Quattro passi dentro casa: La luce dei censimenti

A salvarvi, ma solo temporaneamente, dalla descrizione della
libreria a sud, è l’orario insolito ho iniziato a scrivere. L’orologio del pc
dice 06.52 PM, non si sta male, si sta benissimo, specie in questa stagione.
Anni fa avevo ottenuto una vignetta di me stessa tramite non so più quale
programma. Era una faccina bianca-bianca, con gli occhi gialli e i capelli
rossi. Mi è tornata in mente perché tanti sembrano terribilmente preoccupati di
non poter andare in spiaggia la prossima estate: è malvagio dire che il
“problema” mi lascia indifferente? Non me ne vogliano albergatori, bagnini, piadinari
e venditori di cocco bello, comprendo il loro dramma ma… La mia ultima spiaggia
estiva, se non ricordo male, l’ho vista nel 1996 e continuo a non sentirne la
mancanza. Caldo, sabbia, sole, gente, immobilità, rumore: mi stupisco che
possano piacere.

Se c’è il sole, non ci sono io: a partire dalla primavera,
fino all’autunno, scelgo il lato del marciapiede in base a dove cade
l’ombra.  Se i vampiri fossero reali,
probabilmente sarei dei loro. Anemica da tempi immemori; pallida che neanche una
carta igienica primo prezzo, completano il look gli occhi giallo-verde-gatto a
seconda dell’umore. Dal punto di vista fisiologico, segnalo l’assoluta incapacità
di funzionare di prima mattina e il timore del solleone, ma anche quello del
sol leoncino: ecco a voi il ritratto di un animale notturno.

Quando il sole inizia a farsi un po’ umile e zio Apollo
lascia il passo a zia Artemide, ve la ricordate Pollon, no?  Ecco, in quel momento, che è il tardo
pomeriggio, io rinasco: quando il mondo inizia a smettere di lavorare, io
ingrano la quarta. Non amo il telefono, lo sapete già, e lo detesto anche di
più perché ha il vizio di squillare in questi orari. Gli altri smettono di sbattere
le ali e vogliono chiacchierare, io ho appena spiccato il volo e non voglio
interruzioni. Negli anni, ho preso l’abitudine di salvaguardare questo orario
per fare le cose più speciali, o più difficili: scrivere quella cosa che non
riesco a scrivere, studiare quella cosa incomprensibile, finire quel progetto.

C’era una sola, solida, eccezione alla regola: il pilates
del giovedì sera alle 6.00 PM, un’eccezione che dura da dieci anni. Si chiama
“lezione di pilates advanced”, detta anche “acro” dagli affezionati.
Sala 3, posto… lo stesso da dieci anni, nell’angolo a sinistra, con
l’insegnante a destra, tappetino privato, grigio asfalto. Livia, in questa
lezione, mette alla prova la sua creatività con un gregge di fedelissime che le
chiedono di portare il pilates, oltre il pilates. È la mia unica eccezione alla
regola dell’imbrunire: tutte le altre lezioni sono state messe a dimora in
pausa pranzo, alla mattina, o quando è già diventato buio. La lezione del
giovedì sera è speciale per tanti: va prenotata con 15 giorni di anticipo, alle
7.00 AM o, o perdi il posto. Con il Covid 19, che qui ci governa da quasi due
mesi, non serve affannarsi, nessun risveglio forzato: non c’è da correre per
non rischiare di finire in lista d’attesa. La lezione del giovedì sera non c’è
più.

Se sei determinato, la ricrei a casa tua, un video, una app
e un tappetino e un sacco di stimoli che ti rubano lo spazio mentale. Ho il
tappetino grigio asfalto, il roller giallo, la fitball mai
gonfiata – che occupa spazio, il ring e i micro pesetti rosa. Il tempo?
Come potersi inventare che manca, proprio adesso che ce lo possiamo gestire? A
scarseggiare, è la capacità di chiudere, in un comparto stagno, momenti che
vanno vissuti come meditazioni in movimento. Mentre va il video ti lampeggia la
notifica, ti suona il campanello (chi caspita è, visto che non si può andare a
casa della gente?), ti abbaia il cane perché il solito gatto che si annoia passeggia
avanti e indietro.  Scuse, caprette
espiatorie di chi non sa quietare la mente.

Le 6.00 PM di tutti i giorni potrebbero diventare 6.00 PM
del giovedì, ma non ci riescono. Sono caparbie, ma traforate da pensieri che
entrano ed escono. Oggi è venerdì, il venerdì è il giorno della specialità. È
il giorno che inverno si vive fuori casa da buio-a-buio, senza poter fare
altro. Oggi è il primo venerdì, dopo due mesi, che la specialità entra in casa:
lezione online al pomeriggio, che lascia il tempo di fare ciò che si vuole dopo
le 6.00 PM, se si volesse approfittarne. Scelgo di non fare altro.

Guardo fuori, c’è quella luce dorata che sbatte sul verde chiaro. In marzo e aprile, il verde è più verde del solito, o forse è meno verde, dipende dai punti di vista. I cacciatori lo chiamano il “primo verde”, perché è quello che arriva dopo l’inverno. Si colorano i prati e prendono forma le foglie che soppiantano il grigio e il marrone. Gli animali, i cui colori sono anche stati fatti per nasconderli, si vedono bene, anche da molto lontano.  Sul “primo verde” si contano gli animali, di mattina presto, o all’imbrunire, quando la luce gioca col verde. La guardo, mentre scrivo.

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Quattro passi dentro casa: le mensole bianche

Due mensole bianche, queste le protagoniste della giornata. Provate voi a scrivere qualcosa di interessante e di intelligente su due mensole bianche. A raccontare, a colpi di foto photoshoppate, l’ultima in Papua Nuova Guinea, è capace anche una talpa. Senza offesa per le talpe, lo dicevo perché le talpe vedono poco, quindi credo fotografino anche peggio. La vacanza, il regalo, il successo sportivo, la cattura della bionda, insomma sono queste le cose più postate sui social.  Molto più facile scrivere “Il mio cane ha vinto un 1 kg di formaggio alla gara dove c’erano altri tre concorrenti”. Ogni riferimento a cose e ha persone è puramente casuale, sia mai che io intenda di penna ferire. Però, anche se adesso è parecchio di tendenza dire che non state sui social: chi è chiuso in casa, dove volete che sia? Quelli che mancano, tutt’al più sono i post auto-celebrativi, non c’è proprio nulla da celebrare. I post sulle mensole? Al di là delle difficoltà intrinseche, non è nemmeno normale sparpagliare parole sulle mensole.

Eppure la mensola è qualcosa di molto egualitario, tutti
abbiamo almeno una mensola, nella peggiore delle ipotesi la teniamo sul
pavimento del garage perché non siamo capaci di fare due fori nel muro, e di
questi tempi è meglio non fare entrare nessuno in casa. Ho detto che la mensola
è egualitar-proleataria, non che “siamo tutti sulla stessa barca”. Qualcuno
deve aver osato dirlo, in questo periodo intendo, e sono scoppiate rivolte. In
effetti c’è chi viaggia su uno yacht, chi ha la zattera di Tom Sawyer, chi sta
attaccato ad un tronco e chi ha fatto naufragio. La reclusione in spazi interni,
però, è egualitaria: mancano la libertà e la fraternità, ma tutti abbiamo un
muro da fissare. Magari abbiamo anche una finestra, e lì iniziano le
differenze: il panorama cambia e, con lui, anche la carica virale che ci
aspetta fuori.

Comunque, le mensole bianche stanno sopra alle cornici blu e
al divano dell’Avanella. Sono due mensole Ikea, non ricordo la serie, Lack
forse. Le avevo scelte bianche perché mi piacciono i mobili bianchi e perché il
bianco crea un bel contrasto con malva della parete. Ovviamente c’era la
fregatura, e io sono stata un pollo: il mobile bianco sintetico ingiallisce e,
a distanza di anni, costoro hanno assunto un colorito sinistro, tra il
giallognolo e il verdastro.  O, forse, ho
avuto la vista lunga: adesso le mensole sono quasi dello stesso colore del passepartout.
Se non sono rimaste distese sul pavimento del garage, lo devo a mio zio, un dei
pochi, in genealogia, a saper far due buchi ne muro. Gli ho chiesto di insegnarmi,
ma lui ha cambiato discorso. Eppure, le prime mani di malva le avevo date io:
dopodiché ho sempre chiamato l’imbianchino.

