, funziona come secondo
termosifone, in estate… le preferisco il buio.

È talmente calda da aver cercato di fondere un pezzo della
libreria e di aver quasi dato fuoco alla casa. Antefatto, questa stanza è
esposta a nord per una parete, e a est per l’altra. In inverno è GELIDA anche
con il riscaldamento acceso: le case te le costruiscono belline e trac, la
fregatura che non sai. I vecchi serramenti, quelli comprati insieme
all’abitazione, erano stati fabbricati dalla Casa dello Spiffero, e io ho avuto
una delle mie idee. Seguendo quanto consigliato dall’adorabile rivista British Country
Life
, mi ero procurata dei pesanti tendoni patchwork. Ottimo risultato
estetico e funzionale, ma alla rossa lampada non piacevano, le toglievano
centralità. Così, colpa sua, o colpa mia, che non ho curato le distanze, un
giorno d’inverno, mentre scrivevo al pc, ho sentito un rumore sopra la mia
testa. Ho fatto finta di niente per un po’, che avevo altro da fare, e poi,
riguardando in alto, ho visto fumo e fiamme provenire dalla tenda. Senza farmi
prendere dal panico, sono uscita dalla stanza, ho spento la lampada
(l’interruttore è fuori) e poi mi sono messa a cercare un recipiente con cui
poter lanciare efficacemente dell’acqua verso l’alto.

Non trovando niente al piano, sono scesa in cucina e ho preso un’insalatiera in porcellana inglese, di quelle bianche e blu con i paesaggi disegnati, ovvero le uniche stoviglie degne di esistere. E fu così che Rossella domò l’incendio a insalatierate d’acqua. Poi venne l’assicuratore che risarcì i danni, inclusa l’anziana scrivania di design che con l’acqua si gonfiò.

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Quattro passi dentro casa: La libreria a sud, il piano attico

Ci ho pensato, riflettuto, e ripensato: anche le librerie
meritano di essere raccontate.  Magari a
rate, per non tramortire, e inframmezzate con elementi più leggeri. Le mie
librerie sono pesanti, sovraccariche. In tutti i sensi.

La libreria ha sud, è in realtà, una delle due che poggiano
contro il muro meridionale della stanza. Abbiamo la libreria vera e propria, e
la sua cucciola, che ha solo tre ripiani. A separarle c’è un cassettone che per
il momento non avrà voce in capitolo. La libreria a sud è uno scaffale
bianco-giallognolo che appartiene alla serie Billy di Ikea. È il primo mobile
che ho comprato da Ikea, il primo mobile che abbia mai montato da sola. Il
fatto che si chiami come un cane, per l’esattezza come l’ex cane di mia nonna,
deve avermi aiutato non poco.

Ikea è sempre una sorpresa: studi il catalogo; decidi cosa
vuoi; vai in negozio; vedi gli ambienti; vai in magazzino; rintracci il tuo
prodotto e scopri, ogni sacrosanta volta, che l’agognato elemento d’arredo è
uno scatolone piatto e lungo. Ci vuole molta fantasia ad immaginarlo in tre
dimensioni, e ce ne vuole ancora di più a dargli l’opportunità di trasformarsi
in un mobile vero. Siccome non ho mai avuto come coinquilino il caporeparto del
Leroy Merlin, ho sempre affrontato le istruzioni di Ikea in prima persona e
rigorosamente da sola: non amo ricevere suggerimenti in quei frangenti. Potrei
reagire male, molto male, è meglio che mi sentano solo viti e bulloni, o
finirei con l’iniziare una nuova carriera al porto di Genova. E poi, vuoi
mettere, trasformare la confezione lunga e piatta in un mobile vero? Tutto da
sola?

La libreria ha sei ripiani, ma oggi ci soffermeremo sul
primo dall’alto: il piano attico. Un libro non dovrebbe mai augurarsi di finire
al piano attico. Se è stato messo a dimora lì, significa che non te ne importa
abbastanza. Non verrà sfogliato spesso, né verrà spolverato. Più è basso il
proprietario, più questa cosa sarà tragicamente vera. Sul mio piano attico c’è
un gruppo eterogeneo di libri, scritti in italiano, in inglese e in francese.
Gli argomenti sono i più disparati: abbiamo una raccolta di Hemingway; un libro
di scienze forensi; Libertà di Franzen; robette commerciali; un bel saggio – in
verità un po’ tirato – sul ruolo della donna nella caccia, scritto da
un’antropologa; un manuale di obedience canina anni ’60; un libro che ci
hanno fatto leggere in terza elementare; dei saggi di filosofia e alcuni libri
scritti da autori nippo-americani.

