Quattro passi dentro casa: L’Acquarello Blu

Oggi corso di agopuntura veterinaria online, nove ore
attaccata al pc, di una cosa posso vantarmi: in quarantena non mi sono mai
annoiata. Mi hanno fregato un altro imbrunire, però piove, quindi la luce non è
la stessa. C’è buio, sembra di essere rimbalzati in autunno. Occorre vederci
chiaro, ma troppa luce non mi piace: accendo una lampada. È domenica ma ho
perso il senso del tempo.

Scrivo per cercare di ritrovarlo, ho anche paura che mi
scappino le idee. Ne ho avuta una, ieri sera, le migliori idee nascono col
buio, non voglio che svanisca. Più che un’idea è stata un’intuizione, un “epiphany”,
come le chiama Joyce. L’intuizione è balenata veloce e si è subito collegata ad
uno dei miei quadri. Mio perché lo possiedo, non perché l’ho disegnato. Non
sono proprio capace di disegnare, è qualcosa che mi manca tanto, ma oramai mi
sono rassegnata. Però le opere d’arte mi piacciono, anche se mi piacciono a
sensazioni, più che a logica.

Questo quadro è arrivato così, per tanti casi. Su Ebay mi
avevano colpito degli acquerelli con dei cavalli, li faceva un’artista di nome
Michele Weise (una donna, a dispetto del nome), che credo stesse in Arizona.
Ero riuscita a strappare tre dei suoi acquerelli-con-cavallo ad un prezzo
stracciato: credo troppo stracciato per starle simpatica, in mezzo all’ordine, non
so più come, era finto anche un quadro, più o meno, astratto. Ci ho messo il
“più o meno” perché io ci vedo un tramonto sul mare, ma altri potrebbero
vederci solo delle strisce di colore, per giunta con delle enormi sbavature. A
me piace così, con i suoi colori e con il suo sole. Pazienza per la cornice,
non era esattamente quello che volevo, facciamo finta di niente.

In questo acquarello ciascuno può vederci quello che vuole.
Può darsi anche altri credano che il gioco di colori rappresenti un tramonto
sull’acqua, ma sono certa che il paesaggio che vediamo non sia lo stesso per
tutti, probabilmente nemmeno i colori.  L’epifania di ieri sera era qualcosa del
genere. Una persona, o un’animale, non sono mai gli stessi: cambiano a seconda
del contesto, e cambiano a seconda di chi li osservi. Prendiamo Briony, il mio
cane: potremmo dire che è un cane da caccia, se la porto a caccia; che è un
cane da prove, se la porto alle prove; o che è un cane da compagnia, se la
metto sul divano.  È lo stesso cane, ma
diventa ogni volta qualcosa di diverso. Così come Rossella può essere vista in
tanti modi a seconda di quello che sta facendo. 
Siamo quello che siamo perché siamo o… siamo quello che siamo in base a
quello che facciamo?

Cosa ci definisce? Il contesto? Quello che facciamo? Noi
stessi? Gli altri? Un po’ tutte queste cose, messe insieme. Avete presente certe
insalate di riso, d’autore anonimo, in cui si butta dentro un po’ troppo di
tutto? Si rischia di essere percepiti così, o peggio ancora di diventare una di
quelle pizze con troppi ingredienti, tanto invadenti da non lasciare cuocere la
pasta.  Per mantenerci integri, e ben
cotti, serve un po’ di autostima, solo così ci autodefiniamo.

Lo stesso cane a cui io voglio un mondo di bene, potrebbe
essere, per altri, un disturbo: altro che fenomeno di qui e fenomeno di là, è
solo un cane che abbaia. È solo il cane che ti obbliga ad attraversare la
strada, perché il tuo lo vorrebbe azzannare, o il cane che rende difficile la
consegna delle casse dell’acqua.  Per
inciso, non ho mai definito il mio cane un fenomeno, ma mi piaceva l’idea di
usare questa parola per evidenziare la soggettività, a volte persino la miopia,
con cui si percepisce la realtà.

Individuale, soggettivo, relativo: il mondo è ciò che
percepiamo, anche le persone. La precarietà sembra acuirlo.  Di questi tempi non si può, per lo meno io
non riesco, fare a meno di sentirsi un po’ Mercoledì Addams: pensate ai morti
di Coronavirus, chi erano costoro? La stessa persona, quasi sicuramente, era
tante persone: cambiava a seconda del contesto e dell’osservatore. Quello che
era il signor Arancioni (ho preso un colore meno diffuso di Rossi, o Bianchi, altrimenti
mi accusano di portare sfiga) in ufficio, probabilmente non era la persona che
conoscevano in famiglia; né quella a cui erano abituati gli amici, o i compagni
di hobby. 

Una luce bianca quando passa da un prisma si scompone in
tanti colori.

L’acquarello blu, non è solo blu: c’è viola, rosa, giallo, arancio, azzurro, grigio, nero, una punta di bianco. L’acquarello blu è tante cose, insieme.

Se ti è piaciuto puoi leggere il precedente qui e il successivo qui.




Il cane da caccia

Questo è l’articolo a cui i precedenti due sono preparatori. Se non li avete letti, lo capirete lo stesso ma lo comprenderete meglio andando a dare un’occhiata a quanto scritto nei giorni scorsi. Questo è l’articolo che non vedevo l’ora di scrivere: mi sono dovuta frenare intrattenendovi con cose più noiose ma… necessarie, proprio come l’addestramento di base.  Spesso elaboro gli articoli camminando, e camminando ho riflettuto sul titolo: volevo chiamarlo il “cane perfetto”, il “cane ideale”,  il “cane utile”, ho deciso di chiamarlo semplicemente il cane da caccia, nessun avverbio e nessun aggettivo, perché quello che leggerete altro non è che un ritratto iperrealista di come deve,o dovrebbe essere, un cane da caccia.