Sulle mensole massicciotte e io ci ho messo un sacco di
cose. Partiamo dal lato che più dà verso l’esterno: dalla libertà alla
clausura. Come prima cosa troviamo un telefono cordless. I fili che lo
collegano alle prese, quella telefonica e quella elettrica, penzolano come due
liane fino a raggiungere, all’incirca, l’altezza al garrese di un fox terrier,
lì iniziano ad ingarbugliarsi. Il cordless è bianco, ma è stato un caso,
ed economico, tanto non lo usa nessuno. Io non rispondo a telefono fisso, la
linea esiste solo per la fibra. Chi mi conosce lo sa, quindi quando suona il
fisso: A) non è per me; B) è un parente molesto; C) è una televendita e D) è un
ladro che vuole sapere se sono in casa. I casi A, B e C è meglio perderli che
trovarli, il caso D, se il ladro mi trova in casa, il problema diventa il suo.
Vi garantisco che se ne andrebbe, nella migliore delle ipotesi, solo per
sfinimento ma, a proposito di sfinimento, avete notato anche voi che con la
quarantena sono scomparse le telefonate dei call center?

Non chiamano neanche più sul cellulare, a dire il vero, non
che io d’abitudine risponda al cellulare. Sostanzialmente le telefonate non mi
piacciono. Si disturba sempre quando si chiama qualcuno, nessuno ha il coraggio
di dirvelo in faccia e riassetta la voce invece di mandarvi al diavolo: un
atteggiamento di facciata. La telefonata è invadente, la telefonata interrompe.
La telefonata è arrogante, salta persino la fila: vi è mai capitato di essere
in coda da qualche parte, sta quasi arrivando il vostro turno, avanzate con la
lentezza di un gasteropode, e a ogni persona fisica smaltita, segue una pausa
lunga tre telefonate. L’operatore non taglia corto, e voi che vi siete vestiti,
preso una secchiata d’acqua e parcheggiato in divieto siete lì in piedi a farvi
saltare davanti da un fantasma in pantofole che sta sgranocchiando un babà,
bella roba.

Accanto al telefono acchiappa polvere, abbiamo tre
contenitori porta riviste in cartone. Sono bianchi a fiori blu, quasi come il
divano dell’Avanella. Essi contengono qualche rivista di caccia sudafricana, un
atlante colorabile sull’anatomia del cane, delle fotocopie e dei libri
fotocopiati. Illegali? Nì, è tutto setterume (roba di setter) fuori stampa,
italiana e estera, non avevo altro modo per leggerli.  A seguire abbiamo il libro di Stanley Coren,
lo psicologo americano che, invece di fare lo psicologo, ha il vizio di
scrivere di cani. Questo libro, però, si chiama “Cani e Padroni”, infatti parla
anche dei padroni.  Il prossimo lotto
sono i due libri di anatomia (Nickel et al.) che erano il requisito minimo per
passare l’esame di neuroanatomia col Ferrandi. Per chi ha conosciuto il Ferrandi,
non serve aggiunga altro, chi non ha avuto il piacere, meglio così. Dopodiché
abbiamo l’isola blu: il librone di microbiologia e immunologia veterinaria.
L’hanno scritto dei vip del settore e, visti i tempi, a rivenderlo potrei farci
ei bei soldi. Avevo preso 29, che caspita di voto è 29?

Po mi sembra di intravedere: “L’uomo che ascolta ai
cavalli”; “Flush” di Virginia Woolf in lingua originale; un saggio di Chomsky
sull’11 settembre, ormai passato di moda e “Le malattie infettive del cavallo”:
questo è un po’ più attuale. Come vicino di mensola abbiamo “Le malattie del
cane” della “zia” Lucia Casini, docente unipi.it. Quella cosa ricoperta con la
carta a quadretti di una vecchia colomba pasquale è il libro di embriologia,
quando si dice non voler vedere.  Il
libro successivo, al contrario, “Training Your Own Birdog” ha il titolo in bella
mostra e viene da una biblioteca del Maryland, via Ebay: lieta di averlo salvato.
 Siccome la logica non mi piace, accanto
a lui troviamo “La cucina orientale”, di Pearl S. Buck. Prima di avere la copia
originale del 1975, trovata dall’Augusto, il rigattiere di Piazza del Duomo a
Pavia, ero sopravvissuta con alcune fotocopie dello stesso. L’apertura degli
italiani alla cucina etnica ricordiamocelo, è piuttosto recente e, sempre per
essere coerenti, le poche cose che ho cucinato in vita mia, torte escluse, sono
orientali, e vengono da questo libro. Pearl S. Buck (1892-1973), per chi non lo
sapesse, è una scrittrice americana che ha vinto sia il Nobel che il Pulitzer e
che ha trascorso gran parte della sua vita in Cina.

Tre libretti sui cani, di cui uno sui setter, la separano da una fila di copertine color pastello. Sono i 102 Classici del ‘900 di Repubblica, ne ho solo 54, ma fanno la loro porca figura. A me piace vedere varietà tra le pile di libri, ma queste collane hanno un senso: servono a chi compra i libri per metterli in soggiorno e far vedere che legge. L’esistenza di tali individui è reale, ne sono a conoscenza fin dalla prima infanzia. I libri sono sempre stati una calamita per me, quando non sapevo ancora leggere guardavo le figure e pretendevo che gli adulti mi leggessero le parole. Non ho mai rubato caramelle, ma libri sì. La leggenda vuole che all’età di circa quattro anni, fui portata a casa di amici dei miei per una delle solite cene. Cosa accadde? Qualcosa di molto imbarazzante: attratta dai libri, iniziai a toglierli dalla libreria, erano bocchi di polistirolo nascosti da sovra-copertine! Non vorrei sbagliarmi, ma mi pare non ci invitarono più a cena. Ho deciso di non presentarvi i 54 libri uno per uno, però tra di loro c’è un secondo libro della Buck, “Vento dell’est, vento dell’ovest”, e “Possessione” un romanzo molto British che mi era piaciuto assai. Altrettanto British sono gli annuari dell’English Setter Association of UK che arginano la collana. Blu. Indaco e turchesi attaccati al rosso di una raccolta di tarocchi Shining Tribe verso cui non ho mai provato una particolare empatia. La prima fila di libri termina con altri due volumi di anatomia veterinaria, quelli dell’esame di Anatomia Veterinaria II.

Però c’è anche una timida seconda fila, ovvero qualche libro
che, siccome non sai dove mettere, finisce in cima a quelli messi in ordine. Al
centro di tutto una mattonella misteriosa ricoperta con la pagina di un
calendario. È una mattonella che adoro: è stata ricoperta per proteggerla. Dietro
la carta c’è… “The Norton Anthology of English Literature”, 2656 pagine scritte
in caratteri minuscoli. Le ho lette e tradotte, una per una, per la mia “prima
laurea”: l’esame funzionava che aprivano una pagina a caso, dovevi tradurre
quello che ti capitava e dimostrare di averlo letto. Sto provando or ora ad
aprire a caso e mi escono Wordsworth (si può fare); Milton (insomma); Marlowe;
Pope; Tennyson. Se voglio Joyce, Chaucer, Yeats o Beckett li devo andare a
cercare, e con loro trovo anche un segnalibro con un setter che indica l’inizio
del XX secolo. Sembra proprio un secolo fa.

Gli altri libri senza fissa dimora sono di un certo rango e si
sono nascosti nel cellophane, perché se aspettano che io li spolveri… Abbiamo: “Cacciatori
si diventa” (1956); “Addestramento del cane da ferma” (1931) e “Il pointer”
(1974). Gli ultimi due stanno, uno ciascuno, in dei sacchetti per surgelati.

Esauriti i libri, rimangono i alcuni soprammobili sopravvissuti allo sterminio, non amo particolarmente genere.  Un bovaro del bernese in pelouche, proveniente da New York, un mezzo palco di daino, un sasso che riproduce un mio cane e una tavolozza con al centro una grouse, e tutti attorno altri selvatici da piuma tipici della Britannia.

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Quattro passi dentro casa: l’imprevisto

Per oggi, in programma avevo messo la mensola, o il muro,
non avevo ancora deciso, ma tutti i miei programmi sono saltati. C’è stato un
imprevisto: un’inezia in tempi normali, un guaio quando hai un’epidemia in corso.
Mi fa quasi paura dirlo: sono dovuta andare al supermercato.

Antefatto, il 21 febbraio, giorno di individuazione di
Mattia, il presunto paziente 0, ero a Lodi. Codogno e Lodi sono vicine: ricordo
bene il barista, forse di Codogno, inalberarsi perché quel “coglione” se ne era
andato in giro per tanti giorni, come se fosse sano. Lo ascoltavo pensando, con
mezzo cervello, che il povero Mattia non aveva idea di essere malato, l’avevano
persino spedito via dall’ospedale. Con l’altra metà di cervello, guardavo i
cartelli che avvisavano delle chiusure di mensa e bar in occasione della
Pasqua, e del 25 aprile.  Guarda un po’,
oggi è Pasqua, chissà che fine avranno fatto quei cartelli: mesi spesi ad
avvertire… nessuno.