La letteratura nippo-americana, o giapponese-americana, è
pressoché sconosciuta in Italia, forse perché pochissimo è stato tradotto
dall’inglese. Durante la Seconda Guerra Mondiale, questo gruppo etnico è stato
oggetto di forti discriminazioni, culminate con la reclusione di migliaia di
persone in campi di internamento. Gli scrittori nippo-americani hanno nomi
giapponesi: sono nati negli Stati Uniti da genitori giapponesi. La mia
preferita, quella su cui ho scritto la mia tesi di laurea, magistrale, è Hisaye
Yamamoto. Seventeen Syllables (diciassette sillabe), la sua raccolta di
racconti, alloggia altrove, è a portata di mano.

Alla descrizione della mensola, è seguito un forte impulso a
sgomberare: ma tutti i libri del piano attico si sono salvati, ad avere la
peggio sono stati dei CD. Gli inglesi lo chiamano decluttering
(rimozione del clutter, cianfrusaglie) e sono volate nel bidone un po’
di cose, non troppe perché la discarica è chiusa. Ho passato gran parte della
mia vita ad accumulare, fino a quando, frequentando un corso di feng shui,
ho cambiato prospettiva. Il fatto che io abbia fatto un corso di feng shui,
non vi deve stupire, sarei capace di seguire anche corsi su come dipingere il
carapace delle tartarughe. Il fatto che invece abbia iniziato a liberarmi degli
eccessi, invece, ha stupito anche me. Non succede sempre-sempre, ma adesso da
alcune cose riesco a staccami. Il libro sul feng shui, però, è al piano
sotto, il che mi impone di rimandare ulteriori approfondimenti. Decluttering,
tuttavia, suona bene con book crossing e, i miei primi esperimenti di
sgombero, hanno riguardato proprio i libri.

In effetti ne ho parecchi, anzi ne ho troppi: cauti e
silenziosi, i libri hanno preso possesso di questa casa. Ho iniziato a leggere
quando non sapevo ancora leggere: guardavo le figure o, peggio, pretendevo che
gli altri leggessero per me. Sin da bambina, ho chiesto e ricevuto in regalo,
un sacco di libri, e quando dico “sacco” immaginatevi una valanga. I genitori
sanno dire no a un giocattolo, ma se chiedi un libro non gli sembra di
viziarti.

Le biblioteche le ho invece sempre frequentate con
parsimonia: andava spesso a finire che, una volta riportato il libro a casa
sua, ne andassi a comprare una copia per conservarla in eterno, tanto valeva
comprarla da subito senza fare tanti giri. Non paga del cartaceo accumulato,
quando mia nonna ha traslocato, mi sono portata via anche tutti i libri che
stavano lì, con la scusa che la nuova casa era più piccola.

Accumula che accumula, post feng shui, venne il
giorno in cui un vicino di casa, dovette mettere a disposizione il suo Apecar
per trasportare, in diversi viaggi, i libri che avevo deciso di donare alla
biblioteca del paese. Questa storia dell’Ape che sfrecciava avanti e indietro
sulle strade di campagna la racconto con un pizzico di orgoglio, per essermi
scrollata di dosso quintali di libri, e con una punta di imbarazzo, per averne
accumulati così tanti di cui, in fondo, mi importava così poco.  A quel grande esodo, ne sono seguiti di minori:
ogni tanto di o tre libri prendevano la via della biblioteca. Quali libri?
Quelli che avevo già letto e che non mi erano piaciuti. Quelli che avevo già
letto, ma non avrei riletto e, infine, quelli che non avevo mai letto, e non
avrei mai letto. Yes, because, in una delle mie fasi di accumulo pre- feng
shui
avevo scoperto l’Augusto.

L’Augusto è l’omino che vende i libri usati in Piazza del
Duomo a Pavia, nei giorni di mercato. Con la scusa che costavano poco, che
erano interessanti e che avevo imparato a montare librerie, col vai e vieni
dall’Augusto, in pochi mesi ne ho riempite altre due. Hai voglia a sgomberare,
a una libreria si sono sfondati i ripiani e, interpellato l’aggiusta-tutto, si
è rifiutato di aggiustarla, fino a che non l’alleggerisco. Campa Cavallo che
l’Erba Cresce, sono quasi sicura che il surplus librario sopravviverà
alla quarantena. Eppure, sono cambiata: romanzi, narrativa e libriciattoli vari
li leggo in ebook, anche perché non saprei dove metterli; acquisto libri
cartacei con misura e continuo a donare, ma, a guardarsi intorno, è rimasto
tutto uguale.

