Quattro passi dentro casa: le mensole bianche
Due mensole bianche, queste le protagoniste della giornata. Provate voi a scrivere qualcosa di interessante e di intelligente su due mensole bianche. A raccontare, a colpi di foto photoshoppate, l’ultima in Papua Nuova Guinea, è capace anche una talpa. Senza offesa per le talpe, lo dicevo perché le talpe vedono poco, quindi credo fotografino anche peggio. La vacanza, il regalo, il successo sportivo, la cattura della bionda, insomma sono queste le cose più postate sui social. Molto più facile scrivere “Il mio cane ha vinto un 1 kg di formaggio alla gara dove c’erano altri tre concorrenti”. Ogni riferimento a cose e ha persone è puramente casuale, sia mai che io intenda di penna ferire. Però, anche se adesso è parecchio di tendenza dire che non state sui social: chi è chiuso in casa, dove volete che sia? Quelli che mancano, tutt’al più sono i post auto-celebrativi, non c’è proprio nulla da celebrare. I post sulle mensole? Al di là delle difficoltà intrinseche, non è nemmeno normale sparpagliare parole sulle mensole.
Eppure la mensola è qualcosa di molto egualitario, tutti
abbiamo almeno una mensola, nella peggiore delle ipotesi la teniamo sul
pavimento del garage perché non siamo capaci di fare due fori nel muro, e di
questi tempi è meglio non fare entrare nessuno in casa. Ho detto che la mensola
è egualitar-proleataria, non che “siamo tutti sulla stessa barca”. Qualcuno
deve aver osato dirlo, in questo periodo intendo, e sono scoppiate rivolte. In
effetti c’è chi viaggia su uno yacht, chi ha la zattera di Tom Sawyer, chi sta
attaccato ad un tronco e chi ha fatto naufragio. La reclusione in spazi interni,
però, è egualitaria: mancano la libertà e la fraternità, ma tutti abbiamo un
muro da fissare. Magari abbiamo anche una finestra, e lì iniziano le
differenze: il panorama cambia e, con lui, anche la carica virale che ci
aspetta fuori.
Comunque, le mensole bianche stanno sopra alle cornici blu e
al divano dell’Avanella. Sono due mensole Ikea, non ricordo la serie, Lack
forse. Le avevo scelte bianche perché mi piacciono i mobili bianchi e perché il
bianco crea un bel contrasto con malva della parete. Ovviamente c’era la
fregatura, e io sono stata un pollo: il mobile bianco sintetico ingiallisce e,
a distanza di anni, costoro hanno assunto un colorito sinistro, tra il
giallognolo e il verdastro. O, forse, ho
avuto la vista lunga: adesso le mensole sono quasi dello stesso colore del passepartout.
Se non sono rimaste distese sul pavimento del garage, lo devo a mio zio, un dei
pochi, in genealogia, a saper far due buchi ne muro. Gli ho chiesto di insegnarmi,
ma lui ha cambiato discorso. Eppure, le prime mani di malva le avevo date io:
dopodiché ho sempre chiamato l’imbianchino.
Sulle mensole massicciotte e io ci ho messo un sacco di
cose. Partiamo dal lato che più dà verso l’esterno: dalla libertà alla
clausura. Come prima cosa troviamo un telefono cordless. I fili che lo
collegano alle prese, quella telefonica e quella elettrica, penzolano come due
liane fino a raggiungere, all’incirca, l’altezza al garrese di un fox terrier,
lì iniziano ad ingarbugliarsi. Il cordless è bianco, ma è stato un caso,
ed economico, tanto non lo usa nessuno. Io non rispondo a telefono fisso, la
linea esiste solo per la fibra. Chi mi conosce lo sa, quindi quando suona il
fisso: A) non è per me; B) è un parente molesto; C) è una televendita e D) è un
ladro che vuole sapere se sono in casa. I casi A, B e C è meglio perderli che
trovarli, il caso D, se il ladro mi trova in casa, il problema diventa il suo.
Vi garantisco che se ne andrebbe, nella migliore delle ipotesi, solo per
sfinimento ma, a proposito di sfinimento, avete notato anche voi che con la
quarantena sono scomparse le telefonate dei call center?
Non chiamano neanche più sul cellulare, a dire il vero, non
che io d’abitudine risponda al cellulare. Sostanzialmente le telefonate non mi
piacciono. Si disturba sempre quando si chiama qualcuno, nessuno ha il coraggio
di dirvelo in faccia e riassetta la voce invece di mandarvi al diavolo: un
atteggiamento di facciata. La telefonata è invadente, la telefonata interrompe.
La telefonata è arrogante, salta persino la fila: vi è mai capitato di essere
in coda da qualche parte, sta quasi arrivando il vostro turno, avanzate con la
lentezza di un gasteropode, e a ogni persona fisica smaltita, segue una pausa
lunga tre telefonate. L’operatore non taglia corto, e voi che vi siete vestiti,
preso una secchiata d’acqua e parcheggiato in divieto siete lì in piedi a farvi
saltare davanti da un fantasma in pantofole che sta sgranocchiando un babà,
bella roba.