Noi veterinari le epidemie le conosciamo, nessun vet ha sottovalutato il coronavirus, però, una timida confidenza da parte della categoria ve la devo fare: “Pensavamo che venissero adottate misure di contenimento più incisive. Pensavamo che venissero adottati piani di monitoraggio più accurati, facendo ricorso ai test di laboratorio. Pensavamo che tutti noi saremmo stati classificati come sani, malati, portatori e magari anche immunotolleranti. Pensavamo che la gente avrebbe avuto un filo in più di senso civico, o che sarebbero arrivate delle multe salate.” Invece, colpa di tutti, o di nessuno, la tempesta, si è trasformata in un uragano. A proposito, a che lettera siamo rimasti con la nomenclatura degli uragani? Nel dubbio, ripartirei dalla A e, trattandosi di corone, Adelaide dovrebbe suonare abbastanza regale.

Ve la ricordate Cassandra? Non è un’attricetta da cinepanettone,
è quella della mitologia greca: ecco, mentre io iniziavo a premurarmi di non
contrarre il virus, limitando uscite e contatti umani, tutti mi davano
dell’estremista germo-fobica. Ammetto che si metteste ad urlare “Orsetta!!!”
per strada, mi potrei anche girare, e non solo perché da lontano suona simile a
Rossella.  Però, non stavo giocando
all’asociale, ero semplicemente consapevole.

Il mio ultimo ingresso in un supermercato, cioè il penultimo, se consideriamo anche ieri, risale a quei giorni lì: scaffali mezzi vuoti e gente che non aveva ancora capito che doveva stare “su dà dosso”, nonostante i miei sguardi molto espliciti. Entrare di nuovo in un supermercato? No, grazie, andate avanti voi! Però, mentre incredibilmente la scuola italiana, cioè tutta la scuola italiana tranne unimi.it, è riuscita a traslarsi online, i supermercati sono tornati ai tempi del telegrafo. Esselunga Online non funziona; Bennet Drive si pianta; LIDL non consegna nel comune in cui è collocato, ma consegna altrove; Iper e Carrefour sono distanti. Resterebbe la Protezione civile, con un po’ di farina nei capelli, uno scialletto e gli occhiali morsicati dal cane potrei anche gabbarli, ma… I negozietti di quartiere? Sto in una frazione senza negozi, urbanizzazione residenziale molto anni ’80. Però negli anni ’80 eravamo un filo più smart e qui c’era un supermercato a due piani. Chissà perché pensando agli anni ’80, mi viene in mente il maglioncione fucsia in angora con un gigantesco fiocco sul davanti, chissà che fine ha fatto. O la tuta nera di Topolino con le scritte rosa evidenziatore.

However, ho tirato circa 40 giorni senza entrare in
un supermercato, come ho fatto? Beh, in famiglia c’è fin troppa gente che smania
dal desiderio di andare al supermercato, risolvendomi il problema, ma anche se
non avessi forma di vita intorno, tolti i cani, sarei comunque rimasta
serenamente lontana dagli scaffali.  Stando
ai social, tutti gli italiani si sono messi ad abbuffarsi e a cucinare: io
reclamo la mia coerenza, e non mi vergogno a dire che di mangiare, mi importa
meno di prima. “Stai mentendo! Panifichi!” Non esattamente: panifico
conto terzi per tenere gli anziani di famiglia lontano dal panettiere, gioco al
piccolo chimico con le cotture, e al piccolo allevatore con i lieviti. Tutto
qui.

Sostanzialmente il supermercato non mi serve, ho il freezer
pieno e il porto d’armi. Nel mio congelatore ci sono starne, fagiani, cinghiali,
pizze, qualche piatto pronto e persino… Un quarto di pastiera annata 2019, che
non ho ancora scongelato, di questo passo la mangerò a Ferragosto. C’è anche la
torta della Laurea in Medicina Veterinaria: se i Windsor conservano per decenni
le loro torte di nozze, lo posso fare anche io. Quanto ai supermercati, ne ho
diversi vicino a casa e, in momenti asettici, li ho sempre frequentati in orari
infelici, a testimonianza del mio disamore per le folle. Non uso carrelli, solo
borse e cestini: vado, compro ed esco, niente indugi. Come tutti, ho delle preferenze:
mi piacciono gli assortimenti di Esselunga, Iper e Carrefour, ma sono scomodi.  Vicino a casa ho Bennet, Italmark e LIDL. Il
mio preferito è il tedeschino giallo e blu: è piccino, economico, e intrigante:
propone sacco di stranezze che gli altri non sanno inventarsi. Italmark ha la
freddezza di un Iceberg e io mi sento il Titanic, il Bennet è troppo festa di paese
e io sono la solita snob.

Come se adesso avessi il diritto di scegliere: Conte ci ha
detto che dobbiamo stare a casa, e sfamarci con quello che abbiamo dietro casa.
Fare la spesa potrebbe pertanto voler dire: andare nell’orto, bracconare un
cinghiale, rubare le uova a un agricolo o, se proprio sei sfigato e vivi in mezzo
al cemento… andare al super. E qui insorge il problema delle code: i signori
della grande distribuzione hanno subito approfittato di quella legge che
impedisce di tagliare le code… ai cani. Come se non mi fosse stato chiaro il
concetto, in mattinata mi erano arrivate immagini dell’Esselunga di San Donato Milanese
alle 7.00 AM: una coda che… lasciamo perdere. Ma seriamente, quanto mangia la
gente? Considerando che sento da sempre un certo bisogno di spazio attorno a
me, mentre facevo opera di auto-convincimento per uscire di casa, ho mantenuto
un punto fermo: fankulo la coda, se c’è lei, vengo via io.

Così, tra una meditazione e un’indagine di mercato, per
capire chi andasse al supermercato, sono arrivate le 7.00 PM. Quelli in coda
dalle 7.00 AM, avranno finito di rimpinzare i carrelli? Dopo un serrato testa a
testa con Italmark, aveva vinto il Bennet in virtù della parafarmacia. La carne
delle bestiole era esaurita, ma la bestiola junior, aveva sabotato il
mio piano di bracconaggio azzoppandomi. Strattone triplo carpiato, e quello che
dovrebbe essere il tensore della fascia lata si era messo ad urlare, sin dalla
notte precedente. Impossibile sdraiarsi, o sedersi, impossibile provare a Keep
Calm & Carry On
senza una botta di chimica. E qui comincia l’avventura.

Introduzione: l’orario era da terno al lotto. Ci sarà
ancora gente? Non ci sarà più gente? E… se insieme alla gente fossero spariti
anche i viveri? Ragioniamo: gli anziani privi di personal shopper shoppano
alla mattina; le siure alle 7.00 PM cucinano, e quelli col cane stanno
in giro col cane.

Capitolo I: L’Abbigliamento. Più difficile è la
missione, più è importante non dare nell’occhio. Se il virus non ti vede, va da
un’altra parte. Niente lenti a contatto, l’occhiale lilla protegge di più.
Niente correttore e fondotinta, occhiaie e pallore ti fanno sembrare già
malato, non è il caso di infierire. Solo di una cosa non posso fare a meno, la
spazzolata alle sopracciglia, che ancora un po’ mi cascano negli occhi.  L’abbigliamento lo descriviamo dal basso:
scarpe da trail Decathlon, perché dovendo scegliere tra Fight or
Flight
, di questi tempi meglio sgommare. Jeans a gamba dritta blu scuro H&M.
Li avevo presi all’Iper Montebello quando è nata Briony. Ci entro ancora, sono
di un bellissimo blu notte, e chissene frega se c’è uno strappo sul ginocchio.
Magliettina sintetica Zara, a righe con base fucsia con una punta di ametista:
fingiamo un atteggiamento positivo, con tanto di anti-sfiga. Capelli rivendibili
nel reparto ortaggi.  Nessuna borsa (si contamina),
solo una bella shopper in tela verde bottiglia: tanto lavabile, quanto
arrogante, essendo sponsorizzata da Armi Magazine. Al suo interno un paio di
guanti e il portafoglio. Il tocco di classe lo avrebbero dato i soprascarpe
monouso turchese, ma poi? Se mi tolgo prima i guanti blu Mediterraneo, per
toccare il portafoglio viola quaresima, poi con cosa tolgo i soprascarpe
turchese? Con un secondo paio di guanti blu Mediterraneo? E se, per, malasorte,
la coppia di guanti blu Mediterraneo contaminata, incontra la coppia di guanti blu
Mediterraneo, allevata in purezza? Pirandelliano, via i soprascarpe.

