Webinar Cani & Cibo

Scusate il ritardo nell’annunciarvelo, ma ho il blocco dello
scrittore.  Lo scorso mese di gennaio ho
tenuto un corso di tre serate sull’alimentazione del cane… Bene, da parecchio
penso quale possa essere il mio contributo sul fronte del coronavirus. Qualche
giorno fa ho avuto un’intuizione e ho pensato di riproporre sotto forma di
webinar la prima lezione del mio corso. Di cosa parlerò? In pratica dedicherò
un’oretta a parlare di come il cane è diventato cane (a partire dal lupo) e di
come questo ha determinato un cambiamento delle sue necessità nutrizionali. Al
termine di questa parte verranno date alcune nozioni di base sull’anatomia e
sulla fisiologia del cane. Queste nozioni verranno messe in relazione con l’alimentazione.

Il webinar si terrà sulla pagina facebook Rossella Di Palma Medicina
Veterinaria Integrata, sabato 28 marzo alle ore 15.00 https://www.facebook.com/violetvet/

La partecipazione al webinar è gratuita, ma è gradita un’offerta al Policlinico San Matteo di Pavia, vi verrà spiegato come.




Le risposte dell’organismo all’esercizio fisico

di Chiara Adorini (DVM, CVA -IVAS, CCRT)

Condividiamo con piacere la lettura (riassunta) di una pubblicazione scientifica che riguarda i cani sportivi. Per saperne di più andate su www.medicinasportivaveterinaria.com

Molti aspetti clinico-patologici variano
in risposta all’esercizio fisico.

Ciònostante, vi sono delle variabili
attribuibili ai tempi di prelievo che possono influenzare questi aspetti nelle
analisi del sangue.

Uno studio eseguito su 3 team composti
da 6 cani ciascuno (team che nelle ultime 10 settimane si erano allenati su dryland
per un totale di circa 300 miglia) sono stati fatti correre su un percorso di dryland
di 3 miglia.

Il percorso veniva concluso in circa 12
minuti a una velocità media di 24,3 km/h con una temperatura ambientale di
circa 4 gradi e si osservava come 

  • l’anticipazione dell’attività fisica, ovvero il momento di “stress” pre-gara 
  • e la durata dello sforzo fisico (quando questo era di tipo “breve ed intenso”)

potevano condizionare valori sul sangue
rispetto al periodo di riposo pre-gara.

Comparando riposo con immediato pre-gara
e post-gara gli studiosi notavano 

  • un aumento significativo di sodio, cloro, albumina, calcio e cortisolo nell’immediato PRE-gara
  • aumento della glicemia e cortisone nell’immediato POST gara

L’anticipazione dell’esercizio è una
fase eccitatoria o di ansia associata ad un evento che sta per avvenire. 

I risultati di questo studio dimostrano
che l’anticipazione dell’esercizio può cambiare il bilancio elettrolitico e
ormonale, inoltre, a differenza di altre razze e altri sport intensi e di breve
durata, alla fine del tracciato in cani da sleddog, si osservava un aumento
della glicemia. Le ipotesi ricadono su variabilità di razza e sulla
predisposizione individuale. 

Gli autori concludono con l’utilità di
investigare sulla presenza di differenze tra le razze nel metabolismo del
glucosio in risposta all’esercizio. 

Hematologic,
serum biochemical, and cortisol changes associated with anticipation of
exercise and short duration high-intensity exercise in sled dogs 

Craig T.
Angle,1, Joseph J. Wakshlag, 2, Robert L. Gillette1, Tracy Stokol 3, Sue
Geske4, Terry O. Adkins5, Cara Gregor 4 .

1 Sports Medicine Program, College of Veterinary Medicine, Auburn University, Auburn, AL, USA; Departments of 2 Clinical Sciences and 3 Population Medicine and Diagnostic Sciences, College of Veterinary Medicine, Cornell University, Ithaca, NY, USA; 4 Double Diamond Veterinary Services, Bozeman, MT, USA; and 5 Adkins Kennels, San Coulee, MT, USA 




Il proprietario, il veterinario e la nutrizione

di Rossella Di Palma (DVM) – Scuola Specializzazione Sanità Animale, Allevamento e Produzioni Zootecniche

www.violetvet.it

Qualche giorno fa si è concluso un breve corso
sull’alimentazione del cane e del gatto che ho proposto e curato insieme ad
un’associazione locale. Senza voler peccare di immodestia, nel suo piccolo,
credo che il corso sia stato un successo. Ha poi confermato qualcosa che già
sapevo, ovvero che ai proprietari, o per lo meno a certi proprietari, interessa
come fare stare meglio i loro animali e, pertanto, gli interessa come
alimentarli. Ho avuto un pubblico eterogeneo: “semplici” proprietari, allevatori,
educatori, conduttori di cani sportivi, una bellissima platea con cui
interfacciarsi, discutere e da cui essere stimolati a continuare a studiare.

Secondo qualche collega, i veterinari non dovrebbero fare
questi corsi ai proprietari, ma io dico, perché no? Non sono forse loro coloro
che, concretamente hanno l’onore e l’onere di riempire le ciotole ai loro
animali? Un veterinario fa qualcosa di concreto addosso al cane nei tempi in
cui ce l’ha in visita, in degenza e sul tavolo chirurgico, dopodiché la palla
passa ai proprietari. Non dimentichiamoci che un animale domestico può avere,
per il proprietario, un valore affettivo immenso e, da veterinario, credo sia
mio dovere rispettarlo, nonché di guidare il proprietario affinché incanali
nella maniera migliore tutto l’affetto, tutto il tempo, tutte le energie e
tutti i soldi (sì, anche quelli!) che desidera investire sul suo animale.

L’obiettivo del mio corso era Introdurre, Informare e
Incentivare scelte consapevoli
, uno slogan talmente bello che me lo hanno
subito copiato! Il corso non puntava a vendere questo, o quel mangime, né a
obbligare, a mo’ di fanatismo religioso, i proprietari a passare alla
casalinga, alla BARF, o chissà cos’altro. Ho semplicemente cercato di dare, in
poche ore, qualche elemento in più per poter fare scelte informate. Volevo che
ciascuno di loro tornasse a casa sapendo qualcosa in più di quanto già non
sapeva.  Secondo qualcuno, i medici
veterinari che fanno questi corsi incentivano i proprietari a mettere in
cantiere diete casalinghe scriteriate, anche questo è falso, per lo meno nel
mio caso. Io mi sono limitata a spiegare ai proprietari che cosa sia una dieta
casalinga e quanto sia importante il ruolo del nutrizionista medico veterinario
nella formulazione, nonché nel monitoraggio della stessa.

Sì perché, per qualche strano motivo, le parole “medico veterinario” e “nutrizionista” sembra che non possano viaggiare insieme.  I medici veterinari spesso hanno una posizione tutta loro nei confronti della nutrizione: qualche giorno fa una rivista del settore riportava in prima pagina l’editoriale di un collega che sosteneva a spada tratta l’utilizzo dell’alimentazione commerciale nei pet. Secondo questo collega, crocchette e scatolette sono l’unica, nonché la più sicura, maniera di alimentare i nostri animali. In realtà, senza voler imbastire alcun attacco all’industria, anche l’industria ha le sue ombre, nessuno è perfetto e qualche scheletro ogni tanto scappa dall’armadio. 
Ma, a parte questo, ritengo assurdo pensare che A) un cibo “processato” possa essere in qualche modo migliore di un alimento fresco e B) che cani e gatti possano sopravvivere degnamente solo se alimentati con cibi industriali. Ma come??? Sono animali che esistono in natura da migliaia di anni, il boom del pet food (sarebbe bello scrivere una storia!) risale a quanto? Una quarantina scarsa di anni fa! Quando ero bambina i veterinari prescrivevano ancora diete casalinghe, non parliamo dell’era dei fossili!

Ricordiamoci che gatto e cane, soprattutto il cane, si sono
evoluti accanto a noi, e che il cane ha adattato la sua fisiologia per poter
fruire efficacemente dei nostri scarti alimentari: oggi ci troviamo di fronte
quello che viene definito un carnivoro adattato, a differenza del gatto, che è rimasto
un carnivoro puro. Attenzione, non sto dicendo che bisogna alimentare cani e
gatti con gli avanzi della tavola, piuttosto intendo sollevare un
interrogativo: nessuno ha mai pensato che l’alimentazione industriale, per
altro comodissima per noi umani, sia l’ennesima richiesta di “adattamento
alimentare” rivolta ai nostri animali? Stiamo chiedendo ai nostri animali di
evolversi o, piuttosto, di involversi?

Trova le differenze!

Interrogativi etici a parte, che non devono certo
interessare tutti gli addetti al mestiere, credo che sia invece dovere di ogni
medico veterinario riconoscere alla nutrizione un ruolo centrale nel
mantenimento dello stato di salute di un animale. E invece, cosa succede?
Succede che l’alimentazione viene trascurata, viene banalizzata, e viene
delegato all’industria il compito di risolvere ogni magagna di origine
alimentare. Qualcuno dice che l’insegnamento della nutrizione dei piccoli
animali è fatto poco e male nelle università, nel mio caso non è stato così. La
parte sui piccoli animali da preparare per l’esame di nutrizione era
adeguatamente corposa e dettagliata, il problema è che gliene importava nulla a
nessuno. Lo studente di medicina veterinaria è intasato di esami e, poveraccio,
taglia dove può… Così mentre io sostanzialmente giravo attorno al Fossum (testo
sacro di chirurgia) cercando scappatoie, i compagni dribblavano le slides di
nutrizione sostenendo che “tanto poi avrebbero consigliato il mangime”.