Le biblioteche però, le ho abbandonate: volevo che i libri
fossero disponibili per la comunità, volevo poterli magari andare a trovare se
ne avessi sentito la mancanza e, invece, ho tragicamente scoperto che i libri
non sarebbero rimasti lì. Niente macero, NO PANIC, ma li avrebbero girati a
carceri, sale d’attese d’ospedale, scuole, eccetera eccetera. Bene, ma non
benissimo, non li volevo rinchiusi forzati in un luogo sconosciuto, così ho
cambiato approccio.

Taaanti, anni fa, durante il mio primo viaggio all’estero da sola, in Irlanda, avevo trovato un libro su un autobus di Cork: On the Road, di Jack Kerouac. Quel libro voleva viaggiare, infatti è arrivato fino in Italia, così, ricordandomi di lui, ho iniziato a pensare che il destino di un libro era quello di trascorrere la sua vita su uno scaffale, ma solo se amato, o di viaggiare libero fino a trovare “il suo posto”. I libri che escono di qui, e che nessun amico vuole adottare, oggi vengono liberati attraverso un circuito di book crossing, gli auguro buona vita e li immagino in tanti luoghi e in tante avventure. Libertà!

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Mai fermarsi alla prima impressione: storie di consegne

Mattina pienissima, questa, in cui abbiamo incastrato anche un’intervista. Su Dogs & Country di solito parliamo di cinofilia, caccia, campagna, insomma le solite cose. Oggi siamo metaforicamente andati in città, ma è per una buona causa.  Siamo andati a vedere cosa succede a Milano, per mettere in luce una delle tante esperienze positive che la gente sta vivendo ai tempi del Coronavirus. Non fraintendetemi, non sto dicendo che il COVID 19 sia una manna dal cielo, piuttosto dico che dai bruchi nascono le farfalle e che dal letame nascono i fiori.

Carlo e Nuvola (©️ Paolo Carlini)

Per darvene testimonianza, ho preso il telefono e fatto una chiacchierata con Carlo Enrico Chiesa. Io dalla mia scrivania del Siccomario, lui dal sedile del suo Apecar (con una gomma bucata), nel centro di Milano. Carlo in verità è originario di Belgioioso (Pavia) che, rispetto al Siccomario, sta più vicino di Milano. Noi ci conosciamo, sebbene indirettamente, da un bel po’. Ho infatti affidato alla sua famiglia ben tre setter inglesi: Islo, Nuvola e infine Branwyn (oggi Attilio), uno dei miei cuccioli. Carlo è un imprenditore, di quelli piuttosto creativi: negli anni ha fatto spaziare le sue attività dalle lampade alla finanza, passando per il turismo e i biscotti per cani. Se mai avete visto un Apecar vendere biscotti in giro per i parchi Milano, quello era il suo Dog Sweet Dog, attività che è stata portata avanti con una socia fino a qualche mese fa.  L’Ape di Carlo, tuttavia, oggi era a spasso per Milano per ben altri motivi… e io sono molto curiosa.

Ciao Carlo, che ci fai sull’Ape stamattina, mi aspettavo di sentirti da casa, o forse dovrei dire dalla moto? Sono risposte esatte tutte e due. Come ha scritto correttamente, potrei curare parte delle mie attività imprenditoriali da casa, lo chiamano smart working, ma non sono mai stato una persona solo da smart working, mi piace il contatto con la gente. Pensa un po’ che non mi piace nemmeno comprare online, io le cose le devo vedere, toccare e scegliere di persona, specie il cibo. Mi piace cucinare, ma da quando ho il tuo cane è diventato impossibile!

Attilio (Branwyn)

Perché? Attilio ha sempre fame e ruba tutto mentre cucino! È l’Arsenio Lupin della gastronomia.