Capitolo II: La Macchina. Non l’accendevo da più di una settimana. L’ultima volta l’ho fatta girare stella attorno a casa, con diagonali non più lunghe di 200 metri. Mi è parsa felice di vedermi, ma credo sperasse la portassi in campagna. L’ho capito dalla cimice che passeggiava sul volante: camminava avanti e indietro, mentre io non riuscivo nemmeno a posare il gluteo sul sedile. Ho ignorato la cimice e sono partita, abbattendo il muro dei 200 metri, con il quale se ne sono andate un sacco di false certezze. Se la gente deve stare in casa, e uscire solo per reali NECESSITA’, se io sono stata più di 40 giorni, da cui il vocabolo “quarantena”, senza vedere un semaforo, com’è che c’è la solita coda al semaforo? Dove vanno costoro? Non ne ho idea, per fortuna non andavano dove andavo io: il parcheggio del Bennet era stato sfoltito dalle auto. Sembrava un melo appena potato, frastornato e illuminato dai raggi dell’ora dorata. Qualche persona sostava in prossimità dell’ingresso, alcuni a cavalcioni di una moto, altri in piedi: le finte spese per uscire di casa a parlare col cellulare. Lo sportello esterno del McDonald era chiuso.

Capitolo III: Il Supermercato. Spente le luci in galleria: anche qui aveva vinto l’ora dorata. Non ho mai capito perché tutti ammattiscano per fari e faretti. Luci spente e commessi assenti. Serrande e saracinesche abbassate, e se la serranda non c’era mai stata, via con i nastri di delimitazione, non superate la riga.  Procedevo dritta con guanti, mascherina e borsone, l’elisir da trangugiare prima della battaglia. Un vigilante, ecco il primo intoppo: “Deve prendere il carrello!”, “Devo proprio?”, “Sì”. È una regola stupida, ecco l’ho detto, non a lui, a voi. Cinque anni di medicina veterinaria, cinque anni a studiare la biosicurezza, un mese in un laboratorio più-o-meno sterile in cui si fabbricano embrioni bovini… Tanta sapienza frantumata da un Vito Catozzo in giacca nera. Perché devo toccare un caspita di carrello contaminato che hanno toccato altre centinaia di persone? In quel momento ho sentito l’odore del sigaro di Sir Winston: “Keep Calm & Carry On”.  Quel fumo non mi ha nemmeno scaldato, con una temperatura corporea di 35.7, potevo tranquillamente entrare. Tranquillamente per modo di dire, mentre claudicante mi accingevo a concludere la prima falcata, l’altoparlante strillava, cioè, raccomandava, di fare in fretta. Davanti a me un’orgia di uova di Pasqua, colombe e coniglietti, ma la gente sta sempre a mangiare? Inizio a provare più empatia verso coloro che affogano i dispiaceri nell’alcol.  Proseguivo lenta e silente con paraocchi e museruola. Flector: spuntato. Insalata: pigliane una insacchettata e andiamo. Sushi: costa caro e lo hanno toccato in troppi, lascia perdere. Farina DIMENTICATA. Latte e ricotta per le creature: spuntati. Trita per le creature: sarebbe stato meglio andare all’ingrosso-che-costava-meno, spuntata. Olio di canapa per le creature: spuntato. Per smettere di sentirmi un rider di Glovo, ho acquistato per me il primo sacchetto di patatine avvistato; un caprino fresco DOC DOP DOCG IGP ECOBIO e chissà che altro, e un filetto di tonno fresco che non credo ricomprerò mai più. La voce dell’altoparlante ci stava addosso come un leone che incalza le antilopi, ma i pochi presenti, me compresa, andavano piano. L’impressione che galleggiassimo tra le luci dei neon nuotando da uno scaffale all’altro. Più che stare tutti nello stesso mare, la sensazione era quella di stare nello stesso acquario: pesci, molluschi, crostacei eccetera, tutti a battagliare contro la stessa acqua (aria) inquinata. Diversi, tra i crostacei adolescenti maschi, si perdevano ogni volta che si sganciavano da uno scaffale, curioso vederli chiedere l’AIUTO-DA-CASA a mamma crostaceo. Io mi sono lasciata, in qualche modo, trasportare dalla corrente, il mio personale ruscello trasportatore mi faceva prendere questo è quello. Ho scritto “prendere”, non “scegliere”. Ero quella che compara, che guarda le etichette, che controlla le date di scadenza: chissà quando potrò tornare ad essere così.

Capitolo IV: La Cassa. C’è una cassiera bionda. È una
bionda per finta e ha i capelli crespi, vaporosi. Di questi tempi, restare bionde
per finta è un miracolo tradito solo dal giallo canarino, dagli occhi scuri e
dalla pelle olivastra. La mamma di Barbie Malibù è arrabbiata perché lei “era
stata a casa, perché era stata male” (!!!), la sua collega invece sta a casa
per finta”
. Nel dubbio estendo le distanze, lei ha un grembiule rosso e tanta
voglia di chiacchierare.

“Lei sta andando a lavorare?” Ok, insomma è complicato,
vai tu a spiegare in due parole, la vita di un “libero professionista” iscritto
a due ordini professionali. Un saltimbanco, così ho semplificato. “Beh
lavoro da una vita da casa
(VERO) e diciamo che ho praticamente
annullato quello facevo fuori casa.”

Così ha replicato “Quindi lei è abituata a stare in casa,
a lavorare da casa?”

“Si certo, non è nulla di nuovo per me”.

“Perché vede, io per fare il mio lavoro devo venire qui.
Ma la gente, tanta gente, sa quelli che andavano in ufficio, magari avanti e
indietro a Milano, adesso lavorano da casa. Quindi… è possibile! Perché non ci
hanno pensato prima? Anche per l’inquinamento”.

Capitolo V: La Galleria. Lo hanno capito anche le bionde, PUNTO. Ho salutato, ringraziato, tolto i guanti, preso la borsa per il manico con un pezzo di Scottex tarocco e ho percorso a ritroso la galleria.  Bottega Verde, Erbolario, negozi di intimo, gioiellerie, abbigliamento, Kiko, Sephora, Carpisa, Vodafone, le solite catene da centro commerciale qualunque. Poi un’agenzia di viaggi con decine di offerte in bella mostra; Paolino, quello che credo faccia il pollo arrosto; la gelateria con il gelato che sa di polverina; il McDonald, con i macarons fluorescenti, che il primo lunedì del mese ti regala una tazzina di caffè, e tutta la piazza del cibo.

Io, il silenzio e la luce dell’ora dorata.

Se ti è piaciuto trovi il precedente qui o il successivo qui.




Sii portavoce delle tue passioni

Gentaglia, o brava gente? Stando a dati di qualche giorno fa, le donazioni da parte dei cacciatori per l’emergenza COVID_19,  hanno superato il 1.500.000 euro. A queste donazioni “identitarie”, ovvero fatte attraverso le associazioni di categoria, andrebbero sommate anche quelle fatte singolarmente. So per certo di cacciatori che hanno fatto, di loro iniziativa, offerte a enti e ospedali. Andrebbero anche calcolate le offerte che sono state fatte, e che verranno fatte, in “memoria di”, perché purtroppo il coronavirus si è portato via anche molti di noi. Non sapremo mai, con esattezza, quanti soldi sono stati donati dai cacciatori, ma in fondo… che ci importa? Ricordo le donazioni dei cacciatori per il terremoto dell’Emilia e per i successivi, ma chi se le ricorda? Forse quelli che le hanno fatte, forse quelli che le hanno ricevute, ma l’opinione pubblica? Se il mondo se ne è scordato, che ci importa? Vuole la categoria guadagnare visibilità attraverso le offerte? Credo proprio di no, anzi, al contrario, molti tra coloro che hanno donato, lo abbiano fatto per il piacere di farlo, perché sentivano di dover donare, non per essere notati, o ringraziati.

Sia chiaro, avete e abbiamo fatto tutti bene a donare, è
sicuramente una bella dimostrazione di solidarietà da parte della categoria, ma
da sola non basta. Infatti, come avrete sicuramente letto, gli animalisti hanno
inventato dei pretesti per attaccarci, inventandosi che le donazioni non erano
vere, eccetera eccetera. Attaccano persino perché, ad oggi, la stagione
venatoria 2020/2021, non è stata sospesa. Come se non ci fosse un indotto
dietro alla caccia, come se non ci siano (di già) degli allevamenti di selvaggina
che scoppiano, come se la Beretta non avesse riconvertito parte della sua
produzione alla creazione di valvole per i respiratori.

Queste cose però le sappiamo solo “noi”, sono notizie che
non fanno rumore. Questo nostro “noi”, invece, deve aprirsi, smettere di essere
un cerchio chiuso, deve espandersi. Lì fuori devono capire che siamo “brava
gente”, devono capirlo attraverso i nostri gesti di tutti i giorni, gesti di
vita e gesti di caccia. Sulla vita di tutti i giorni, cosa volete che vi dica:
non fregate i parcheggi, aiutate le vecchiette ad attraversare la strada,
magari fermatevi se per terra vedete delle strisce pedonali, queste cose le sapete
già, non mi dilungo.