Benissimo, scelte personali, ma di cui poi, una volta
laureati, bisogna essere consapevoli.  Invece, la nutrizione non smette di essere
Cenerentola, nemmeno dopo l’università. Oggi è normalissimo inviare un animale
da uno specialista per una seconda opinione: l’ortopedico, il cardiologo,
l’oculista, il dermatologo sono gettonatissimi, il nutrizionista invece è un
fantasma. Esiste ma non lo vede nessuno, altri non è che uno sfigato che passa
le giornate a contare le calorie dei gatti. Ecco io sono uno di quei contatori
di calorie dei gatti che ha iniziato ad interessarsi di nutrizione ancora prima
di laurearsi, per l’esattezza ancora prima di essermi iscritta alla facoltà di
Medicina Veterinaria. Mi ero comprata, per diletto e ad alto costo, il volumone
Small Animal Clinical Nutrition, via internet, pagandolo con un vaglia
internazionale, preso da una studentessa americana che lo rivendeva perché non
sapeva che farsene. Vi è assicuro che è grosso come un testo di chirurgia, non
fa meno paura e probabilmente pesa anche di più.

Non sono nemmeno l’unica ad avere queste passioni malsane, ci sono altri medici veterinari (-senza dimenticare chi fa ricerca e chi insegna nutrizione) che di nutrizione ne sanno tanto e altri ancora che cercano di saperne, siamo una minoranza sì, ma esistiamo e vorremmo che i colleghi che hanno scelto di non studiare la nutrizione si ricordino di noi. Possiamo tornare utili a tutti e possiamo interagire con loro molto meglio di quanto non può fare una brochure aziendale, che per altro di solito ci siamo già studiati.

Ci sono proprietari responsabili che vogliono mettere
l’alimentazione al centro della gestione del loro animale. Hanno domande e
cercano risposte a quelle domande, ma non sanno dove trovarle, né quali
risposte possano essere attendibili, e quali no. Premesso che in nutrizione
tante domande una risposta scientificamente provata non ce l’hanno ancora, per
un proprietario è quasi impossibile reperire informazioni obiettive, che non
facciano pendere la bilancia verso quello, o quel prodotto, o verso questa, o
quella moda alimentare. Esistono anche quelle, non possiamo fare finta di
ignorarle e lasciare che i proprietari si formino attraverso canali
inappropriati e accumulino in sapere alimentare distorto.

Non sono per la censura, non sono per il dover per forza
seguire una voce unica, né per il dover essere per forza una voce fuori dal
coro, credo nella pluralità e nel confronto ma, obiettivamente, un proprietario
che non ha una laurea in medicina veterinaria, non può che beneficiare dal
consiglio di un medico veterinario che ha studiato a fondo la nutrizione. Per
questo credo sia importantissimo supportare i proprietari, e fare in modo che
ci siano sempre più proprietari correttamente informati. Di solito, in prima
battuta, tanti bravi proprietari il parere al veterinario lo chiedono eccome,
ma il problema insorge quando il veterinario di rifermento, che poveraccio deve
già barcamenarsi tra le mille patologie mediche e chirurgiche che gli capitano
tra le mani ogni giorno, non può dare risposte che siano autorevoli, o per lo
meno soddisfacenti.

Facciamo un esempio molto semplice, quello del proprietario che vuole passare all’alimentazione casalinga, ha preso questa decisione, e non si smuove da lì. Se il veterinario di fiducia non lo assiste, né lo indirizza al veterinario che si occupa di nutrizione il proprietario può A) fare da sé documentandosi a modo suo su internet, Facebook e affini formulando da sé una dieta pasticcio; o B) rivolgersi a una figura che può soddisfare questa richiesta. Purtroppo, questo “qualcuno” non è quasi mai un medico veterinario: internet è tutto un proliferare di figure ibride che fanno consulenze alimentari di dubbio valore sconfinando sovente nell’abuso di professione… Senza parlare dei disastri.

Se siamo arrivati a questo, se vale più il consiglio dell’amico idraulico “perché ha cani da trent’anni”; o del tal psesudo-professionista sgrammaticato la cui unica nota di merito è saper parlare alle pance della gente, è perché la domanda (proprietario attento all’alimentazione del proprio cane) non viene indirizzata verso l’offerta, quella giusta (veterinario appassionato di nutrizione). Eppure noi ci siamo e siamo pronti a dare un servizio di qualità a quei proprietari ne sentono il bisogno.




Io corro da solo!

Anche i cani da
caccia si perdono

Un lungo silenzio ma, messa di fronte all’ennesimo annuncio raffigurante
un segugio “fatto perdere dai cacciatori perché non era buono”, mi è tornata la
voglia di scrivere.

Riassunto: la maggior parte delle razze canine, che vi
piaccia o meno, erano o sono usate per la caccia. Ma erano, o lo sono? Diciamo
che, ultimamente, si è tentato di trasformare alcune razze prettamente in razze
da compagnia, ma l’esperimento è riuscito a metà, ovvero certe caratteristiche
proprie del cane da caccia sono rimaste tali e quali.

Ma abbandoniamo questa breve digressione e torniamo ai cani
da caccia-caccia, quelli che vengono “fatti perdere perché non buoni”. In cima
alla classifica dei persi/ritrovati (l’aggettivo dipende dai punti di vista),
abbiamo, immaginate un po’… I SEGUGI!!! Siano essi da lepre, o da cinghiale… i
segugi sono abbandonatissimi! Ma, davvero? Davvero un po’, nel senso che i
segugi sono cani specializzati nello scovare e nell’inseguire una preda. Un
buon segugio “seguita” appunto ad inseguire la malcapitata lepre, o il
malcapitato cinghiale. Se è un segugio sovversivo potrebbe inseguire anche il
daino e il capriolo, e qui le cose si complicano…

Però, per quanto vengano portati lontano, i segugi hanno generalmente (e per fortuna) un buon senso dell’orientamento e quindi sanno ritornare nel punto in cui sono stati sganciati.  Quindi, se trovo un segugio che corre in autostrada lo devo lasciare andare perché tanto sta tornado a casa? No! Come in tutte le cose ci vuole del buonsenso, non c’è nulla di male nell’interrompere un pericoloso vagabondaggio, basta tenere a mente che, molto probabilmente, quel cane sta A) lavorando; B) ritornando alla base o, C) si è perso – ipotesi remota, ma possibile. Insomma, teniamo a mente che il fatto che il  cane se ne stia andando a zonzo da solo, non è necessariamente sinonimo di abbandono.

Sul gradino numero due della classifica troviamo i cani da
ferma, efficacemente capitanati dal setter inglese. Perché il setter inglese?
Perché sono cani con una cerca (raggio d’azione) molto ampia e cani talmente
entusiasti di cacciare (ma anche un po’ svampiti) che quando partono per
un’impresa si dimenticano di avere un proprietario.

Ho mai perso un cane da caccia? Il mio primo setter, un
rescue, con l’orientamento era un disastro e in un’occasione, ha gironzolato
per ore in Appenino prima che qualcuno mi chiamasse. All’epoca non esistevano
ancora quegli splendidi collari in biothane con tanto di numero di
telefono.  Indossava una medaglietta, ma
ci sono voluti diversi giri (suoi) tra i negozi di un paese prima che qualcuno
si chinasse a leggerla.

Con i collaroni in biothane i problemi si sono in gran parte
ridotti: questi collari sono diventati una sorta di codice non scritto e ho
assistito personalmente a ritrovamenti di cani a distanza di pochi minuti dalla
loro sparizione. Sono economici, incrementano la visibilità del cane e
invogliano ad alzare la cornetta. La medaglietta si vede poco e risalire al
proprietario di un cane attraverso il microchip non è immediato. Chi vede un
cane con un grosso collare fluorescente, presume che sia stampato sopra il
numero di telefono e, pertanto, recupera il cane con serenità, sapendo che i
tempi di custodia saranno estremamente brevi.

Il tutto funziona molto bene in aree rurali, ma in aree
suburbane e in presenza di cittadini in gita in zone rurali, la faccenda si
complica. Vi faccio un esempio molto personale. La mia setter non “scappa” ed
ha un collegamento eccellente, ovviamente come tutti i setter non trotterella
tra i piedi , ma sa sempre dove sono e rimane legata a me con un filo visibile.  Orbene, qualche mese fa, mentre facevo la
solita passeggiata in campagna, esattamente dietro casa la canina è
improvvisamente scomparsa. Così, pensando semplicemente che fosse in ferma
nello sporco (non rispondeva ai richiami), la sono andata a cercare più avanti,
dove presumevo che potesse essere. Invece, le cose non erano andate proprio
così. Una persona zelante, ma non consapevole di cosa sia un cane da ferma
inglese, non vedendo nessuno attaccato alla coda del cane (ero sì e no, a 100
metri nascosta dietro una curva e a un gruppetto di alberi), ha deciso che si
trattava di un cane perso/abbandonato e l’ha presa con sé. Il problema è che la
persona non aveva un cellulare, e pur trovando un recapito telefonico sul
collare del cane, non aveva modo di chiamarmi. Così mentre io vagavo alla
ricerca del cane, lei vagava in direzione opposta, con il mio cane al
guinzaglio, alla ricerca di qualcuno con un cellulare: un gran scompiglio
inutile!

Ripetete insieme a me: i cani da caccia lavorano a distanza, non sempre un cane da caccia che corre da solo si è perso, può darsi stia semplicemente facendo il suo lavoro.

Come in altri settori la tecnologia dovrebbe essere d’aiuto
e, più nello specifico, ha la tecnologia GPS risolto il problema dei cani
smarriti? Nì. Ma andiamo con ordine. I primi GPS, o per lo meno i primi che ho
visto io, erano costosissimi. Ricordo i primi collari e i primi palmari
acquistati dal canettiere della squadra di caccia al cinghiale con cui
cacciavo. La spesa era stata pari a diverse centinaia di euro, ma le
prestazioni dell’attrezzatura erano sorprendenti: le mappe indicavano persino i
nomi dei rigagnoli. Ci sono stati utili? Decisamente sì ma, a fronte di un
eccellente rapporto qualità-prezzo, il prezzo elevato costituiva quella che
potremmo chiamare una “barriera d’accesso”. I collari di cui parlo esistono
ancora, anzi oggi sono proposti da più marche, ma il loro prezzi sono scesi di
poco. Molto più alla portata di tutti sono invece i collari GPS che funzionano
sulla rete dei telefoni cellulari e che usano il cellulare a mo’ di palmare.
Dei pro e dei contro di questi “GPS”, parleremo in futuro, oggi mi premeva
semplicemente ricordare che esistono.