Ops! E resta persino magro… Comunque, che stai facendo in giro con l’Ape? Ecco, come ti dicevo, mi piace essere attivo, fare cose, e ho iniziato a soffrire a causa della clausura imposta dal coronavirus. Comprendo le ragioni sanitarie, ma la mia forma mentale mi porta a chiedermi quali saranno le conseguenze economiche della quarantena. Questo fermo alle attività mi preoccupa. Penso ad esempio mio figlio, che curava la parte turistica della società. Chissà se, e quando, potrà riprendere a lavorare. Così, tra una preoccupazione e l’altra, mi è venuta un’idea, e ho scelto di mettermi alla prova.

Quale idea? Beh, ho fatto due più due e preso in esame le professioni che sono ancora attive. Poi ho pensato alla mia età, ai miei hobby, a quello che so fare, a quello che mi piace fare e a cosa mi sarebbe piaciuto imparare. Alla fine di tutto questo ragionamento, ho deciso di iscrivermi a Glovo, un servizio di consegne a domicilio, come rider, e pensare che non ero mai nemmeno stato loro cliente!

L’Apecar

Come funziona la cosa, in pratica? È molto semplice, vai sul sito, compili un modulo e dai la tua disponibilità. Se gli vai bene, dopo un paio di giorni vieni ricontattato e inizi a lavorare. Noi siamo abituati a vedere i rider in bicicletta, ma si può consegnare anche in macchina, o con la moto. A me piace andare in giro in moto e, generalmente, consegno in moto, unisco l’utile al dilettevole, in un certo senso. Oggi però ho preso l’Ape… e ho bucato la gomma. La ripariamo e si riparte.

Quindi, chiunque può diventare un rider di Glovo?A grandi linee direi di sì, io avevo già una partita iva, e so che altri rider lavorano con partita iva, ma non so se sia necessaria. Come dicevo, il mezzo di trasporto non è una barriera. Ovviamente la macchina è più comoda della bicicletta, ma chi va in bici si fa un fisico invidiabile! Come potete immaginare, io sono tra i più “anziani”, parlo proprio di età, ma in Glovo lavorano persone di tutti i tipi. Di solito si associa il lavoro di rider agli extracomunitari, pakistani e africani, per lo più, ma è una generalizzazione. È vero, la maggior parte dei colleghi sono extracomunitari, ma non sono l’unico italiano che sfreccia per Milano con uno zaino in spalla. È un lavoro duro, infatti io faccio solo alcune ore al giorno, ma se sei sveglio, veloce e ti impegni riesci a racimolare uno stipendio dignitoso. Infatti, molti rider sono arrivati a questo lavoro dopo altre esperienze, ma sono rimasti, soddisfatti dai guadagni. Le donne, invece, sono pochissime, credo sia legato sia all’impegno fisico richiesto, sia al fatto che una donna possa ritenere, giustamente, pericoloso, andare in giorno da sola a fare consegne, specie di notte e specie in certe zone.

Sempre l’Ape

Qual è il rapporto con i colleghi? Sulla carta potremmo apparire molto diversi: io sono milanese quasi DOC e Glovo non è la mia principale fonte di reddito; loro vengono da ogni parte del mondo e mantengono loro stessi e le famiglie portando in giro pacchi, eppure, quando lavoriamo sono tutti uguali. Sono subito stato accolto a braccia aperte, tutti mi hanno aiutato e supportato, nessuno mi ha mai accusato di essere lì a “rubare il lavoro”. Certo, anche io faccio la mia parte, e aiuto gli altri se hanno bisogno.

Per esempio? Le spese grosse si “smezzano”, per esempio la gente ci ordina anche le bottiglie dell’acqua, sono pesanti e uno da solo non ce la fa, così io, in moto, aiuto quelli che hanno la bicicletta, e via dicendo. Poi cerco anche di trasmettere un po’ di sicurezza e un po’ di esperienza di vita. Tanti rider sono persone umili, che si sottomettono anche troppo alla maleducazione di certi clienti.

I clienti sono maleducati? No, anche qui, dipende: l’umanità è varia. Ci sono persone cordiali e capaci di mostrare gratitudine, e altri per i quali sei uno schiavo, niente di nuovo sotto il sole.  Faccio un esempio: non siamo tenuti a consegnare al piano, la consegna è fino al portone, però a volte ti chiedono di… e allora sali con la spesa. La cosa sembra semplice, ma non lo è, devi parcheggiare il mezzo, perdi tempo, eccetera eccetera, eppure qualcuno non ti dice nemmeno grazie. Se mi trattano male, io non ho problemi a manifestare il mio dissenso, una volta ho quasi esortato un cliente a dare la mancia a un mio collega!