Quanto alla caccia, diventate ambasciatori della vostra passione. Fermi, alt, dove andate, tornate indieeeeetro! Non vi sto incitando ad aprire improbabili profili Instagram per esibirvi tipo influencer dei poveri, NO-NO-NO! Di questi, e soprattutto di “queste”, ne abbiamo già abbastanza: non deve importarci della nostra di visibilità, deve importarci della nostra passione. Occorre spiegare, con saggezza, quello che facciamo. Il 28 di marzo avevo in programma una giornata per raccontare i cani da caccia in un centro cinofilo; il 16 di aprile sarei dovuta andare in una scuola elementare a parlare di cani, inclusi quelli da caccia.  Questi sarebbero stati esempi di divulgazione positiva e propositiva, ovviamente sono saltati, ma qui non ci si perde d’animo.

Io per esempio faccio colazione sfogliando quelle vecchie
riviste cinofile e venatorie che non ho mai avuto il tempo di leggere. Sono
certa, o per lo meno mi auguro, che ne esistano a pacchi anche nelle vostre
case, così come spero che qualcuno di voi abbia ancora vecchie pubblicazioni
degli anni ’30, ’40, ’50, eccetera. Ve li ricordate i disegni di Lemmi? Vi
ricordate con che garbo e con che classe erano discusse la caccia e la
cinofilia? Bene, riprendiamo in mano quelli scritti e lasciamoci ispirare,
scriviamo anche noi (su questo blog c’è sempre spazio per i contenuti di
qualità) e cerchiamo, attraverso i social, che oggi sono l’unico contatto con
il mondo esterno, di presentare le nostre passioni nel migliore dei modi.

Ho qui accanto una copia di The Shooting Gazette, è mezza
mangiata dal cane, ma leggo che è stata pubblicata nell’aprile del 2018: ci
sono andati DUE anni per trovare il tempo di leggerla. Ma ho fatto bene a non
gettarla, contiene un articolo che si chiama “Be the Best You Can Be” in
cui David Edgan ci invita a essere le migliori persone possibili durante la
pratica venatoria, e a essere i migliori portavoce possibili della caccia. Cosa
possiamo fare? Innanzitutto, comportarci bene in campo. Vale di più un fagiano,
o il rispetto delle norme di sicurezza? Altre cose? Raccogliere le cartucce
sparate, rispettare le distanze da case e strade, trattare e preparare bene i
nostri cani, ma poi? Dobbiamo anche allargare il nostro punto di vista,
comprendere l’importanza della gestione faunistica e del nostro ruolo
all’interno della stessa. Dobbiamo essere cacciatori formati ed informati,
pronti a rispondere, con dati e fatti, alle domande che ci vengono poste.
Dobbiamo conoscere le normative, le specie, l’ambiente, dobbiamo essere
preparati: in questo modo si fa divulgazione, solo così si tolgono le munizioni
dalle dei nemici. E poi?

Scusate se salto di palo in frasca, ma non voglio che mi
scappino le idee. Per esempio, se vi fermate in un ristorante dopo una
mattinata di caccia, siate rispettosi e sobri. Al tavolo accanto potreste avere
qualcuno che non a pensa come voi, o qualcuno che non sa nulla della caccia:
essere grezzi e volgari non è il miglior modo per presentargliela. Sui social,
comportatevi nello stesso modo. Io difficilmente posto foto di cadaveri, in
genere sono in bocca al cane o, ben più raramente, già serviti a tavola.
Fotografare piatti a base di selvaggina è un regalo che possiamo fare alla
caccia: chi li vede capisce che la selvaggina in tavola è molto buona, e che
non ci sono sprechi. Si scopre che quello che è stato abbattuto viene mangiato:
indirettamente si salva un animale d’allevamento.

Se volete pubblicare altri tipi di foto con animali morti
chiedetevi: “è etico il mio atteggiamento?” (se state ridendo con una nutria in
mano, non è etico – ve lo dico io); “fa impressione?”; “è di buon gusto?”.
Insomma, pensateci un attimo, pensate a quanti lo possono vedere, e poi postate,
o non postate.

Ricordate sempre che la promozione, sana, delle nostre
passioni è la miglior difesa e iniziate dal basso, magari invitando i
miscredenti a venire con voi al tiro al piattello, o ad accompagnarvi a addestrare
il cane.




Quattro passi dentro casa: il cespo di erica

Anche qui, non confondiamoci: il cespuglio di erica stava
fuori casa, il cespo di erica stava quasi in casa. Il cespuglio, radicato
solidamente nel terreno, abitava in giardino accanto al lampione. Poi un bel
giorno è sparito. I ricordi sono molto vaghi ma, tra un’ombra della mente e
l’altra, mi sembra che abbia fatto i bagagli nello stesso periodo in cui è
arrivata una setterina bianca e arancio, questioni di sopravvivenza. Il cespo,
anzi i due cespi, stavano in due vasi, sul balcone. Anche qui, come potete
notare, si parla al passato. Il balcone è quello della stanza in cui vivono il
telo cinese, le cornici blu e il divano dell’Avanella. La stanza, se non ve
l’avessi già detto, è esposta a nord, quindi non vede mai il sole. Del suo
balcone non se ne ricorda mai nessuno: è impunemente esposto alle intemperie
tanto da aver causato un’infiltrazione d’acqua nel soggiorno. È un ambiente
superfluo: ogni inverno, per lo meno negli inverni d’altri tempi, si imballa di
neve e devo uscire con la scopa per lanciarla giù in giardino, sperando sempre
di non centrare i cani. Adesso ha una pavimentazione in finto cotto toscano,
l’ho comprata da “Michela”, il cui cognome è abbastanza industrial-rinomato,
quindi diciamo solo il nome.  Le antenate
di queste piastrelle erano giallastre, rachitiche e scivolose. Roba da
discount, insomma, ma me le sarei tenute, evitando l’anda e rianda del
piastrellista sul parquet, se non fosse stato per l’infiltrazione.

Delle piastrelle non me ne importa un granché: le vedo solo
con la coda dell’occhio, ci dividono i doppi vetri e la zanzariera. Perché, se
fa freddo non puoi aprire i vetri, che entra il freddo; se fa caldo non puoi
aprire le zanzariere, che la a casa si trasforma in un emporio all’ingrosso di
insetti. Questa mattina ho aperto un istante ed è entrato un moscone: nero, lucido
e cangiante, era molto nervoso. Per fortuna se ne è andato di sua sponte, non
sempre succede. Le cimici cinesi, per esempio, vengono per restare. Non so chi
abbia concesso loro il permesso di soggiorno, ma si sentono a loro agio dalle
nostre parti, in tutte le quattro stagioni. Oramai non le temo più: le
acchiappo delicatamente con della carta igienica (per questo ogni tanto svetta
rotolo sulla scrivania) e le butto nel water. La mia prima cimice, al contrario,
è stata un trauma: avevo circa otto anni e lei (?) si è posata sulla manica di
un mio maglione. Il maglione era brutto, giallo e sintetico. Ho urlato talmente
tanto che sono arrivati i vicini, da quel giorno non ho più indossato maglioni
gialli, qualche volta maglioni sintetici.

Se alle cimici mi sono abituata, persistono perplessità nei confronti di api, vespe e calabroni. Io faccio finta che non esistano, ma loro mi vengono a cercare. La calabrona regina è molto ostinata: ogni anno cerca di fare il nido su questo balcone. La scorsa stagione ho chiamato i rinforzi e l’hanno uccisa. Era enorme: sette, o otto, centimetri d’insetto, forse di più. Data la taglia era sicuramente americana, anzi texana, e proveniva dalla base USA di Aviano. Prima di spirare, mi ha giurato che avrebbe mandato la nipote a sostituirla, arriverà da Houston con DHL. Speriamo che il Covid_19 generi intoppi, nel frattempo torniamo al cespo…

L’erica di LIDL

Perché “cespo”? Perché chiunque abbia visto l’erica nel nord dell’Inghilterra e in Scozia non può chiamare diversamente un ciuffetto di questa pianta compattato artificialmente in un parallelepipedo. I cespi erano arrivati in sostituzione dei gerani: non li curavo e sono morti. Non è che lo faccia apposta: me ne dimentico, sulle piante ho sempre avuto le mie idee. Non posso tenere piante d’appartamento, perché i cani le morsicano. Ho provato orchidee e bonsai, ma nonostante le amorevoli cure mi hanno lasciato: a volte sono morti, altre volte li ho regalati per il loro bene. Non mi piacciono i fiori recisi: sono dei condannati a morte e mi fanno starnutire. Resterebbero le piante carnivore, ma non so, non so se ho voglia di provarci. Ho sempre pensato che le piante debbano essere #aiutateacasaloro e che non debbano #stareincasa. Io abbraccio gli alberi, ma li lascio nei boschi. Credo nei giardini selvaggi e scapigliati.

La mia povera erica è morta per il caldo: gli è stato
chiesto di adeguarsi a un clima che non le appartiene. Tutti gli anni, almeno
un paio di volte all’anno LIDL propone dell’erica in vendita, forse anche lei è
arrivata così, ma non per mano mia. 
Quando la incrocio tra gli scaffali, la guardo, le sorrido e scatta quel
sentimento dolceamaro di nostalgia dei moors.  Le giro le spalle e le auguro buona fortuna.