Tuttavia, il GPS è una sicurezza assoluta? Sì e no, dal
momento che può cadere il segnale, può scaricarsi la batteria, si possono
staccare pezzi dal collare, eccetera. Si tratta di eventi rari e sì, è
difficile perdere un cane che ha addosso il GPS, ma ho elencato questi
possibili incidenti perché, chi ritrova un cane SENZA GPS addosso non è detto che
non lo avesse prima! Tra le mie memorie di caccia al cinghiale, ne ho una anche
una triste: un cane rubato, con addosso il GPS, a cui il GPS è stato tolto
proprio per farlo sparire senza lasciar traccia!

Non saltate mai a conclusioni affrettate, se trovate un cane
da caccia “sporco” non si è necessariamente perso, se trovate un cane da caccia
senza collari, non è necessariamente stato abbandonato, se trovate un cane da
caccia carico di tecnologia, magari quella tecnologia non ha funzionato, ma ha
un padrone che tiene molto a lui!




Cardiomiopatia dilatativa (DCM) e alimentazione: facciamo il punto

di Rossella Di Palma (DVM) Scuola Specializzazione in Sanità Animale, Allevamento e Produzioni Zootecniche

e Maria Mayer (DVM, Ph.D)

Dopo aver esaminato COSA sono esattamente gli alimenti grain free nell’articolo a 4 mani scritto dalla collega Maria Mayer e me, torniamo sull’argomento per analizzare (purtroppo) una possibile correlazione fra la somministrazione di questo tipo di alimenti e la cardiomiopatita dilatativa (DCM dall’inglese Dilated CardioMiopathy).

BREVE RIASSUNTO: come abbiamo visto nell’articolo precedente, vengono generalmente denominati grain free gli alimenti commerciali per cani e gatti che non contengono cereali. Molto spesso vengono confusi con alimenti privi di carboidrati, ma come abbiamo visto non è affatto così. Questo tipo di alimenti infatti contiene carboidrati complessi (amido per intenderci) inseriti nella forma di patate (quando va bene) o legumi (ceci, lenticchie, piselli etc.).

COSA è la DCM?

La DCM, che colpisce sia il cane che il gatto, è un disordine del muscolo cardiaco, che si traduce in una riduzione della forza con cui il cuore riesce a pompare il sangue nelle arterie e in una dilatazione delle camere cardiache. Mentre nelle prime fasi la patologia può essere completamente asintomatica, progredendo si possono manifestare soffi cardiaci, aritmie, episodi di collasso, il soggetto può essere debole o stancarsi facilmente in seguito ad esercizio fisico. Nelle fasi avanzate, con l’instaurarsi di una insufficienza cardiaca, possono manifestarsi anche difficoltà respiratorie.

Per quello che ci riguarda in
questo articolo, è importante sapere che, mentre per il gatto è riconosciuta da tempo una DCM collegata a mancanza di
taurina
(un simil-aminoacido essenziale in questa specie), nel cane fino ad
ora è considerato un problema primariamente genetico, legato ad alcune razze in
particolare. Da quello che sapevamo fino ad ora la taurina NON è essenziale nel
cane e per questo la sua assenza non provoca questo tipo di patologia. Come
vedremo seguendo i passi di questo “diario”, forse dovremo rimettere in dubbio
alcune certezze.

CARDIOMIOPATIA DILATATIVA di (SOSPETTA) ORIGINE NUTRIZIONALE NEL
CANE?

Giugno 2017: Anche in Italia arriva l’eco di casi di DCM (Cardiomiopatia Dilatativa) di origine nutrizionale.

Un’allevatrice di setter inglesi
residente in California riceve una diagnosi, per due suoi soggetti, di
cardiomiopatia dilatativa di origine nutrizionale da parte della University of California at Davis. In
quella Università sono già in corso studi su questa patologia e la diagnosi
arriva grazie a un’ecocardio e a un dosaggio della taurina nel sangue.  I due soggetti malati non sono imparentati
tra loro, il che sembrerebbe escludere una presunta origine genetica della
patologia in questo caso. L’allevatrice decide di far misurare i livelli
ematici di taurina in tutti i suoi cani e, sorpresa, tali livelli sono normali
nei soggetti che mangiano mangimi tradizionali, ma sono bassi in quelli alimentati
con mangimi grain free.

La cardiomiopatia dilatativa ha
una base genetica in alcune razze,
come ad esempio il Dobermann.  In altre
razze, come ad esempio il Cocker Spaniel e il Golden Retriever, era già stata
segnalata una DCM da carenza di taurina. Gli esemplari di questa razza
sarebbero, a quanto pare, meno efficienti nel sintetizzarla a partire da altri amminoacidi,
in particolare metionina e cisteina. Come abbiamo accennato sopra, va ricordato
che, fino ad oggi, la taurina non è stata considerata un amminoacido essenziale
nel cane in generale poiché, a differenza di quanto accade nel gatto, questa
specie sarebbe in grado di sintetizzarla.

NUOVI CASI NEGLI STATES 2017-2019

I casi di cani affetti da
cardiomiopatia dilatativa, complice una maggior attenzione da parte dei
veterinari alla ricerca della patologia, si moltiplicano. Si registrano casi di
DCM di sospetta origine nutrizionale in moltissime razze, nella maggior parte delle
quali non è mai stata dimostrata una cardiomiopatia su base genetica, né
un’inefficienza nella sintesi di taurina.

È la dieta ad accomunare tutti i casi: i cani affetti mangiano quelli che vengono chiamati BEG Foods. L’acronimo BEG sta per Boutique and Grain Free Exotic Food: si tratta di mangimi grain free, prodotti da aziende minori e che spesso contengono ingredienti percepiti come “esotici”, quali carni provenienti da fonti non tradizionali (cervo, canguro, bisonte, coniglio…), patate, legumi e inclusioni botaniche di vario tipo.

Le ricerche nel frattempo proseguono e i cardiologi sono in grado di differenziare ecograficamente la cardiomiopatia dilatativa “classica”, da quella di sospetta origine nutrizionale. Viene altresì ridimensionato il valore diagnostico dei livelli ematici di taurina, che sarebbe alterato solo nel 42% dei soggetti: anche soggetti i cui livelli ematici di taurina risultano nella norma, potrebbero essere affetti da DCM di origine nutrizionale. Alcune ricerche (vedi link della Tufts University) sostengono che in realtà potrebbero essere meno l’10% dei cani ad avere livelli di taurina bassi nel sangue, lasciando quindi il dubbio sul reale valore diagnostico di questo dosaggio.

Attualmente, secondo quanto i colleghi statunitensi hanno potuto elaborare dalle esperienze cliniche con questa “nuova” patologia, l’iter diagnostico-terapeutico è basato su un dosaggio ematico della taurina e sull’ecocardiografia. Nel caso in cui venga confermata una DCM di sospetta origine nutrizionale, come primo step terapeutico, accanto ad eventuali terapie farmacologiche, viene imposto il cambio della dieta, con o senza supplementazione di taurina. Diversi soggetti diagnosticati in fase precoce, migliorano con il semplice cambiamento della dieta, fatto possibile, ma non comune, in caso di DCM di origine genetica. La University of California at Davis continua ad essere il principale centro di riferimento per la patologia, attraverso il gruppo di ricerca del Dr. Stern.

Durante questi mesi, veterinari e
proprietari organizzano due gruppi Facebook attraverso i quali confrontarsi e
raccogliere le segnalazioni dei cani affetti. Nascono così un gruppo aperto a
tutti (sotto e qui il link) e uno riservato ai medici veterinari.  Taurine-Deficient (Nutritional)
Dilated Cardiomyopathy
(gruppo
aperto a tutti) e Taurine Deficiency Veterinary Professionals (gruppo riservato ai medici veterinari). Diversi nutrizionisti di
fama, tra cui la Dr.ssa Freeman della Tufts University, iniziano a produrre
materiale divulgativo rivolto ai proprietari attraverso il quale si cerca di
individuare un nesso tra dieta e DCM.
https://avmajournals.avma.org/doi/full/10.2460/javma.253.11.1390 I mangimi che risultano attualmente quelli maggiormente
coinvolti, hanno in comune il contenere elevate percentuali di legumi e di
patate: questi ingredienti compaiono tra i primi 10 della lista ingredienti e
sono contenuti in quantità cospicue.

Nel frattempo, un numero crescente di segnalazioni di cani affetti viene inoltrato alla FDA (Food and Drug Administration), che inizia a pubblicare quelli che potremmo chiamare degli “avvisi” sulla sua pagina web. Nel giugno 2018 la FDA apre un’indagine.

COSA DICE L’FDA – Giugno 2019

La FDA prova a fare il punto in
questo articolo https://www.fda.gov/animal-veterinary/news-events/fda-investigation-potential-link-between-certain-diets-and-canine-dilated-cardiomyopathy?fbclid=IwAR1iVgJunkB40xf0BJYj53IZ4bgpNSfRSs5JD5CgaYJbA1jDDN6IgbAEf9c#diet. Tra il 1 gennaio 2014 e il 30 aprile 2019, la FDA ha ricevuto 524 segnalazioni di soggetti affetti da DCM
(515 cani e 9 gatti). Non è infrequente imbattersi in più animali della
stessa famiglia affetti ed è lecito pensare che questi animali mangino lo
stesso cibo. Non sembrano esserci particolari predisposizioni di razza, il che
porta ad escludere un’origine esclusivamente genetica della DCM. Sono segnalati
casi in razze di tutte le taglie e in soggetti di tutte le età. Sembra esserci
una lieve prevalenza nei soggetti maschi, di taglia medio grande e di mezza
età. Queste prevalenze (maschi, taglia medio grande, mezza età) ricalcano
quelle della DCM di origine genetica, il che porta l’FDA a ritenere possibile
anche una combinazione di fattori
genetici e dietetici
.

