Quattro Passi Dentro Casa: Il Kefir

I granuli di kefir abitano in taverna. Nella stagione fredda vivono su uno scaffale, in un barattolo che li nasconde dalla luce. Nella stagione calda, invece, vanno in villeggiatura con un siberino, in una borsa termica. Con la mezza stagione mi trovo ad un bivio: se fa troppo freddo si addormentano, se fa troppo caldo si in@zzano e si ingozzano di latte, gonfiandosi.

È come ad avere a che fare con un animale che ha, allo stesso tempo, problemi gastroenterici e problemi comportamentali. Eppure, sarà perché mi piacciono i casi complicati, non li ho ancora uccisi. Sono arrivati lo scorso agosto, dalla colonia “della Pina”, e sono rimasti.  Ho provato a cedere dei loro discendenti, ma solo un’adozione su tre era andata a lieto fine, quella di una dottoressa che lavora al reparto malattie infettive. Con il Covid 19 ho perso di vista sia lei che i kefirini. Nel frattempo, miei sono diventati una sorta di terzo animale domestico, accudito ad orari regolari, a costo di farmi vedere in videoconferenza mentre li filtro.

Che poi io il kefir, neanche lo bevo quasi più, lo avevo provato per una disbiosi, con dei benefici, ma l’ho poi sospeso, per fare altri esperimenti, visto che con la medicina ufficiale non avevo mai risolto nulla. Però… non ho mai buttato i granuli. Ho continuato a filtrarli ogni giorno alla stessa ora, e a dare loro il latte della marca preferita. Sono granulini fortunati, tramite le mie solite “vie traverse”, sono riusciti a mangiare anche della latte di vacca appena munto. Perché si dice “vacca”, non “mucca” e io non ho mai fatto mistero della mia passione per questi animali.  Da piccolina avevo una fattoria di plastica, che poi mia madre mi ha obbligato a regalare, anzitempo. Mettevo gli animali in recinti divisi per specie e funzione: i cavalli avevano un recinto triangolare e c’erano un sacco di pecore.  Anche i miei presepi sono sempre stati zeppi di pecore, quasi più ovini che statuine.

Tornando ai bovini, li ho sempre guardati con un che di induista: la vacca sacra, la vacca madre terra (in medicina cinese i bovini appartengono all’elemento terra).  Infondono calma, mi danno un senso di sicurezza: ricordo benissimo l’aereo in atterraggio su Newcastle. I puntini neri sotto di me erano vacche Angus, ed erano ovunque, quasi nei giardini di casa. L’accoglienza che ci voleva: del resto dico sempre che se vincessi alla lotteria, mi metterei ad allevare Angus al pascolo! Magari anche Varzesi, la razza è poco importante: mi basta una mandria sul prato e qualcuno che si ricordi di loro, vista l’altalenanza del mio senso pratico. Ho scelto di non fare il veterinario di vacche, ma ammiro i buiatri, perché non reggerei né gli orari, né la fisicità del lavoro. Però, reggerei i loro proprietari molto più facilmente di quanto mi accada con certi proprietari di “pets”: con gli “agricoli” (non me ne abbiate se vi chiamo così, è affettuoso), ci vado d’accordo. Spesso parlano la stessa lingua dei cacciatori: questi due mondi sono molto vicini, e se si trova la giusta chiave comunicativa, diventa tutto facile.

Ai kefirini parlo in italiano, a volte anche inglese, la mia lingua dell’anima: sono cresciuti bilingue, come i cani. Mi sono chiesta se non fosse il caso di imparare il russo, a quel punto potrei forse capire le chilometriche telefonate delle badanti: parlano a alta voce perché sono convinte che nessuno le capisca. Per ora, dopo anni di spionaggio, sono ferma a “Da e Te sam”, non posso che migliorare. Ne frattempo, le bestioline si lasciano filtrare in anglo-italiano: li passo dal vaso grande al vaso piccolo, serve un imbuto (rosa), un colino (marrone), una spatolina (fucsia e blu) e una bilancia (rosa), se la giocano LIDL e IKEA. Bisogna schiacciare bene i granuli per far colare la cremina, poi pesarli e dare la giusta quantità di latte in base al loro peso. Se ci sono avanzi del giorno precedente, questi vanno in una bottiglietta che in origine conteneva un succo di frutta finlandese. Un succo filosofico la cui etichetta dice “you live longer than snow”, di questi tempi non è così scontato.

Io mi affeziono agli esseri viventi, non mi distacchi neanche con il diserbo, così pur non consumandoli, li ho filtrati e sfamati per mesi, fino a che… li ho chiamati in soccorso e loro, con gratitudine, hanno risposto alla chiamata. È tutto così surreale, nazione che vai, estinzione che trovi: in Inghilterra hanno finito la carta igienica, in Italia, dove si pensa prima a mangiare, e poi a risolvere il problema di eliminare le scorie, è finito il lievito. Un bel problema per chi si era messo a panificare conto terzi!

Quando mi imbatto in problemi di difficile risoluzione, mi torna in mente che bisogna pensare “Out of the box”, così ingrano la marcia. Se mi impegno raggiungo il livello di risoluzione del problemi “Hermione Granger Avanzato”, e se la volontà non basta, mi ricordo ho due lauree e mi metto ad invocarle. Di solito funziona: è così che ho aggiustato la maniglia del water un sabato sera, non poteva proprio stare così fino al lunedì! Quindi, adesso? Lieviti: batteri; prosecco col fondo; date le brioche al popolo, le perle ai porci, evvai di brainstorming! Tatjana, Lessia, Ludmilla, Lydia, Katia, Ivan, Vladimir, Igor, tutti qui che mi aspetto da voi un miracolo.  Altro che #mangiapaneatradimento! Grati, fedeli, addestrabili e anche un po’ imprevedibili, come un buon cane da ferma, hanno prodotto un buon lievito, sovversivo quanto basta. Da un mese buono qui si panifica a “madre di kefir”, detta anche Grande Madre Russia: il mio quarto animale domestico, da sfamare regolarmente!

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