Il mio cespo, sebbene passato a miglior vita, era stato molto amato, non capita a tutte le eriche in cattività. Durante i primissimi giorni di quarantena, la gente era impazzita. Non potendosi più recare né a lavoro, né al centro commerciale, si era avventurata nella scoperta delle campagne. Uscire all’aperto con il cane era diventato meno che sicuro: anche i luoghi poco battuti erano diventati battuti, fosse il sole alto o basso all’orizzonte. Non sapendo come altro risolvere, sono andata a passeggiare dalle parti del campo nomadi, a debita distanza: c’ero soltanto io, e le sagome delle baracche sullo sfondo. Al rientro, ho conosciuto un rigagnolo: né bello, né brutto, se non fosse stato per la spazzatura.  Nell’acqua del rigagnolo, dritto davanti a me, un cespo di erica di forma rettangolare, identico al mio. Non era stato amato abbastanza e lo avevano gettato in acqua: curiosa l’idea di affogare l’erica, quando è di troppo, di norma la si brucia. L’erica è piuttosto resistente all’acqua, nasce e cresce in una terra di tempeste: il cespo infatti era ancora vivo. Ho provato a salvarlo, ma non ci sono riuscita, troppi i cani con me, troppo pesante il cespo e troppa la distanza che lo separava dalla riva. Ciao cespo, e rinasci sul moor la prossima volta, ma mettiti in un angolo, così non ti bruciano!

Se ti è piaciuto trovi il precedente qui e il successivo qui.




Quattro passi dentro casa: il divano dell’ Avanella

Disclaimer: il divano dell’Avanella non viene
dall’Avanella. Già questo è un inizio grandioso! Ma, per chi non lo avesse
capito, le mie narrazioni non seguono un filo logico, sono Joyciane. Il flusso,
anzi il “ruscello” di coscienza è molto più fedele alla vita di quanto non lo
siano gli ordini cronologici, né tantomeno il vizio di voler andare da A a B in
linea retta: alla meta ci si arriva anche prendendo la strada panoramica.

Il divano dell’Avanella va contestualizzato nella storia di
questa stanza. La stanza è quella intermedia tra le tre presenti al secondo piano
di un’ordinaria villetta a schiera suburbana. Essa nasce, nei primi, anni ’80
con lo scopo di essere un ufficio dentro casa. In famiglia ci piace essere
postmoderni. Conte, marzo 2020, ha detto che bisogna fare smart working:
mi padre ha iniziato a farlo negli anni ’70. Il suo primo
ufficio-da-lavoro-agile era il tavolo della cucina. Un tavolo della cucina
marrone scuro, il colore lo ricordo bene perché non mi piaceva, affiancato, in
corridoio, da un’altissima libreria nera dove stavano libri, cataloghi e pile
di documenti cartacei. La cosa più speciale era la localizzazione dell’ufficio:
pieno centro storico, all’ombra della cattedrale.

Poi, con la casa nuova, l’ufficio domestico si è conquistato
una stanza intera, quella da dove scrivo ora. Questa volta all’arredamento ci
aveva pensato un architetto e la stanza era stata agghindata con mobili bianchi
e accessori rossi, tutta roba di design. È rimasto tutto così fino a quando il
capofamiglia ha deciso di rinunciare al lavoro da casa spostandosi di nuovo in
centro storico, un ritorno al lavoro impacciato. Io, che ancora frequentavo le
scuole medie, ho ereditato la stanza e parte dell’arredamento, del resto i miei
libri reclamavano scaffali. Nello spazio lasciato vuoto dai pochi mobili
portati via era stato inserito un letto, bianco, anni ’70, l’ex letto di mio
zio (perché qui non si butta mai niente) che sarebbe dovuto servire “per gli
ospiti”. Nessun ospite l’ha mai utilizzato: l’idea era buona, ma… mio padre,
non tutti siamo leggeri in famiglia, ne ha sfondato la rete sedendosi sopra. Se
proprio volessimo dirla tutta, ma non si deve sapere, io, qualche volta,
saltavo in piedi sul letto, ma credo lo facciano tutti i bambini. Ritengo
pertanto che le reti a molle dei letti siano state progettate tenendo conto
anche di questo, declino di conseguenza ogni mia responsabilità.

Dopo questo incidente, la stanza è rimasta senza letto e ho
cercato di viverla alla giapponese: con tappeti, mica tappeti, e persino con un
futon che mi ero portata in aereo dal Giappone. Lo avevo acquistato
candidamente a Kobe e poi caricato in aereo a Osaka, senza pensare che una
ragazza piccola con un pacco enorme, arrotolato nella carta, avrebbe potuto
destare sospetti.  Infatti, così è stato,
un finanziere a Malpensa mi chiese proprio cosa contenesse il pacco. Quando gli
dissi “Un materasso, se vuole glielo apro!”, mi spedì via per evitare
complicazioni.

Ektrop

Nonostante il futon, continuavo a sentire forte e chiara
l’esigenza di un divano vero che doveva essere: economico, comodo, piccolo, perché
la stanza è piccola, e facile da trasportare. Come tanti esseri umani, adoro il
catalogo Ikea, cioè adoravo il cartaceo, che di solito arrivava ogni settembre.
Anzi, qui non arrivava mai, ma riuscivo ad avere sottobanco la copia di mia
nonna, che tanto non ci sarebbe andata lo stesso all’Ikea di Corsico. Mi scuso
con le cugine se ho rubato l’ambito catalogo per anni, a loro insaputa, ma
bisogna pure arrangiarsi.  Il catalogo
Ikea incarna quello che rappresentava il catalogo Postalmaket nella mia
infanzia: in pratica guardi tutto, vorresti comprare tutto, e poi non compri
nulla. O, in alternativa, vai in fissa, guidi fino all’Ikea, perlustri per ore e
poi ti accorgi di non riuscire nemmeno a sollevare dagli scaffali quello che
vorresti caricarti in macchina e portarti in casa.

Quasi uguale a quello dell’Avanella

Tornando a tempi più moderni, essendo a caccia di divani, mi piaceva assai il design dell’Ektrop: molto classico, molto inglese, specie quello bianco a fiori neri. Molto bello, ma troppo caro e troppo grande. La pensavo così fino a quando, all’Avanella, ebbi un colpo di fulmine. Cosa sia l’Avanella lo sapranno al massimo una decina di amici, qualche centinaio di Italiani, e qualche migliaio di stranieri, perché all’Avanella vanno soltanto gli stranieri. I pochi italiani che la conoscono, sono quelli che ci abitano vicini, o sono gli amici della proprietaria, quasi tutta gentaglia che va a caccia e ha cani. L’Avanella può infatti vantarsi di aver ospitato più di un personaggio illustre appartenente a questa fetta di mondo. E sempre l’Avanella  può raccontare di avere avuto, prima tra tanti, un capo guardiacaccia donna, con tanto di laurea in scienze forestali.  L’Avanella è tante cose in una. Chi è curioso può andare su internet e scoprire che l’Avanella è un agriturismo, ma io non la considero tale. L’Avanella è anche una riserva di caccia, per l’esattezza un’azienda faunistico venatoria, ma anche qui siamo un po’ sui generis. Agriturismo? Il complesso di strutture dell’Avanella: villa, fienile e villini (le scuole) ricorda tutt’al più in villaggio. Negli agriturismi di solito si mangia, all’Avanella no: puoi dormire, tuffarti in piscina, o lavare i panni sporchi in mezzo agli altri. Se vuoi mangiare devi andare a Certaldo, o a San Gimignano, oppure passare alla HOOPPEE (il toscano per COOP) e poi accendere il fornello. La caccia all’Avanella è un lusso solo per pochi: Francesca & gli amici. I fortunati posso cacciare il cinghiale, il capriolo, i colombacci e i fagiani, ma non luglio quando all’Avanella ci sono finita io.

A luglio all’Avanella fa solo caldo: questo mi ha portato a
conoscere molto bene i suoi interni. Francesca mi aveva collocato nel fienile,
al piano terra del fienile, il territorio riservato alla famiglia e agli amici.
La struttura originale del fienile era stata conservata: il piano terra era
quindi piuttosto buio, lungo e stretto e suddiviso in due parti. La stanza da
letto, con il bagno, ne occupavano un terzo; gli altri due terzi erano un
lunghissimo spazio aperto al centro del quale spiccava un divano Ektrop, bianco
e a tre posti.