Parallelamente la rapida crescita
del numero dei casi, fa pensare sia ad una maggiore
attenzione nella ricerca di questa patologia
, sia ad una sottostima: potrebbero esserci molti
cani in fasi iniziali della patologia, asintomatici, oppure cani in cui sintomi
della DCM potrebbero sfuggire agli occhi del proprietario. Non a caso, alcuni
dei casi diagnosticati hanno intrapreso l’iter diagnostico quando erano
asintomatici. Ci sono casi diagnosticati durante screening pre-chirurgici e
altri sottoposti a ecocardio e dosaggio taurina senza che mostrassero sintomi
apparenti, ma solo per via della dieta seguita e dell’eco mediatico di allarme
creato nell’opinione pubblica americana dall’alto numero di casi.

Dobbiamo dire che diagnosticare
una DCM nutrizionale richiede fra l’altro uno sforzo economico (ecocardio + esami di laboratorio) non alla
portata di tutti i proprietari, il che potrebbe ulteriormente ridurre il numero
dei casi diagnosticati. Vi è infine la questione dei casi correttamente
diagnosticati, ma non riportati alla FDA, tanto che l’agenzia stessa ammette
che possa esserci una sottostima dei casi.

452 casi su 515 erano alimentati con mangime secco ed è stato stilato un primo elenco preliminare delle marche maggiormente coinvolte. Tra i mangimi venduti anche in Italia abbiamo Acana, Taste of the Wild, Merrick, Nutro e Orijen. Nel 93% dei casi si trattava di prodotti grain free contenenti legumi e patate (incluse le patate dolci). Nel 90% dei casi questi prodotti contenevano piselli e/o lenticchie. Per quanto riguarda le fonti proteiche di origine animale, in questi prodotti erano presenti vari tipi di carni, dalle più tradizionali quali il pollo alle più insolite quali la capra.

È importante sottolineare che non possiamo sapere quanti dei casi
riportati alla FDA siano di origine nutrizionale e quanti dovuti alla razza o
alla genetica
. Come abbiamo detto, alcune sottili differenze ci sono da un
punto di vista diagnostico, alcune razze sappiamo che NON sono predisposte e
quindi saranno più probabilmente di origine nutrizionale, ma anche in questo
siamo ben lontani dall’avere certezze.

Sempre secondo l’FDA, test di
laboratorio (https://www.fda.gov/animal-veterinary/science-research/vet-lirn-update-investigation-dilated-cardiomyopathy) non hanno rivelato anomalie nella quantità degli amminoacidi
precursori (cisteina, metionina) o della taurina stessa nei mangimi. Ulteriori
analisi sono in corso per cercare di comprendere se e come processi metabolici
legati all’assorbimento e all’escrezione della taurina abbiamo un ruolo nello
sviluppo della DCM. 

Il Vet-LIRN (Veterinary Laboratory Investigation and Reponse Network) sta portando avanti ricerche su mangimi, sangue, feci e campioni tissutali di cani affetti.

FACCIAMO IL PUNTO DELLA SITUAZIONE

Cosa sappiamo, ad oggi sulle
possibili cause del problema? Possiamo affermare di avere dei sospetti, ma non
vi è ancora nulla di certo. Il problema nasce dall’essere grain free?  O nasce dai
legumi? O meglio da elevate quantità di legumi?

Riguardo alle marche, che pure abbiamo deciso di riportare nell’articolo, va
chiarito che NON è detto che le ditte
maggiormente coinvolte siano quelle peggiori.
Non serve quindi additare una
particolare colpa al singolo produttore: potrebbe essere che il nome di una
particolare ditta sia riportato più frequentemente semplicemente perché
maggiormente venduta, perché ditta maggiormente nota.

D’altra parte è anche vero che quanto sta avvenendo dovrebbe farci riflettere su diversi aspetti legati all’alimento commerciale grain free. In primis, su come una formulazione basata su una “moda” possa essere assolutamente deleteria. Per fare il consumatore “fesso e contento” (perché questo è possiamo dirlo), togliendo i cereali reputati dannosi e per aumentare al tempo stesso il tenore proteico, sono stati inseriti alimenti che non dovrebbero essere presenti in diete per carnivori, come i legumi. Secondo aspetto, a nostro parere molto importante, è come il valore di un determinato tipo di alimentazione non debba essere valutato sulla base dei singoli ingredienti. Gli esseri viventi sono sistemi complessi, dove nella maggior parte dei casi non esiste una correlazione lineare fra ingrediente e effetto. In questo caso ad esempio, nonostante sulla carta le diete possano anche essere ben formulate, quello che non era stato considerato era (probabilmente) l’interazione fra i diversi ingredienti, in termini di assorbimento intestinale ad esempio.  Da quel che sappiamo, le ditte che compaiono sulla lista della FDA non hanno effettuato dei test di somministrazione controllati volti ad appurare la digeribilità delle loro diete. Ci sono formule nelle quali la quantità di legumi supera il 40% del totale degli ingredienti e l’impatto di così tanti legumi su un organismo carnivoro (come cane e gatto) non è mai stato appurato.

COSA FARE?

Come agire quindi a fronte di
quanto sta succedendo? Anche se nel nostro paese ancora l’eco di quanto sta
accadendo negli USA è un rumore lontano, dovremo cominciare a chiederci, come
professionisti e come proprietari di cani e gatti, come comportarci fino a che
la questione non sia stata chiarita scientificamente.

Certamente un consiglio che rimane
valido è quello di far controllare secondo
un calendario stabilito con il proprio Vet curante tutti i cani di razze con
predisposizione alla DCM
di origine genetica: fin qui non ci piove, rientra
nei controlli periodici per quella determinata razza, che sono quindi importanti,
a prescindere da ciò che mangiano. In
questo caso, non stiamo ricercando quindi la patologia di sospetta origine
nutrizionale, ma semplicemente monitorando la possibile evoluzione di una
patologia a cui il nostro cane è predisposto.

Ma gli altri? Chi ha un cane di qualsiasi razza (predisposta o non predisposta
geneticamente a DCM) e che ha
somministrato per molto alimenti grain
free
al proprio cane o gatto dovrebbe effettuare questi controlli?
Nonostante
appunto in Italia non siamo a conoscenza (neanche come “passaparola” fra
colleghi) di numeri simili a quelli degli Stati Uniti, potrebbe essere che
diversi cani e gatti siano ancora in fase asintomatica della patologia, o che i
casi non vengano riportati o considerati dai colleghi come di possibile origine
nutrizionale.

Insomma, in attesa di chiarire la situazione e dato che specialmente se diagnosticata precocemente parrebbe che un cambio nutrizionale possa far regredire la patologia, sicuramente passaggi consigliabili potrebbero essere:

Per i proprietari di cani e gatti che abbiano mangiato o stiano mangiando da molto alimenti grain free:

  1. valutare di ripassare ad una marca con cerali  o nel caso nel caso si decida di passare a dieta fresca integrare la taurina per un periodo da concordare con il veterinario esperto in nutrizione che vi segue.  
  2. effettuare un dosaggio ematico della taurina e eventualmente integrarla
  3. effettuare un’ecocardiografia

  • per i colleghi medici veterinari:
    • riportare
      eventuali casi di DCM anche in fase iniziale in razze che non abbiano
      predisposizione a questa patologia
    • valutare SE
      prescrivere grain free a cani e gatti
      in attesa di chiarire la situazione da un punto di visita scientifico

Nel frattempo è un valido per tutti: non facciamoci prendere dal panico e dalla manie di persecuzione, ma piuttosto cerchiamo di essere prudenti e di mettere in atto tutte le precauzioni possibili in attesa che la scienza ci chiarisca quanto sta succedendo!

Per approfondimenti:




Caccia al cane… da caccia

Riflessioni di mezza stagione… di caccia. Nel Medievo si
cacciavano le streghe, in questo momento storico tanti, troppi, cacciatori,
danno la caccia al loro cane, sia in senso letterale (si insegue il cane da
caccia che scappa), sia in senso figurato, trasformando il cane nel capro
espiatorio preferito.

Se il cane scappa è colpa del cane; se il cane non riporta è
colpa del cane; se il cane… qualsiasi cosa accada è colpa del cane, senza se e
senza ma, senza un minimo di senso critico, né di introspezione.

Quando un cane sbaglia, ammesso che sbagli, chi si chiede
mai se la creatura stata messa in condizione di agire correttamente? Prendiamo
il cane che “non riporta”: gli è stato mai insegnato a riportare? E i cane che “scappa”:
questo cane ha davvero una relazione col proprietario tale da fargli ritenere di
dover essere “collegato”?

Vogliamo poi parlare della paura dello sparo? Come è stato
cresciuto il cane? È stato socializzato? Come è stato introdotto lo sparo? Se
gli avete sparato sei fucilate di fila sulla testa, senza la minima
introduzione ai rumori e alla finalità di tanto rumore, forse il cane tutti i
torti non li ha!

Potrei continuare ad elencare altri presunti errori e reinterpretarli dal punto di vista del cane, ma questo allungherebbe l’articolo, senza arricchirlo, e portandomi lontano dal punto chiave, che è un altro.