Danno le mance? Ovviamente è discrezione del cliente, ma se il rider ti ha fatto quel favore extra, perché no? Curiosamente, ho riscontrato più generosità nelle periferie, che non nei quartieri della “Milano bene”, ma non ne sono stupito più di tanto.

In che zone consegnate? Noi copriamo tutta Milano. Lavoriamo con una app che ci geolocalizza e ci invia gli ordini in base alla nostra pozizione. Ho scoperto zone di Milano in cui non ero mai stato. Il GPS è indispensabile, e lo sarebbe anche una numerazione chiara degli edifici, spesso i numeri civici mancano, o sono confusi.

Il pannello di controllo

Hai paura? Lo ritieni un lavoro pericoloso? Non ho paura del Coronavirus, quanto alle altre cose… A Milano c’è poco traffico adesso, ma bisogna stare attenti e non andare troppo veloce perché, proprio siccome c’è poco traffico, la gente fa un po’ quello che vuole. Per il resto, non c’è in giro praticamente nessuno, neanche nelle zone malfamate, per cui non credo di correre grossi rischi. Glovo ci segue attraverso una app e sa sempre dove siamo, è una app che funziona molto bene e che gestisce in maniera efficace tutti gli aspetti della logistica.

Momenti imbarazzanti? Quando devi consegnare una pizza, si sta raffreddando, non trovi il nome sul campanello e inizi a suonarli tutti, magari alle 11 di sera.

La gente si arrabbia? Qualcuno sì, qualcuno no. Io però ho abbastanza faccia di tolla per replicare spiegando che potrebbe capitare anche a una loro futura pizza di smarrirsi. Per fare questo lavoro ci vuole una certa sicurezza di carattere, ti scrolla di dosso le scortesie.

Compagna d’avventure

Chi è il cliente tipo? E cosa ordina? Il cliente tipo è eterogeneo, una cosa che ti stupirà è che molti utilizzatori di Glovo sono giovani che hanno scelto di non uscire perché hanno paura. Non vogliono nemmeno vederci. Pagano prima e si fanno lasciare la consegna fuori. Ordini, portiamo di tutto: spese, fiori, gelati, pizze, sigarette, regali, ho consegnato le cose più svariate agli orari più strani, tipo un gelato di Grom a mezzanotte. Varia molto in base alla zona e agli orari. C’è chi si fa portare la colazione, per esempio, o il pasto preparato da un parente, facciamo anche consegne da privato a privato. Alla domenica vanno per la maggiore le sigarette e comunque i Milanesi ordinano un sacco di acqua!

È un’esperienza che consigli? Continuerai dopo la quarantena? Sono contento di aver scelto di fare questa esperienza. Ho conosciuto persone meravigliose, tanti “invisibili” che hanno molto da insegnarci. Mi piace andare per negozi e rendermi utile e, come dicevo, se fai molte ore poi anche realizzare dei discreti guadagni. A pochi giorni dal mio inizio, si è registrato anche mio figlio, trentenne e attualmente senza grandi prospettive di lavoro, viene dal mondo nel turismo. Per lui Glovo è un lavoro a tempo pieno, 8-9 ore al giorno (se ne possono fare fino a 12 al giorno). È pesante, ma gli piace, in più, se fai molte consegne, sali di rango e hai maggiori possibilità di scelta tra gli orari di lavoro, lui è già abbastanza in alto in classifica.

Credo che questo lavoro possa insegnargli (e insegnarmi qualcosa).  Sono convinto che i servizi di consegne a domicilio siano destinati a svilupparsi. Continuare anche dopo la quarantena? Sì, mi piacerebbe continuare a svolgere questa professione, anche per poche ore. Mi piace sentirmi utile e sentirmi amico di persone che altrimenti non avrei incrociato solo da lontano. Mi sento in qualche modo privilegiato per averli conosciuti: hanno anche qualcosa da insegnare, a tutti noi.




Quattro passi dentro casa: L’Acquarello Blu

Oggi corso di agopuntura veterinaria online, nove ore
attaccata al pc, di una cosa posso vantarmi: in quarantena non mi sono mai
annoiata. Mi hanno fregato un altro imbrunire, però piove, quindi la luce non è
la stessa. C’è buio, sembra di essere rimbalzati in autunno. Occorre vederci
chiaro, ma troppa luce non mi piace: accendo una lampada. È domenica ma ho
perso il senso del tempo.