Che all’Avanella si cominciasse presto, lo intuii sin dalla
prima mattina, dalle ombre e dai rumori uditi nel dormiveglia. I rumori sconosciuti
erano stati provocati da Francesca che, in orario antelucano, aveva depositato
una brioche con la panna nell’angolo cucina. Nelle mattine successive, il mio
sonno fu disturbato presenze meno nobili: un bambino, credo russo, che ritenevo
risiedere al piano alto del fienile, correva e urlava sin dalle prime luci
dell’alba. Francesca, a dieci anni di distanza, continua a dire che non c’era
nessun bambino russo al secondo piano, io seguito a credere che abbia fatto
confusione sul registro delle presenze. All’Avanella, non solo si comincia
presto, ma tra cene, escursioni e grigliate si finisce tardi. Poi, di notte i
cinghiali bussano alla porta, così giorno si collaudano i divani. Fu così che
scattò l’amore tra me il divano Ektrop.

Era amore sì, ma non abbastanza forte per farmi decidere a
comprarne un gemello, costava troppo ed era troppo grande. Un paio di mesi dopo
aver abbandonato il mio divano toscano preferito, venni a sapere che il mio
amico P. sarebbe andato all’Ikea per comprare le forchette. La P puntata è per
tutelare la privacy del malcapitato a cui mi sono appiccicata, per aver modo di
trasportare fino a casa un divano di Ikea. Lo sventurato, infatti, era munito
di auto simil-furgonata che aveva sufficiente spazio per trasportare un divano
piccolo, almeno in teoria. Così siglammo un patto: “Io ti porto all’Ikea, ma ci
stiamo al massimo 10 minuti.” Sembra incredibile, ma abbiamo davvero sfidato e
vinto l’Ikea esplorandola in 10 minuti. Era andato tutto alla grande, fino a
quando i miei occhi hanno incrociato il profilo spaurito di un Ektrop a due
posti.  Era proprio quello bianco, con in
fiori neri. Il povero divano era stato abbandonato nell’angolo delle occasioni
perché ferito a bordo zampa, un’infermità minore, ma che ne riduceva
sostanzialmente il prezzo, facendolo rientrare nel mio budget. Ci siamo
guardati e ho capito che non potevo lasciarlo lì. Cioè, non l’ho capito proprio
subito, ho tentennato per altri dieci minuti che mi sono costati una punizione.
L’ho dovuto caricare sul carrello (da me) e poi spingere suddetto carrello, con
il divano sopra, fino alla cassa, tra l’ilarità e l’ammirazione degli astanti.

L’avventura è proseguita nel parcheggio quando abbiamo scoperto che un pezzo di divano, in qualsiasi modo lo girassimo, sarebbe rimasto fuori dall’auto. Peggio di una carretta del mare, ma un elastico, un portellone legato alla meglio, una targa dell’Uzbekistan, quest’ultima in senso figurato, ci hanno fatto passare la paura. Il mio Ektrop è qui, sotto alle cornici blu, in perenne memoria del “divano dell’Avanella”.

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Quattro passi dentro casa: le cornici blu

Le cornici blu, come è giusto che sia, guardano dall’alto al
basso il telo cinese. Sono arrivate prima di lui, molto, molto prima. Ridendo e
scherzando, credo se ne stiano attaccate al muro da almeno una quindicina
d’anni. Sempre nella stessa posizione e sempre sopra la stessa pittura color
malva che mi ha reso inconfondibile tra i commessi del colorificio locale. Che
ci vada di persona, o che mandi l’imbianchino, il contenuto della latta non
deve essere rosa, ma non deve nemmeno essere viola. Guai a virare verso il
color lavanda, è troppo freddo, dobbiamo stare il quanto più vicini possibile
al color malva. Che poi è quasi sinonimo del color erica in fiore: dipende
dalla luce, tante cose dipendono dalla luce. 
A proposito di colori freddi, non credo si vedrà mai una parete gialla
in questa casa, il color malva si abbia perfettamente al blu delle cornici. È
un blu che è tanti blu insieme: distalmente, così diciamo in anatomia, troviamo
un blu abisso, muovendoci verso l’interno, invece, abbiamo un azzurro chiaro
caraibico, commercialmente noto anche come “Bahamas Blue”. Le sfumature sono
interrotte da venature bianco azzurro. Descritte così, le mie cornici potrebbero
sembrare la seconda cinesata nel raggio di pochi centimetri: niente di più
falso, nell’insieme, l’effetto complessivo è piacevole.

Non posso dirvi dove le ho comprate, non perché debba
rimanere un segreto, semplicemente non me lo ricordo: ricordo di averle
comprate io, di questo ne conservo la certezza, ma ho dei buchi nella memria
simili a quelli di un gruviera. Credo provengano da una specie di brico locale,
uno di quelli che da un anno all’altro cambiano nome e proprietà, con
l’assortimento che, tuttavia, rimane all’incirca lo stesso. Però, potrebbero
anche provenire dal brico supremo, quello che sta a una ventina di chilometri
da qui e che non nomino perché mi mette troppa soggezione: è troppo lontano per
pensare di andarci. Ho visto gente rimettere a nuovo la casa durante queste
giornate di quarantena. C’è una casetta bianca, qualunque, lungo il tratto in
cui passeggio con i cani. In meno di un mese la sua recinzione è diventata più
nera, le sue persiane più verdi, e i suoi muri più bianchi. Se non si può
uscire di casa, da dove saranno arrivate tutta quella pittura e tutti quei
pennelli?

Comunque, tornando alle cornici blu, costoro sono un numero
di cinque, non ricordo esattamente il perché. Tre alloggiano stampe di
fotografie dell’inizio del secolo scorso , due invece delle copie di fotografie
in bianco e nero scattate negli anni ’70. 
C’è però un incredibile trait d’union, tutte le immagini portano
dei setter inglesi. Prima di parlarvi delle immagini, devo parlarvi dei passpartout,
perché hanno una storia tutta loro. A comprare una cornice pronta ed infilarci
dentro una foto siamo capaci tutti, ci costa anche molto meno che far fare una
cornice su misura, il problema arriva quando gli abbinate ciò che dovrebbe contenere.
Le anime semplici si accontentano di far combaciare i bordi dell’immagine con
quelli della cornice: la gradevolezza del risultato lascia però molto a
desiderare.  Tutti abbiamo almeno
un’immagine imprigionata in questa maniera, ma… ecco vi lascio i puntini di
sospensione, così potete decidere come pensarla.

La soluzione preferita da
pignoli-perfezionisti-ossessivi-compulsivi? Il passepartout della giusta
tonalità e della giusta misura. Ora che ci penso, perché il beige del
passpartout centrale è più crema degli altri, che danno invece sul corda? Chi
lo sa, ho impattato con l’ennesimo buco del gruviera. Nell’anno di nascita
delle cornici blu non esistevano ancora i tutorial su Youtube, però avrei
potuto aggrapparmi ai ricordi delle lezioni di educazione tecnica delle scuole
medie. Ci ho pensato, ma non ci ho neanche provato: è inutile cercare di fare
il salto dalla teoria alla pratica, se sai già che quanto allungherai la gamba
cadrai prima di toccare l’altra sponda.

Ready for the Call

Se esistesse una classifica del senso pratico, il mio sarebbe sotto lo zero. Con la manualità va un po’ meglio, ma sostanzialmente io sono quella che ha le idee, mi aspetto che siano gli altri a realizzarle. Le mie idee, ovviamente, sono ottime, solo difficili da mettere in pratica. È per questo che i commessi dei brico, i fabbri, gli imbianchini, i falegnami, insomma gli artigiani in genere, preferiscono non avermi come committente.  Ricorrono a mille astuzie per non farsi trovare, ma nulla possono contro la mia determinazione. Mi evitano perché sanno di non poter essere scortesi: negli anni, infatti, ho elaborato un sistema di rottura di scatole raffinato ed efficace, nonché a prova di insulto. Perché se io rompo, usuro, consumo, trito….  ma in fondo sono educata e gentile, anche se vorrebbero tanto mandarmi a quel paese non ho fornito loro le munizioni per poterlo fare.  In fondo sono persino buona: consapevole della mia totale assenza di senso pratico, affermo spesso che il mio coinquilino ideale sarebbe un caporeparto del Leroy Merlin.

Comunque, quando venne l’ora dei passepartout, la vittima
designata fu un anziano corniciao locale.  Con poco entusiasmo, li realizzò, facendomeli
pagare a caro prezzo e poi narrò la vicenda al figlio che ereditò, insieme
all’attività, anche un atteggiamento sospetto nei miei confronti.

Ma arriviamo finalmente a raccontare cosa contengono le
cornici blu, partendo da quella più a sinistra. La prima cornice, vicino alla
finestra e a nord del televisore, contiene una delle due foto anni ’70. Una
setterina che sorveglia un cucciolo di circa tre settimane: l’età l’ho stimata
io.