Se andiamo a caccia, parlo di quelle cacce che si praticano con il cane, ci andiamo con il cane, ma ci andiamo soprattutto GRAZIE al cane. Per carità, ho conosciuto cacciatori talmente abili da poter quasi fare a meno del cane, ma li vorrei proprio vedere buttarsi nelle acque gelide del Grande Fiume per recuperare un’anatra, per esempio. Ma, comunque che senso ha fare le cose che vanno fatte con il cane… senza cane? Una per tutte? La beccaccia alla posta! Come scrivo spesso la caccia, dal punto di vista dell’approvvigionamento alimentare non ha più ragion d’essere, quindi… Perché si va a caccia?

Per qualcuno è uno stile di vita, per altri una forma d’arte, per altri ancora una sorta di hobby. Non intendo qui mettermi a disquisire sulla liceità etica della caccia, ma mi preme invece portare l’attenzione sul fatto che, oggi, la caccia con il cane debba intendersi come una collaborazione tra uomo e cane, nonché, se possibile, come una raffinata espressione di un gesto atletico.

Sono un tipo preciso e vorrei vedere, anche a caccia, richiami efficienti, fermi al frullo, riporti impeccabili e, magari, come i tanti esteti che popolano la cinofilia italiana, anche un bel galoppo ma… senza arrivare a pretendere la perfezione, sarebbe sufficiente vedere cane e padrone lavorare insieme, con un cane messo in condizione, ovvero preparato ed addestrato, a eseguire le richieste del padrone.

Invece cosa vedo? Vedo per lo più padroni che si “arrabbiano” con cani che non sanno nemmeno di aver sbagliato, né hanno la minima idea di come si dovrebbero comportare per fare felici il padrone. Si dà contro al cane senza provare a pensare “da cane” e senza cercare di vedere il cane per quello che è.

Il cane è A) un semplice strumento di caccia o, nel caso della caccia cinofila, è B) esso stesso la caccia? Ciascuno provi a rispondere come meglio crede. Essendo arrivata alla caccia attraverso il cane, rispondo B, il che mi porta inevitabilmente a vedere il cane, e le cose attorno al cane, in un certo modo.

Questa mia personalissima visione mi spinge a chiedermi, come mai una buona fetta di cacciatori continui a trattare, consciamente, ma anche inconsciamente, il cane come uno strumento di caccia e non come quella risorsa fondamentale che permette alla caccia (con il cane) di esistere. Vedo cani alimentati con mangimi di scarsa qualità, perché costano poco; cani che, nel 2019, vivono ancora in “serragli”, fatti con avanzi di materiali edili arrugginiti; cani che hanno il mantello talmente infeltrito, da ferirsi con le semenze annodate nel pelo; cani derisi e buttati via senza motivo, se non la sfortuna di essere capitati nel serraglio sbagliato.

E boh… di certo il cane non va idolatrato, bambinizzato e dementizzato, come sbagliano fare tanti proprietari di cani da compagnia, ma la categoria “cacciatori”, che ha ancora l’incommensurabile fortuna di poter far svolgere ai propri cani i lavori per cui sono nati, un po’ di gratitudine e devozione, nei confronti di cani che si mettono al loro totale servizio, dovrebbe imparare a mostrarla.




Cuccioli… o individui senzienti?

Breve capitolo nella storia di una cucciolata

L’allevatore è spesso visto come una persona cattiva, che mette al mondo cuccioli inutili a fini di lucro… Non voglio parlare per gli altri, intendo parlare solo per me, ma ritenendomi, per fortuna, non l’unica persona a vederla così.

Fini di lucro? Io non ho nemmeno recuperato le spese che sono state necessarie per farli nascere e crescere, non parliamo delle spese relative ai controlli sanitari della madre (nel mio caso displasia dell’anca, displasia del gomito, PRA e NCL), né di quelle per portarla avanti a caccia, in esposizione e in prove di lavoro in Italia e all’estero. Sì perché il cane va preparato, serve tempo, serve selvaggina, servono i terreni. Anche per le esposizioni, sebbene per me non siano mai state prioritarie, servono un minimo di preparazione, di toelettatura, di carburante…

Ma limitiamoci a parlare dei cuccioli. I cuccioli B sono figli della mia Briony del Cavaldrossa (Ch. Italiano di Bellezza, qualifiche in prova e vincitrice di una prova su starne a Sandrigham, terreno di proprietà di Sua Maestà, la Regina Elisabetta II d’Inghilterra). Il padre è Gregor di Val di Chiana, Ch.Italiano Lavoro, Ch. Internazionale Lavoro, Ch. Europeo su Selvaggina di Montagna, pluri CAC in raduno.  Perché ho scelto Gregor lo potete scoprire leggendo qui ma, in buona sostanza, non è stata una scelta fatta a cuor leggero, o avrei preso il primo setter disponibile dietro casa. L’intento era quello di portare avanti la linea della mia cagna mettendo alla luce cuccioli sani, tipici, equilibrati e con ottime attitudini venatorie. L’Italia sarà pure la patria del setter inglese, ma trovare in un cane tutte queste caratteristiche insieme non è scontato: in coscienza ho cercato di far sì che accadesse. Chi non vorrebbe avere accanto un cane simile? Un cane collegato, che sa dove sei e non si perde, un cane equilibrato, bello da guardare, nonché un piacevole compagno di vita?

Con questo scopo sono venuti al mondo 8 fagottini, purtroppo 2 femmine (richiestissime tanto da avere una lista d’attesa) non ce l’hanno fatta e, a causa di un cucciolo morto durante il parto, i fagottini sono rimasti in 6, 3 maschi e 3 femmine che mi sono impegnata ad allevare nel migliore dei modi. I cuccioli sono nati e cresciuti IN casa, a contatto con le persone, i suoni, i rumori e tutto il resto. Prima ancora di avere un nome vero e proprio, hanno avuto un soprannome (il bianco, il nero, il maialino, la mucca, la snoopina, la piccolina, la fatina, la fochina…) e hanno immediatamente avuto un’identità e un’individualità. Non erano “i cuccioli”, erano Breandan, Branwyn, Drystan, Brianna, Tinkie e Tigerlily, ognuno era un’ anima ingenua che mi stavo impegnando a crescere al meglio. La cassa parto ha da quasi subito avuto un angolo pipì e, non appena sono stati in grado, compatibilmente con i rigori dell’inverno, sono stati fatti uscire OGNI 2 ORE (tranne la notte), affinché capissero che si sporca fuori e non in casa, dove si vive. Avete idea di cosa vuol dire seguire 6 cuccioli da soli in maniera così maniacale? E per giunta in pieno inverno? Significa fermare la propria vita per mesi, una scelta, per carità, ma estenuante.

Ogni giorno ai cuccioli venivano presentati stimoli nuovi e veniva loro insegnato qualcosa. Hanno imparato a conoscere la casa, il giardino, i rumori e hanno cominciato, compatibilmente con i rigori invernali, ad andare in macchina con la mamma, in modo che la macchina e il trasportino fossero esperienze piacevoli.  Queste sono alcune delle attività che abbiamo fatto insieme mentre, man mano, si affacciava il problema di trovare le giuste famiglie per loro. Una lista d’attesa lunga per le femmine (con Tinkie… Tinkina… Tinketta… Tinkiebella… che nel frattempo si è ammalata ed è finita fuori dai giochi, in attesa che si potesse capire se avesse, o meno, buone possibilità di guarire) e qualche problema in più per i maschi, sesso che negli ultimi anni sembra essere passato di moda tra i cacciatori.

Sì perché… considerato il tipo di selezione che ho portato avanti, volevo che a questi cani fosse data la possibilità di scendere in campo e lavorare. Subito mi sono scontrata con i così detti cacciatori “vecchia scuola” per i quali il cane deve stare fuori. Negli anni, onestamente, non ho ma capito quanto queste persone vogliano bene a cane, e quanto lo considerino uno strumento. Non ho nemmeno mai capito perché… Chi possiede setter inglesi, ne possiede in quantità irrazionali: chi ha cani da ferma continentali ne ha mediamente 1 o 2, chi possiede cani da ferma inglesi, per motivi che ancora mi sfuggono, ha quasi sempre un parco cani che va da 4 in su. Ma di questo parleremo in un’altra occasione.

Tornando ai cuccioli, avevo tante richieste (anche per i
maschi) di famiglie che desideravano un cane da compagnia, ma che avevano
capito che i miei cuccioli erano il risultato di una buona selezione (se pensiamo
alle caratteristiche di mamma e papà) e che venivano cresciuti con tantissima
cura, in modo tale che crescessero felici ed equilibrati. I cacciatori, anche quelli
che venivano in visita, in parte capivano il lavoro che stavo facendo, in parte
no: secondo loro la felicità, l’atteggiamento positivo e propositivo dei
cuccioli erano una sorta di dono divino. Insomma, se li avessi cresciuti in una
topaia in fondo all’orto, alimentandoli con croste di formaggio ammuffite,
sarebbe stato uguale.

Disarmante, sconvolgente, amareggiante, ma non sufficiente per farmi cambiare strada. Del resto studio i cani da quando ho 8 anni, sono un medico veterinario e mi sono laureata con una tesi di laurea sul benessere del cane da caccia, forse il mio modo di agire era fondato. E i miei cuccioli erano felici, ed erano felici di andare nelle nuove case dove si ambientavano immediatamente. Partivano uno alla volta, compatibilmente con le esigenze del proprietario, ma se ne sono andati tutti con calma, dopo i 75 giorni, per evitare che i traslochi cascassero proprio nel “periodo della paura”.  Ciascuno di loro ha seguito un protocollo vaccinale mirato e leggero, non è stato nemmeno necessario sverminarli perché, avendo sverminato la madre, sono risultati negativi ad ogni esame.