Scrivo per cercare di ritrovarlo, ho anche paura che mi
scappino le idee. Ne ho avuta una, ieri sera, le migliori idee nascono col
buio, non voglio che svanisca. Più che un’idea è stata un’intuizione, un “epiphany”,
come le chiama Joyce. L’intuizione è balenata veloce e si è subito collegata ad
uno dei miei quadri. Mio perché lo possiedo, non perché l’ho disegnato. Non
sono proprio capace di disegnare, è qualcosa che mi manca tanto, ma oramai mi
sono rassegnata. Però le opere d’arte mi piacciono, anche se mi piacciono a
sensazioni, più che a logica.

Questo quadro è arrivato così, per tanti casi. Su Ebay mi
avevano colpito degli acquerelli con dei cavalli, li faceva un’artista di nome
Michele Weise (una donna, a dispetto del nome), che credo stesse in Arizona.
Ero riuscita a strappare tre dei suoi acquerelli-con-cavallo ad un prezzo
stracciato: credo troppo stracciato per starle simpatica, in mezzo all’ordine, non
so più come, era finto anche un quadro, più o meno, astratto. Ci ho messo il
“più o meno” perché io ci vedo un tramonto sul mare, ma altri potrebbero
vederci solo delle strisce di colore, per giunta con delle enormi sbavature. A
me piace così, con i suoi colori e con il suo sole. Pazienza per la cornice,
non era esattamente quello che volevo, facciamo finta di niente.

In questo acquarello ciascuno può vederci quello che vuole.
Può darsi anche altri credano che il gioco di colori rappresenti un tramonto
sull’acqua, ma sono certa che il paesaggio che vediamo non sia lo stesso per
tutti, probabilmente nemmeno i colori.  L’epifania di ieri sera era qualcosa del
genere. Una persona, o un’animale, non sono mai gli stessi: cambiano a seconda
del contesto, e cambiano a seconda di chi li osservi. Prendiamo Briony, il mio
cane: potremmo dire che è un cane da caccia, se la porto a caccia; che è un
cane da prove, se la porto alle prove; o che è un cane da compagnia, se la
metto sul divano.  È lo stesso cane, ma
diventa ogni volta qualcosa di diverso. Così come Rossella può essere vista in
tanti modi a seconda di quello che sta facendo. 
Siamo quello che siamo perché siamo o… siamo quello che siamo in base a
quello che facciamo?

Cosa ci definisce? Il contesto? Quello che facciamo? Noi
stessi? Gli altri? Un po’ tutte queste cose, messe insieme. Avete presente certe
insalate di riso, d’autore anonimo, in cui si butta dentro un po’ troppo di
tutto? Si rischia di essere percepiti così, o peggio ancora di diventare una di
quelle pizze con troppi ingredienti, tanto invadenti da non lasciare cuocere la
pasta.  Per mantenerci integri, e ben
cotti, serve un po’ di autostima, solo così ci autodefiniamo.

Lo stesso cane a cui io voglio un mondo di bene, potrebbe
essere, per altri, un disturbo: altro che fenomeno di qui e fenomeno di là, è
solo un cane che abbaia. È solo il cane che ti obbliga ad attraversare la
strada, perché il tuo lo vorrebbe azzannare, o il cane che rende difficile la
consegna delle casse dell’acqua.  Per
inciso, non ho mai definito il mio cane un fenomeno, ma mi piaceva l’idea di
usare questa parola per evidenziare la soggettività, a volte persino la miopia,
con cui si percepisce la realtà.

Individuale, soggettivo, relativo: il mondo è ciò che
percepiamo, anche le persone. La precarietà sembra acuirlo.  Di questi tempi non si può, per lo meno io
non riesco, fare a meno di sentirsi un po’ Mercoledì Addams: pensate ai morti
di Coronavirus, chi erano costoro? La stessa persona, quasi sicuramente, era
tante persone: cambiava a seconda del contesto e dell’osservatore. Quello che
era il signor Arancioni (ho preso un colore meno diffuso di Rossi, o Bianchi, altrimenti
mi accusano di portare sfiga) in ufficio, probabilmente non era la persona che
conoscevano in famiglia; né quella a cui erano abituati gli amici, o i compagni
di hobby. 

Una luce bianca quando passa da un prisma si scompone in
tanti colori.

L’acquarello blu, non è solo blu: c’è viola, rosa, giallo, arancio, azzurro, grigio, nero, una punta di bianco. L’acquarello blu è tante cose, insieme.

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