Con la seconda cornice abbiamo invece la prima foto di William Reid, un fotografo scozzese che risulta essere stato attivo tra il 1910 e il 1931. La “foto” è in realtà una pagina stampata proveniente da una qualche pubblicazione d’epoca. No Holt’s, no Christie’s: l’ho comprata su Ebay. Ora, io capisco il nazionalismo scozzese, capisco la sentita ricerca di identità da parte di questo popolo ma, intitolare l’immagine “Ready for the Call”, azzardatamente sottotitolata “A pack of Scottish Deerhounds on the Hills of the Vicinity of Edinburgh” (un branco di deerhound scozzesi sulle colline nei pressi di Edinburgo), mi pare un po’ tirato. Avete presente che cos’è un deerhound? Se non lo sapete ve lo spiego io: i deerhound sono dei levrieri specializzati nella caccia al cervo. La traduzione letterale del loro nome è segugi da cervo. Sono alti, molto alti sugli arti, smilzi, grigiastri e hanno un mantello duro, arruffato che spara in ogni direzione. Siccome so che è scortese paragonarli allo scopettone del wc, dirò che assomigliano a quelle spazzole irsute e avvitate che si usano per lavare l’interno delle bottiglie. Tolto il paragone politicamente scorretto, a me piacciono persino ma… non hanno nulla a vedere con le bestiole che appaiono nella foto. Abbiamo invece otto, forse nove – c’è una testolina che spunta dietro – cani. Di questi, quattro sono setter inglesi, tre sono pointer inglesi e uno sembra essere un cocker, per non sbagliare chiamiamolo semplicemente spaniel. I cani sono più o meno accovacciati e fermi, a dimostrazione che la steadiness (capacità di restare immobili), non è stata scoperta di recente dagli addestratori scozzesi. Dietro sembra vedersi un lago, più in là la sagoma dei moor.

We are Seven

Un lago fa da sfondo anche nell’immagine contenuta nella
cornice centrale, “A Young Game Keeper and His Nine Assistants, Aberfoyle
Scoltand”
(un giovane guardiacaccia e i suoi nove aiutanti, Aberfoyle,
Scotland). Nove cani, anche qui, che scrutano l’orizzonte immobili in compagnia
di un guardiacaccia che indossa il tweed della riserva, come accade tutt’ora.
Bravo William! Good boy! Stavolta hai azzeccato il titolo.

In quarta posizione abbiamo “We are Seven” (siamo
sette), il cui sottotitolo è “A Scotch Lassie and her half dozen setter
puppies”
. Lassie vuol dire ragazza, non vuol dire Lassie come lo intendiamo
noi. La razza “Lassie” non esiste, il cane a cui è stato dato quel nome, era un
cane da pastore di razza collie. Se siete arrivati fino a qui, e vi siete
persi, ci riprovo: quel cane protagonista di tanti film, era un collie di nome
“Lassie”, ovvero un cane da pastore di nome “Ragazza”. Se questo vi sembra
contorto, a me fa molto francese il contare i cani in mezze dozzine, sapete
come si dice 96 in francese vero? I cuccioli sono sei, con loro c’è una
ragazza, caso, o coincidenza, mi sento tanto io quando zampettavo per il
giardino urlando “Cagnoliniiiiiiii!”, “Cuccioliii” alla mia mezza dozzina.

La quinta cornice è sul confine con la libreria, cioè con una delle librerie, torniamo negli anni ’70, con una setter pensierosa, la stessa che fu mamma nella cornice iniziale. E il cerchio si chiude.

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Quattro passi dentro casa: la cinesata suprema

Disclaimer: questa volta non si tratta di un articolo cinofilo, né venatorio (sebbene un articolo con questo tema sia in preparazione), quello che state per leggere è un esercizio di scrittura “terapeutica” da quarantena. Del resto c’è chi si rilassa cucinando e chi scrivendo.

What if… Scrivessi il bestseller del secolo? Il secolo è appena iniziato e scrivere un libro che vendesse bene sempre stato il mio Piano B. Anzi no, il Piano C, il Piano B è meglio che lo conoscano solo in pochi: manca ancora la materia prima per pensare di realizzarlo, ma non posso svelarlo, comporterebbe il rischio che salti.

Sono le 18.00, diciotto punto zero-zero, sei zero zero p.m.,
in questo momento mi sfugge come leggano le ore nei Marines.  Mi appena risvegliata da un torpore profondissimo,
il che significa che non sono ancora davvero sveglia.  Non c’è né come il non dormire la notte,
dovrei saperlo: del resto non ho mai dormito. 
Ho passato la mia infanzia attaccata alle tazze di tè: a 3 anni sapevo già
distinguere un British Breakfast da un Earl Gray, al primo sorso.  Oggi per far ripartire il motore al minimo
dei giri, è servita una moka doppia di caffè ecobio-solidale non so cosa, ha
una confezione color juta. A seguire, una tazza di, mi pare che si chiami,
English Rose della Whittard. Whittard of Chelsea, la Londra bene, un tè
pannoso, una tazza di tè non potrebbe essere pannosa, ma questa lo è. Vi scrivo
standomene affondata nel divano con il computer sulle ginocchia. Sotto al
computer un supporto fucsia, anzi no, chiamiamolo con suo vero colore “rosa
shocking”. È non è nemmeno tanto trash, passatemi il secondo anglismo. Il
problema è un altro: a causa della globalizzazione, che ci ha messo in questo
disastro, migliaia di persone ne hanno uno identico al mio: li produce Ikea,
non potrebbe che essere altrimenti.

La cosa più spazzaturosa che mi circondi, tuttavia, sta un
paio di piani al disotto del supportino color lampone: sotto al mio sedere e
sotto ai cinesissimi jeans di seconda mano, se non ricordo male. Parlo della
trapunta che mi è stata regalata. Nell’intenzione di chi l’ha acquistata,
doveva trattarsi di un oggetto patchwork fatto a mano e a tema setter ma, non
appena è arrivato il pacco, ci si è subito accorti che la realtà superava di
gran lunga la fantasia. Davanti a me c’era l’equivalente di un copri asse da
stiro o, se preferite, di un sinteticissimo copri materasso. Nessuna traccia
delle pezze da patchwork,  abbiamo invece
un tessuto unico e scintillante, ovvero predestinato all’autocombustione. Su di
esso sono stati stampati, per giunta rozzamente, immagini di setter inglesi.  Ci sono persino le sbavature…

C’è sopra un po’ di tutto, ma confesso che il motivo per cui l’ho accettata come regalo di compleanno è stata l’immagine centrale: una, per me è una lei, setter identica a Tinkie, la mia ex-cucciola preferita. Non è ancora il momento giusto per raccontarvi di Tinkie, strepitoso esempio di resilenza, vi basti sapere che questo telo radioattivo è arrivato anche a causa sua: qualcuno certe colpe deve pur prendersele! Generalmente parca, in questo caso avevo deciso di abbondare, scegliendo la versione matrimoniale del telo, in modo da poterlo usare per il mio divano personale. Non immaginavo che, una volta aperto il pacco, le dimensioni avrebbero raddoppiato un vigoroso attacco di risate. Sì, perché di fronte a un tale monumento al kitsch, puzzolente come il catrame appena steso, non si poteva fare altro che riderci sopra: impossibile buttarlo nel camino, visto che non ce l’ho. Tra l’altro, essendo il mio compleanno a fine maggio, ed essendo il telo arrivato con tempistiche caraibiche, più che cinesi, la sua sinteticità non ne permetteva un pronto utilizzo in un ordinario luglio da Pianura Padana. La sorte, tuttavia, dopo l’inganno, era tornata a sorridermi: a breve sarei partita per il nord dell’Inghilterra e il sinteticone, lassù, avrebbe avuto vita più facile.

Let’s go together: io, Briony detta “la tigre”, Tigerlily detta “la foca”, la zia Chiara (la zia della foca) e il telo delle meraviglie. L’intenzione era quella di usarlo per salvaguardare il divano dai cani: con nostra sorpresa, abbiamo trovato ben due divani e una casa intonsa, una figlia naturale di Elle Decor. I suoi genitori adottivi, quelli della casa intendo, si sono subito mostrati molto apprensivi, qualcosa di inquietante considerando, la concomitante presenza della “Lillina”, una setterina che, a dispetto del nome floreale, andava comportandosi come la figlia del demonio. È così è iniziato il balletto del metti il telo – togli il telo; del metti il tappeto – togli il tappeto. Ogni giorno coprivamo il divano piccolo con ceste e tavolini; il divano grande lo coprivamo con la cinesata. I tappeti, invece, acquistati con grande affanno, venivano ritmicamente stesi, e poi arrotolati, a tutela della moquette, grigio polvere chiaro, che dava dritta su un giardino annaffiato a giorni alterni da tempeste oceaniche. In questa lotta senza tregua al fango e al danno, temevamo, probabilmente non a torto, di essere spiate dai veri proprietari della casa:  a ogni uscita smantellavano l’accampamento, per poi ripristinarlo al rientro. 

Poi vennero la traversata della Manica, il Passo del Gottardo e i tempi surreali del COVID-19, fu così che il copriletto acrylic-setteroso si sentì finalmente a casa, in mezzo alle risaie del nord Italia.

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