Loro erano felici, ma io ero esausta e lasciavo andare ciascuno di loro (tenendomi aggrappata alla piccola Tinkie che necessitava di cure e riabilitazione) ad intraprendere una vita migliore. Perché ciascuno di loro avrebbe avuto, nella mia testa, una vita migliore con un umano tutto per sé e non una Rossella da dividersi in sette. Ho cercato anche di dare a ciascuno di loro la famiglia migliore in relazione alle esigenze e al carattere, pensate un po’ che proprio per garantire il meglio a ciascuno di loro, ho cercato in tutti i modi di tenermi la canina più “sfigata” (e più adorabile) perché non ero sicura che nessuno l’avrebbe apprezzata a dovere… Ho disdetto la prenotazione di chi la voleva perché non me la sono sentita di mandarla lontano, ed è rimasta qui finché non è comparsa una sistemazione migliore di quella che potevo darle io… Alla fine sono rimasta con Tigerlily, la scelta razionale, anche se il cuore, che mi avrebbe fatto scegliere altro l’aveva messa in fondo alla mia lista di preferenze.

Ora, ogni tanto la guardo, Tigerlily, il mio cane “non preferito”, quella che si si è mangiata 8 telecomandi, che ha tranciato il filo del telefono e che è stata vista correre nella notte con una lampada solare in bocca. E penso che è felice: ha due cuscini tutti per sé, una casa, un giardino, va a scuola per diventare un buon cane da caccia (e impara)… Ha gli ossini, ha lo zoccolo di mukka e il corno di cervo, ha il Kong con la ricotta surgelata prima di andare a nanna, e niente, credi che anche gli altri tuoi ex cuccioli se la passino più o meno così. Magari qualcuno ha una vita più spartana, ma credi che sia apprezzato e felice.

Se non che poi ti ritrovi, a mesi di distanza dall’ ultimo cucciolo affidato, con il così detto cerino in mano. Quando sei sicura di aver fatto tutto per bene, salta fuori che per uno dei tuoi amati cuccioli l’abbinamento non è andato a buon fine. Vuoi perché il proprietario non ha tempo, vuoi perché le esigenze del cane non combaciano con quelle del proprietario… Vuoi perché forse una persona voleva quel cane e poi si accorge di non volerlo più…. Vuoi perché boh…. Succede che uno dei tuoi cuccioli preferiti, quello/a in cui credevi tanto, e credi ancora tantissimo (soprattutto dal punto di vista delle attitudini) è rimasto a piedi, e bisogna ripartire da zero, rimboccarsi le maniche e trovare una casa che, a questo punto, sia più che ideale.

Perché non sono “i cuccioli”, sono Breandan (Ulisse), Branwyn (Attilio), Drystan (Dryssino), Brianna, Tinkerbell (Tinkie) e Tigerlily (Lily/Foky).




Grain free è meglio?

di Rossella Di Palma (DMV) Scuola Specializzazione in Sanità Animale, Allevamento e Produzioni Zootecniche

e Maria Mayer (DMV, Ph.D.)


Scegliere un alimento commerciale Grain free è davvero la scelta migliore per il nostro cane e gattoarticolo a 4 mani, mio e della collega Dr.Maria Mayer (qui trovate il suo blog, dove l’articolo è stato originariamente pubblicato qualche mese fa).

L’arrivo dei primi Grain Free

Circa 10 anni fa, sono comparsi in Italia i primi mangimi grain free. All’epoca questi mangimi avevano stupito tutti non tanto per l’assenza di cereali, quanto per l’elevata percentuale proteica.  Percentuali di proteine che superavano il 40% non si erano mai viste sul mercato: i mangimi per cuccioli, cagne in lattazione e cani sportivi sfioravano a malapena il 30%.

Le perplessità dei consumatori, insieme a quelle dei veterinari, erano rivolte alle percentuali di proteine. Faranno male tutte queste proteine? Saranno salubri per un cucciolo in crescita? Danneggeranno i reni (falsa credenza)? In pochi si fermavano a ragionare sul concetto di valore biologico delle proteine, e ancora in meno facevano caso all’assenza dei cereali. Del resto, le crocchette grain free erano nate come risposta commerciale a quello che era ritenuto un eccesso di cereali nella formulazione di diete per carnivori, quali di fatto sono cani e gatti. Mentre alcune aziende mangimistiche aggiornavano le loro formule classiche diminuendo la quota di cereali a favore delle carni, dall’America arrivava la prorompente novità: mangimi a base di carne e con zero contenuti di cereali.

È probabile che le formule grain free siano nate, come risposta dell’industria mangimistica ad una richiesta di maggiore “naturalità”, la stessa filosofia che porta molte persone ad avvicinarsi ad una dieta BARF  che vede il cane (quasi) come un lupo e che si auspica che il cane, al pari del suo antenato, segua una dieta a base di carne.

In effetti, sin dall’inizio le formule grain free sono state propagandate come “più naturali”, e più vicine a un’ipotetica dieta ancestrale. Lo stesso packaging fa spesso riferimento al lupo e si basa su illustrazioni che rimandano a foreste e vita selvaggia.

Stesso dicasi per il gatto, carnivoro stretto, le cui confezioni richiamano libertà e ampi spazi nella natura.  Affascinati da miti e illustrazioni, tuttavia, molti proprietari hanno finito con il confondere una crocchetta “priva di cereali” con una  “priva di carboidrati”. I carboidrati nelle crocchette grain free c’erano eccome: non arrivavano da frumento, orzo, mais e riso, ma arrivavano da patate, patate dolci e tapioca. 

Qui crolla il primo mito: se per il cane non è naturale nutrirsi del tanto demonizzato mais… avete mai visto un lupo nutrirsi di patate, o tapioca? Se leggete le etichette dei primi grain free commercializzati noterete, appunto, che il posto lasciato dai cereali è stato preso da questi tuberi, che non sono necessariamente migliori dei cereali, né tanto meno più vicini ad una ipotetica dieta ancestrale.

Cosa e perché ha trasformato i cereali in nemici da combattere? Sicuramente anche per gli esseri umani, soprattutto in alcuni paesi, si è spesso confusa la paura per fenomeni di ipersensibilità scatenati dal glutine (proteina presente in molti cereali), con diete paleo varie, tendendo a fare “di tutta l’erba un fascio” e riportando le medesime considerazioni anche sul nostro migliore amico.

I fenomeni di leaky gut (intestino gocciolante), gluten sensitivity e altri fenomeni infiammatori intestinali siano evidentemente un problema grave degli ultimi decenni, sia per l’essere umano che per gli animali domestici.  Anche se ancora non sono chiari tutti i meccanismi incriminati, è assolutamente plausibile che il glutine, così come altre proteine, sia un colpevole o forse solo capro espiatorio della situazione, spettatore del crimine e non attore del danno intestinale, di cui i primi accusati sono con tutta probabilità agenti tossici (metalli pesanti, residui di fitofarmaci, agenti tecnologici come conservanti e coloranti, interferenti endocrini) presenti in OGNI alimento industriale, che sia con o senza cerali, secco o umido, che causerebbero disbiosi, o alterazioni dirette all’integrità della mucosa intestinale.  

Il marketing delle aziende che producono Grain Free

Facendo ricorso a eccellenti strategie di marketing, le case produttrici sono riuscite a convincere i consumatori non solo che grain free è meglio, ma anche che le ditte mangimistiche che offrono questi prodotti hanno più a cuore la salute degli animali. Vero o falso? A voi deciderlo, ma tenete a mente che qualsiasi azienda ha come scopo principale massimizzare il profitto. Neanche le aziende che producono grain free, puntando molta parte del marketing sulla qualità delle materie prime e la “naturalità” della formula, si salvano: una delle aziende leader in questo campo è attualmente protagonista di una class action legata alla presenza di alti livelli di contaminanti (mercurio, cadmio) nei loro prodotti. Nessuna azienda dovrebbe mai essere considerata “dalla nostra parte”: le strategie di marketing sono specchietti per allodole. Alcune ditte possono avere una maggiore spinta etica di altre, senza dubbio, ma rimangono pur sempre produttori di alimenti industriali, che in quanto tali sono più soggetti a contaminanti rispetto ad alimenti freschi e che a cercano di vendere al consumatore “il sogno”, oltre al prodotto.

L’arrivo della seconda generazione di Grain Free

Le leggi del mercato, tuttavia, fanno sì che la domanda condizioni l’offerta: se il cliente vuole crocchette grain free ed è disposto a pagare di più per questi alimenti, poiché li ritiene migliori… perché non accontentarlo? Così, accortesi dei buoni risultati di vendita ottenuti dai primi mangimi grain free, sempre più aziende si sono messe a produrre prodotti di quel tipo.

Contemporaneamente ci si è accorti che, inserendo nelle formule elevati quantitativi di carne si abbassavano i ricavi. La fascia di consumatori che comprava (e compra) grain free è infatti formata da individui mediamente attenti, che – come mai era successo fino a quel momento nell’industria del petfood – avevano l’abitudine di girare il sacco e leggere l’etichetta dell’alimento, soffermandosi spesso su due aspetti (i più conosciuti): 1.il primo ingrediente della lista è quello maggiormente rappresentato nella formulazione della crocchetta 2. la percentuale proteica deve essere alta.

Le ditte hanno cominciato quindi a soddisfare il primo di questi due punti ingannando l’occhio del consumatore con alcuni trucchi (fra i quali ad esempio inserire “carne fresca” al posto di “farine di carne”, in modo che la % di acqua presente nell’alimento fresco lo facesse indebitamente slittare al primo posto nella lista ingredienti). Ma per il secondo punto? Dove prendere proteine a basso costo? È semplice: dai legumi.

Tonno e legumi....

Ed è così che nasce quella che potremmo chiamare la seconda generazione dei mangimi grain free: sacchetti che restano uguali, ma formule che cambiano. Meno carni, ma più legumi (piselli, lenticchie, ceci, soia, eccetera). Uno studio canadese sull’utilizzo dei legumi (Agriculture and Agri-Food Canada, 2017) rileva un’impennata nell’utilizzo di questi ingredienti nei mangimi per animali a partire dal 2012.