Accanto al telefono acchiappa polvere, abbiamo tre
contenitori porta riviste in cartone. Sono bianchi a fiori blu, quasi come il
divano dell’Avanella. Essi contengono qualche rivista di caccia sudafricana, un
atlante colorabile sull’anatomia del cane, delle fotocopie e dei libri
fotocopiati. Illegali? Nì, è tutto setterume (roba di setter) fuori stampa,
italiana e estera, non avevo altro modo per leggerli. A seguire abbiamo il libro di Stanley Coren,
lo psicologo americano che, invece di fare lo psicologo, ha il vizio di
scrivere di cani. Questo libro, però, si chiama “Cani e Padroni”, infatti parla
anche dei padroni. Il prossimo lotto
sono i due libri di anatomia (Nickel et al.) che erano il requisito minimo per
passare l’esame di neuroanatomia col Ferrandi. Per chi ha conosciuto il Ferrandi,
non serve aggiunga altro, chi non ha avuto il piacere, meglio così. Dopodiché
abbiamo l’isola blu: il librone di microbiologia e immunologia veterinaria.
L’hanno scritto dei vip del settore e, visti i tempi, a rivenderlo potrei farci
ei bei soldi. Avevo preso 29, che caspita di voto è 29?
Po mi sembra di intravedere: “L’uomo che ascolta ai
cavalli”; “Flush” di Virginia Woolf in lingua originale; un saggio di Chomsky
sull’11 settembre, ormai passato di moda e “Le malattie infettive del cavallo”:
questo è un po’ più attuale. Come vicino di mensola abbiamo “Le malattie del
cane” della “zia” Lucia Casini, docente unipi.it. Quella cosa ricoperta con la
carta a quadretti di una vecchia colomba pasquale è il libro di embriologia,
quando si dice non voler vedere. Il
libro successivo, al contrario, “Training Your Own Birdog” ha il titolo in bella
mostra e viene da una biblioteca del Maryland, via Ebay: lieta di averlo salvato.
Siccome la logica non mi piace, accanto
a lui troviamo “La cucina orientale”, di Pearl S. Buck. Prima di avere la copia
originale del 1975, trovata dall’Augusto, il rigattiere di Piazza del Duomo a
Pavia, ero sopravvissuta con alcune fotocopie dello stesso. L’apertura degli
italiani alla cucina etnica ricordiamocelo, è piuttosto recente e, sempre per
essere coerenti, le poche cose che ho cucinato in vita mia, torte escluse, sono
orientali, e vengono da questo libro. Pearl S. Buck (1892-1973), per chi non lo
sapesse, è una scrittrice americana che ha vinto sia il Nobel che il Pulitzer e
che ha trascorso gran parte della sua vita in Cina.
Tre libretti sui cani, di cui uno sui setter, la separano da una fila di copertine color pastello. Sono i 102 Classici del ‘900 di Repubblica, ne ho solo 54, ma fanno la loro porca figura. A me piace vedere varietà tra le pile di libri, ma queste collane hanno un senso: servono a chi compra i libri per metterli in soggiorno e far vedere che legge. L’esistenza di tali individui è reale, ne sono a conoscenza fin dalla prima infanzia. I libri sono sempre stati una calamita per me, quando non sapevo ancora leggere guardavo le figure e pretendevo che gli adulti mi leggessero le parole. Non ho mai rubato caramelle, ma libri sì. La leggenda vuole che all’età di circa quattro anni, fui portata a casa di amici dei miei per una delle solite cene. Cosa accadde? Qualcosa di molto imbarazzante: attratta dai libri, iniziai a toglierli dalla libreria, erano bocchi di polistirolo nascosti da sovra-copertine! Non vorrei sbagliarmi, ma mi pare non ci invitarono più a cena. Ho deciso di non presentarvi i 54 libri uno per uno, però tra di loro c’è un secondo libro della Buck, “Vento dell’est, vento dell’ovest”, e “Possessione” un romanzo molto British che mi era piaciuto assai. Altrettanto British sono gli annuari dell’English Setter Association of UK che arginano la collana. Blu. Indaco e turchesi attaccati al rosso di una raccolta di tarocchi Shining Tribe verso cui non ho mai provato una particolare empatia. La prima fila di libri termina con altri due volumi di anatomia veterinaria, quelli dell’esame di Anatomia Veterinaria II.
Però c’è anche una timida seconda fila, ovvero qualche libro
che, siccome non sai dove mettere, finisce in cima a quelli messi in ordine. Al
centro di tutto una mattonella misteriosa ricoperta con la pagina di un
calendario. È una mattonella che adoro: è stata ricoperta per proteggerla. Dietro
la carta c’è… “The Norton Anthology of English Literature”, 2656 pagine scritte
in caratteri minuscoli. Le ho lette e tradotte, una per una, per la mia “prima
laurea”: l’esame funzionava che aprivano una pagina a caso, dovevi tradurre
quello che ti capitava e dimostrare di averlo letto. Sto provando or ora ad
aprire a caso e mi escono Wordsworth (si può fare); Milton (insomma); Marlowe;
Pope; Tennyson. Se voglio Joyce, Chaucer, Yeats o Beckett li devo andare a
cercare, e con loro trovo anche un segnalibro con un setter che indica l’inizio
del XX secolo. Sembra proprio un secolo fa.
Gli altri libri senza fissa dimora sono di un certo rango e si
sono nascosti nel cellophane, perché se aspettano che io li spolveri… Abbiamo: “Cacciatori
si diventa” (1956); “Addestramento del cane da ferma” (1931) e “Il pointer”
(1974). Gli ultimi due stanno, uno ciascuno, in dei sacchetti per surgelati.
Esauriti i libri, rimangono i alcuni soprammobili sopravvissuti allo sterminio, non amo particolarmente genere. Un bovaro del bernese in pelouche, proveniente da New York, un mezzo palco di daino, un sasso che riproduce un mio cane e una tavolozza con al centro una grouse, e tutti attorno altri selvatici da piuma tipici della Britannia.
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