“Queste osservazioni (degli articoli 1 e 2 n.d.a) portano inevitabilmente a pensare che nessun cane può essere considerato perfettamente addestrato a meno che non vada in ferma non appena percepisca la presenza di selvaggina e resti lì in mobile fino a che non gli ordinate di avvicinarsi; che non si metta a terra nel momento stesso in cui sparate, senza che proferiate alcun comando verbale e che, successivamente, si impegni a cercare il capo abbattuto nella direzione da voi indicata. Tutto ciò senza che voi dobbiate mai dire nulla fuorché “Trova” a bassa voce mentre si avvicina al selvatico morto, come spiegherò in seguito”. Hutchinson – Dog Breaking 1865

E’ probabile che riterrete quanto preteso da Hutchinson un’esagerazione, ma questa – errata – percezione è il solo il frutto di una prassi (è inopportuno parlare di cultura!) venatoria che ritiene l’addestramento superfluo, se non addirittura nocivo. Per non offendere nessuno, intanto, parlo per me. Ho lavorato sul Briony, fin da piccina, per darle un minimo di educazione di base. Oggi è un cane piacevole, sa stare in casa, sa stare in mezzo alla gente (bar, negozi, ristoranti, alberghi eccetera) e sa viaggiare in automobile. Insomma, sa comportarsi, ha imparato persino come ci si muove nei ring delle esposizioni, ed è anche grazie al suo lasciarsi condurre piacevolmente se abbiamo conseguito il Campionato Italiano di Bellezza. Però, da piccina, non era un cucciolo molto sicuro di sé e proprio per questo ho rimandato ad età adulta addestramenti più impegnativi.

Come cane da caccia non manca affatto di qualità naturali, cerca (sfruttando naturalmente bene il terreno), ferma, consente, recupera (bene) e riporticchia, oltre ad essere ben collegata. Fino a qualche mese fa mi consideravo soddisfattissima del risultato ottenuto. Del resto mi capita di vedere e di cacciare con cani di tutti i tipi, mediamente ben più ineducati e inaffidabili della mia. Gli unici cani che ho visto sempre lavorare a puntino appartengono a un gruppo di drahthaaristi integralisti che, con grande affetto e stima, ho sempre reputato un po’ “nazisti”.  Data la loro impostazione mentale e vista la razza, mi sembravano risultati normalmente raggiungibili con i loro cani, non con un setter inglese. Altri sporadici cani “illuminati” erano sempre continentali, cito per esempio Junus von der Himmelsleier kurzhaar di Elena Villa.

hutchinson 7

Così, felice  come la vispa Teresa mi aggiravo beata con  la mia setterina imprecisa. Io e il cane siamo stati sereni fino a quando a me non è venuta la malsana idea di andare a vedere come lavorassero i suoi “parenti” in Britannia. Ecco, per stare in tema anglosassone, lì ho avuto quella che James Joyce chiama “epifania” ovvero la rivelazione improvvisa di una verità nascosta. Cioè, il mio inconscio probabilmente sapeva cosa andava fatto con il cane ma la mia mente razionale cercava di tenermelo nascosto. Vedere quei setter e quei pointer perfettamente “in mano”, fermi al frullo, pronti a consentire al minimo cenno, pronti a rientrare dopo mezzo fischio – e senza per questo perdere iniziativa, mi ha completamente rapito.

Ho visto la luce ma, subito dopo, la lampadina si è spenta e io e il mio cane siamo tornati al buio. Non ho dimenticato quella luce però e ho deciso che dovevo fare qualcosa: era mio dovere provare ad arrivare a quel livello. Non dico riuscirci ma almeno provare. Questa mia decisione ha stupito un po’ tutti, cane incluso. Prima di tutto ha stupito gli italiani che ritenevano il mio cane già abbastanza a posto e che ritengono inutile, superfluo e persino dannoso il mio piano d’azione. Contemporaneamente ha stupito anche gli inglesi che non capiscono come abbia fatto a tenermi un cane così selvatico fino ad ora. Secondo loro è inconcepibile andare a caccia con un cane che non sia come quello descritto da Hutchinson (nel 1865!!!) e non riescono a credere che i cani da caccia italiani siano anni luce da quel livello educativo. Non sto scherzando, non credono che io portassi abitualmente a caccia un cane non perfettamente fermo e al frullo e allo sparo e non credono che cani lanciati dal bagagliaio e lasciati liberi e selvaggi siano la normalità.

Briony è insomma l’equivalente di una signora che in ciabatte e vestaglia si  reca a un’importante evento mondano: starebbe meglio con i tacchi e con un abito da sera, paragone non venatorio ma efficace. Però atto di ciò ci stiamo lavorando ovvero stiamo investendo tempo e impegno, nonché sacrificando giornate di caccia affinché torni sul terreno nella sua nuova versione migliorata e corretta. Nonostante le difficoltà sono felice di questa scelta e, vivendola sulla mia pelle, mi viene da ripensare all’articolo di qualche tempo fa e mi chiedo se ritenere normale la condotta dei cani indisciplinati altro non sia che una giustificazione alla pigrizia.