I legumi sono usati con grande entusiasmo: sono al tempo stesso fonte di proteine (necessarie per aggirare l’occhio del consumatore esperto) e di amidi (necessari per il processo di estrusione, vale a dire per la preparazione dell’alimento secco), per questo moltissimi mangimi grain free ne contengono percentuali imbarazzanti. Imbarazzanti perché questi prodotti si presentano al consumatore come a misura di cane, o meglio, come a misura di carnivoro. È davvero arduo capire cosa renda piselli, ceci e lenticchie più adatti al cane o a un gatto di quanto non lo siano i cereali.  

Resta inoltre il nodo del valore biologico. Una proteina di origine animale, proveniente dalla carne, dal pesce o dalle uova, è molto più semplice da processare rispetto ad una proteina di origine vegetale. È lecito domandarsi, visto che di carnivori “adattati” si parla se percentuali proteiche elevate, ma derivanti in buona parte da proteine di origine vegetale (basso valore biologico), siano salubri. Inoltre, seppur fonti di amidi, i legumi sono principalmente formati da amilosio, una forma di amido meno facilmente digeribile (anche per noi esseri umani), rispetto all’amilopectina di cui sono invece ricchi i cerali (qui spiego meglio la differenza fra amilosio e amilopectina).

Per questo spesso i cani e i gatti alimentati con mangimi grain free hanno feci poco formate, presentano meteorismo e diarrea. Ultimo, ma non ultimo, i legumi, come molti alimenti di origine vegetale, ma in proporzioni più elevate rispetto alla maggior parte di essi, sono composti anche di fattori antinutrizionali, vale a dire che impediscono il corretto assorbimento e/o utilizzo da parte del cane e del gatto dei nutrienti presenti nella dieta.

Dal lupo… al cane: cosa cambia nella digestione degli amidi?

Per quel che riguarda il cane inoltre, nella  nascita di questa specie dal lupo, non possiamo inoltre dimenticare la fondamentale tappa intermedia del “cane da villaggio” (Coppinger & Coppinger, 2001; Hare e Woods, 2013), creatura assai più simile alla maggior parte dei cani moderni di quanto non lo siano i lupi canadesi. Durante i millenni di domesticazione, questi cani sono stati sostanzialmente spazzini che si nutrivano dei rifiuti del villaggio. Sappiamo da recenti evidenze scientifiche (Beuchat, 2018) che l’organismo del cane si è adattato a digerire gli amidi dei cereali.

Possiamo dire lo stesso dei legumi? Formati da amidi più complessi da digerire rispetto ai cereali, oltre che ricchi di fibre e fattori antinutrizionali che possono interferire negativamente con la salute del nostro cane o gatto, sono davvero la scelta migliore per loro? 

Vi lasciamo con questa riflessione e.. qualche esempio di etichette grain free!

Dr. Rossella Di Palma, DVM – http://dogsandcountry.it/

Dr.Maria Mayer, DVM, PhD – https://www.mariamayer.it/


ETICHETTE GATTI:

Ingredienti:
Pollo fresco disossato, pollo disidratato, fegato di pollo fresco, aringa intera fresca, tacchino disossato fresco, tacchino disidratato, fegato di tacchino fresco, uova intere fresche, lucioperca senza lisca fresco, salmone intero fresco, cuore di pollo fresco, cartilagine di pollo, aringa disidratata, salmone disidratato, olio di fegato di pollo, grasso di pollo, lenticchie rosse, piselli, lenticchie verdi, erba medica, ignami, fibra di pisello, ceci, zucca, zucca popone, foglie di spinaci, carote, mele Red Delicious, pere Bartlett, mirtilli di palude, mirtilli giganti, alga kelp, radice di liquirizia, radice di angelica, fieno greco, fiori di calendula, finocchio, foglia di menta piperita, camomilla, dente di leone, santoreggia, rosmarino.

ETICHTTE CANI:

carne disidratata di agnello 27%, pisello, patata, polpa di barbabietola, olio di lino, olio di salmone, sostanze minerali, alghe disidratate (Ascophyllum nodosum) 0.5%, lievito disidratato (Bio MOS) 0.15%, glucosamina 0.06%, FOS, semi di piantaggine (Plantago psyllium) 0.05%, condroitin solfato (da cartilagine di squalo) 0.04%, Rosa canina 0.03%, Yucca schidigera.

Carne di pollo essiccata (25%), avena macinata grossa (23%), carne di pollo fresca (5%) interiora di pollo fresche (fegato, cuore, reni) (5%), lenticchie rosse, lenticchie verdi intere, lenticchie verdi, carne fresca di tacchino (4%), uova fresche intere (4%), grasso di pollo (4%), fagioli Garbanzo interi, piselli gialli interi, avena intera, olio di aringa (3%), alfalfa maturata al sole, fibre di lenticchie, alga Seetang marrone, zucca fresca, pastinaca fresca, cavolo fresco, spinaci freschi, carote fresche, mele “Red Delicious” fresche, pere “Bartlett” fresche, fegato di pollo liofilizzato (0,1%), sale, Cranberry freschi, mirtilli freschi, radici di cicoria, curcuma, cardo mariano, radici di bardana grandi, lavanda, radici di ibisco, rosa canina.

Pollo disidratato, avena, pollo fresco disossato, patate intere, piselli, fibra di pisello, erba medica, fegato di pollo, uova intere, halibut fresco senza lisca, grasso di pollo, olio di aringa, mele intere, pere intere, patate dolci, zucca, zucca popone, pastinaca, carote, spinaci, mirtilli di palude, mirtilli giganti, alga kelp, radice di cicoria, bacche di ginepro, radice di angelica, fiori di calendula, finocchio, foglia di menta piperita, lavanda.

Salmone disidratato (25%), carne di tacchino disidratata (20%), piselli gialli (20%), grasso di pollo (conservato con tocoferoli, 10%), anatra disidratata (5%), salmone senza spine (5%), fegato di pollo (3%), mele (3%), amido di tapioca (3%), olio di salmone (2%), carote (1%), semi di lino (1%), ceci (1%), gusci di crostacei idrolizzati (fonte di glucosamina 0,05%), estratto di cartilagine (fonte di condroitina, 0,03%), lievito di birra (fonte di mannanoligosaccaridi, 0,015%), radice di cicoria (fonte di fruttoligosaccaridi, 0,01%), yucca schidigera (0,01%), alghe (0,01%), psillio (0,01%), timo (0,01%), rosmarino (0,01%), origano (0,01%), mirtilli palustri (0,0008%), mirtilli (0,0008%), lamponi (0,0008%).

Coniglio disidratato (31%), piselli (30%), maiale disidratato (15%), grasso di pollo (conservato con tocoferoli), anatra disidratata (5%), polpa di barbabietola essiccata (2%), olio di pesce (2%), fegato di pollo, lievito di birra, carote (0,5%), semi di lino (0,5%), pomodori (0,5%), gusci di crostacei idrolizzati (fonte di glucosamina, 250 mg/kg), estratto di cartilagine (fonte di condroitina, 250 mg/kg), mannano oligosaccaridi (150 mg/kg), estratti vegetali (rosmarino, timo, curcuma, agrumi, 150 mg/kg), frutto oligosaccaridi (100 mg/kg).


Bibliografia:

Agriculture and Agri-Food Canada (2017). New Products containing pulse ingredients in North America, Market access secretariat report. Global analysis report. Commodity innovation series, June. http://www.agr.gc.ca/resources/prod/Internet-Internet/MISB-DGSIM/ATS-SEA/PDF/6904-eng.pdf?fbclid=IwAR3FgE56_YbSeMtToAKeNbxgod05OL0Qd6SjrzEdnB_e4p3lJHMPpnENfmU

Beuchat C. (2018). A key genetic innovation in dogs: diet, The Institute of Canine Biology, https://www.instituteofcaninebiology.org/blog/a-key-genetic-innovation-in-dogs-diet (Accesso 06/04/2019)

Coppinger R. e Coppinger L. (2001). Dogs. A startling new understanding of canine origin, behaviour & evolution, Scribner, New York, USA.

Hare B. e Woods V. (2013). The genius of dogs: how dogs are smarter than you think, Plume, USA.




L’alimentazione del cane da caccia: il ruolo delle proteine

di Rossella Di Palma (DMV)

Una delle “manie” dei proprietari, specie se di cani sportivi, è scegliere un mangime in base alla percentuale di proteine in esso contenute. In realtà, scegliere un mangime basandosi su questo parametro è un mezzo pasticcio: le proteine non sono tutte uguali! Quando si parla di proteine è infatti fondamentale tenere a mente il concetto di “valore biologico“. Il valore biologico, come potrete meglio capire cliccando il link, indica la qualità della proteina in questione o, se preferite, la facilità di utilizzo da parte dell’organismo. Se pensiamo ai cani, che sono dei carnivori adattati anche a mangiare cereali e prodotti di origine vegetale, le proteine di più facile utilizzo sono le proteine di origine animale. Il valore biologico di una proteina dipende dalla sua composizione in amminoacidi (i costituenti delle proteine). Una proteina è utilizzata meglio tanto più la sua composizione amminoacidica si avvicina a quella della proteina da sintetizzare da parte dell’organismo animale. Le proteine animali hanno una composizione di amminoacidi molto più vicina a quella del corpo animale di quanto non abbiano le proteine vegetali.

L’uovo è l’alimento le cui proteine hanno il maggior valore biologico, seguito da carni e pesci che hanno ciascuno valori biologici variabili, legati alla specie di provenienza. Proteine di origine vegetale, invece, come quelle contenute nei legumi e nei cereali, hanno un valore biologico più basso. Questo significa che l’organismo farà più fatica a processarle e ne trarrà minor vantaggio. A questo punto credo sia chiaro che accanto ad una valutazione quantitativa delle proteine (% contenuta nel mangime), vada associata una valutazione qualitativa delle stesse (ingredienti da cui arrivano queste proteine e i loro valore biologico). Fare questa operazione comparativa non è sempre semplice, né immediato: se da una parte le aziende mangimistiche sono molto brave presentare le loro etichette al meglio, dall’altra parte c’è anche la tendenza, da parte di molti cacciatori, di scegliere i mangimi in base al prezzo. I mangimi di fascia bassa, dato il costo delle materie prime di origine animale, raramente contengono grosse quantità di proteine ad alto valore biologico, d’altra parte i mangimi con grosse quote di prodotti di origine animale non sono generalmente economici.

Occorre diventare consumatori critici! Altrimenti si corre il rischio di mettere nella ciotola del nostro cane ATLETA, prodotti che non soltanto si rivelano di scarsa utilità, ma possono addirittura ostacolare il raggiungimento di buone prestazioni. In generale, nel cane, le proteine introdotte con la dieta servono a soddisfare le esigenze strutturali e biochimiche, e solo in minor misura quelle energetiche. Se parliamo di cani atleti, l’attività fisica accresce il fabbisogno di proteine, ma non è stato stabilito in maniera precisa di quanto lo modifichi. La necessità di una maggior quota proteica diventa particolarmente pronunciata quando l’intensità o la durata dell’esercizio fisico vengono aumentate rapidamente e oltrepassano lo stato di allenamento dell’animale. Questo si verifica per esempio all’inizio di un programma di allenamento, quando il programma di allenamento viene modificato, o durante alcune competizioni.

In un cane da lavoro, mediamente gli aminoacidi forniscono tra il 5% e il 15% dell’energia utilizzata durante il lavoro. La quota di proteine utilizzata per fornire energia può aumentare nei cani sottoalimentati e negli atleti di resistenza, che possono facilmente esaurire le riserve endogene di carboidrati; in questo caso, l’organismo utilizza la gluconeogenesi, a partire dagli aminoacidi, per mantenere stabili i livelli di glucosio ematico. Poiché l’organismo non possiede depositi di proteine, gli aminoacidi necessari vengono mobilizzati dai muscoli e questo, alla lunga, provoca un calo della prestazione atletica. La quota di proteine presente nei cibi per cani atleti (fermo restando anche il concetto di valore biologico) deve essere sufficiente a coprire le necessità anaboliche dell’organismo, ma non deve prevaricare le percentuali di grassi e carboidrati inducendo l’organismo a utilizzare gli aminoacidi a fini energetici.

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Bibliografia:

Toll P.W., Reynolds A.J. (2000). The canine athlete. In: Hand M.S., Thatcher C.D., Remillard R. Roudebush P. (Eds.) Small animals clinical nutrition. 4th Ed., Mark Morris Institute, 261-289, Topeka, USA.

Toll P.W., Gilette R.L., Hand M. S. (2010). Feeding working and sporting dogs. In: Hand M.S., Thatcher C.D., Remillard R. Roudebush P. (Eds.) Small animals clinical nutrition. 5th Ed., Mark Morris Institute, 321-358, Topeka, USA.

Young D.R., Price R., Elder N.E., Adachi R.R. (1962). Energy and electrolyte metabolism and adrenal reponses during work in dogs. J. Appl. Physiol., 17: 669-674.

Zackin M.J. (1990). Protein requirements for athletes. Sports Med., 12: 1-3.




In Val d’Aosta in cerca di galli

Cosa non si fa per i cani. Chi mi conosce sa che non sono
esattamente una persona mattiniera. O meglio, non è che mi alzi particolarmente
tardi (ma nemmeno particolarmente presto), più che altro alla mattina ho la
reattività di una tartaruga assonnata: difficilmente riesco a materializzarmi da
qualche parte in orari antelucane.

Come tutte le regole, tuttavia, anche questa ha la sua eccezione: basta usare la giusta esca cinovenatoria e potrei anche arrivare alla meta quando il sole non è ancora alto. Lo scorso agosto è successo proprio così e in ben DUE occasioni sono stata avvistata dalle parti della Val d’Ayas in primissima mattinata.

Cosa mi ha spinto velocemente fin lassù? La possibilità di “muovere”
i can in montagna, rendendomi utile attraverso la partecipazione ai censimenti
della tipica alpina. Apprezzo da sempre la selezione cinofila fatta attraverso
la caccia e le prove di lavoro in montagna. Quando non sono più riuscita a
trovare un setter della “mia” genealogia, ho cercato il mio cane tra quelli da
montagna e sono andata a prendere la mia cucciola nei Grigioni, dove viveva in
una fattoria molto simile a quella del nonno di Heidi. Quando ho deciso di fare
una cucciolata, ho scelto un maschio che si era distinto per prestazioni in
montagna. Perché? Visto che vivo in pianura?

Perché ho sempre pensato che il cane selezionato per la montagna dovesse possedere doti come il fondo, il collegamento naturale e una sufficiente dose di intelligenza per non distruggersi, tra burroni e sassaie. Andando con cautela, tuttavia, ho ritenuto provare la mia cagna (di selezione da montagna) sui galli forcelli (che gli inglesi chiamano black grouse), anziché iniziare subito da “cose” tipo le bianche o le coturnici. Briony è un cane versatile, nonché resa estremamente gestibile ed affidabile tramite il ferreo addestramento necessario per partecipare alle prove di lavoro in Gran Bretagna. Così, quando mi è stato proposto di andare a censire ho accettato con entusiasmo e serenità, sebbene non sapessi di preciso cosa aspettarmi.

Ci sarebbe stata molta gente? Ci sarebbero stati molti cani?
Sarei stata capace di vagare tra le cime? Intendiamoci, mi sono fatta le gambe in
Appennino e ho anche un discreto senso dell’equilibrio che mi permette di non
cadere al primo intoppo ma… i dubbi restavano.

Come sapete, in Inghilterra partecipo ai censimenti alle grouse ma, fino allo scorso agosto, i miei unici censimenti italiani erano stati quelli ad ungulati. Censimenti a dire il vero piuttosto formali con ritrovo, assegnazione punto di osservazione, post ritrovo, consegna schede, a volte cena collettiva… quindi all’ incirca mi aspettavo la stessa rigidità.

Invece no… a censire eravamo soltanto in tre, accompagnati
da un agente del corpo forestale. Chi erano i tre? Io, un cacciatore locale
(non so se voglia pubblicità ma si chiama Albino Viquery) e un amico, più
marino che montano. E la squadra dei cani? Dunque, i censitori ufficiali erano
Briony (Ch.It. Briony del Cavaldrossa) e le setterine valdostane, non a caso
anche loro pezzate rosse, di Albino. Come censitore ufficioso c’era anche
Breandan (Redbriony Breandan da Ch.It. Briony del Cavaldrossa x It.Int.Eu.Ft
Ch. Gregor di Val di Chiana) di soli 8 mesi, ma da sempre “precoce”. Poi,
siccome non potevo lasciarla a casa, mi sono portata anche la sorella di
Breandan (Blue Tigerlily…. Detta anche Foky, o la “foca”, soprannome
guadagnatasi a causa di un’infanzia un po’ impacciata). Il piano era di tenere
la fochina al guinzaglio, di lasciar fare Briony e di valutare se Breandan era
in grado di muoversi in sicurezza e senza disturbare.

La zona era difficile, una pineta ripida sul cui terreno crescevano fitti i rododendri, talmente fitti da nascondere massi e crepe nel terreno: un versante noto per le valanghe, immaginatevi cosa viene trascinato giù e quanto possa essere sconnesso il terreno. Eppure, il “piccolo” ci ha fregato tutti e dal basso dei suoi otto mesi di età ha fermato lui il primo gallo! Con la fochina, al guinzaglio in consenso…. A parte il rimanere dispiaciuti per la mamma che si è fatta soffiare il gallo dal figlio, cosa chiedere di più?

E fu così che lasciammo libera di andare anche Tigerlily, del resto era impossibile gestirla legata tra rocce, pini e rododendri. Il risultato? Tanto, piacevole stupore, madre e cuccioloni che cercavano in maniera attiva e indipendente, rimanendo collegati a noi e…. senza strafare. Cercavano e correvano sì, ma stando attenti a dove mettevano le zampe. Questa cosa mi è piaciuta più di tutte. A d un certo punto siamo dovuti scendere lungo un canalone intasato di rocce di mille dimensioni, con salti e crepe tra una roccia e l’altra. Tutto nuovo per me, ma soprattutto per loro. Eppure se la sono cavata egregiamente scegliendo sempre bene come saltare da un masso all’altro fino ad arrivare a fondovalle perfettamente integri. Le mie convinzioni sugli antenati montanari dei miei cani sono tutte state confermate. La felicità, per un cinofilo/micro allevatore è anche questo!

Soddisfazione è aver dato anche un modestissimo contributo alla gestione della fauna autoctona: certo, non ho visto la quantità di selvatici che conto normalmente a grouse, ma ho avuto modo di verificare i miei cani in condizioni che ritengo decisamente probanti e ho avuto il privilegio di poterli sganciare su terreni e selvatici ai quali normalmente solo i cacciatori di tipica alpina hanno accesso, non posso che essere grata di tutto ciò.

Siccome ogni sessione di addestramento (ma anche di lavoro cinofilo), va chiusa sempre in positivo, la giornata è continuata con un pranzo a base di salumi e formaggi tipici e con un salto al caseificio della zona per fare scorta dei suddetti.

E…. una decina di giorni dopo, di primissima mattina, ero di nuovo su, a 7° C quando in pianura il termometro ne segnava già 25° C, pronta a veder confermate, o smentite, le prime impressioni su cani, selvatici e persone che si sono prese la briga di “sopportarmi”. A proposito, non voglio che sopportiate un secondo resoconto, quindi lascerò che sia la photogallery qui sotto a parlare.

PS. Per chi fosse interessato a saperne di più sui censimenti alla tipica alpina, uscirà un articolo su Sentieri di Caccia di Novembre.