Caccia al cane… da caccia

Riflessioni di mezza stagione… di caccia. Nel Medievo si
cacciavano le streghe, in questo momento storico tanti, troppi, cacciatori,
danno la caccia al loro cane, sia in senso letterale (si insegue il cane da
caccia che scappa), sia in senso figurato, trasformando il cane nel capro
espiatorio preferito.

Se il cane scappa è colpa del cane; se il cane non riporta è
colpa del cane; se il cane… qualsiasi cosa accada è colpa del cane, senza se e
senza ma, senza un minimo di senso critico, né di introspezione.

Quando un cane sbaglia, ammesso che sbagli, chi si chiede
mai se la creatura stata messa in condizione di agire correttamente? Prendiamo
il cane che “non riporta”: gli è stato mai insegnato a riportare? E i cane che “scappa”:
questo cane ha davvero una relazione col proprietario tale da fargli ritenere di
dover essere “collegato”?

Vogliamo poi parlare della paura dello sparo? Come è stato
cresciuto il cane? È stato socializzato? Come è stato introdotto lo sparo? Se
gli avete sparato sei fucilate di fila sulla testa, senza la minima
introduzione ai rumori e alla finalità di tanto rumore, forse il cane tutti i
torti non li ha!

Potrei continuare ad elencare altri presunti errori e reinterpretarli dal punto di vista del cane, ma questo allungherebbe l’articolo, senza arricchirlo, e portandomi lontano dal punto chiave, che è un altro.

Se andiamo a caccia, parlo di quelle cacce che si praticano con il cane, ci andiamo con il cane, ma ci andiamo soprattutto GRAZIE al cane. Per carità, ho conosciuto cacciatori talmente abili da poter quasi fare a meno del cane, ma li vorrei proprio vedere buttarsi nelle acque gelide del Grande Fiume per recuperare un’anatra, per esempio. Ma, comunque che senso ha fare le cose che vanno fatte con il cane… senza cane? Una per tutte? La beccaccia alla posta! Come scrivo spesso la caccia, dal punto di vista dell’approvvigionamento alimentare non ha più ragion d’essere, quindi… Perché si va a caccia?

Per qualcuno è uno stile di vita, per altri una forma d’arte, per altri ancora una sorta di hobby. Non intendo qui mettermi a disquisire sulla liceità etica della caccia, ma mi preme invece portare l’attenzione sul fatto che, oggi, la caccia con il cane debba intendersi come una collaborazione tra uomo e cane, nonché, se possibile, come una raffinata espressione di un gesto atletico.

Sono un tipo preciso e vorrei vedere, anche a caccia, richiami efficienti, fermi al frullo, riporti impeccabili e, magari, come i tanti esteti che popolano la cinofilia italiana, anche un bel galoppo ma… senza arrivare a pretendere la perfezione, sarebbe sufficiente vedere cane e padrone lavorare insieme, con un cane messo in condizione, ovvero preparato ed addestrato, a eseguire le richieste del padrone.

Invece cosa vedo? Vedo per lo più padroni che si “arrabbiano” con cani che non sanno nemmeno di aver sbagliato, né hanno la minima idea di come si dovrebbero comportare per fare felici il padrone. Si dà contro al cane senza provare a pensare “da cane” e senza cercare di vedere il cane per quello che è.

Il cane è A) un semplice strumento di caccia o, nel caso della caccia cinofila, è B) esso stesso la caccia? Ciascuno provi a rispondere come meglio crede. Essendo arrivata alla caccia attraverso il cane, rispondo B, il che mi porta inevitabilmente a vedere il cane, e le cose attorno al cane, in un certo modo.

Questa mia personalissima visione mi spinge a chiedermi, come mai una buona fetta di cacciatori continui a trattare, consciamente, ma anche inconsciamente, il cane come uno strumento di caccia e non come quella risorsa fondamentale che permette alla caccia (con il cane) di esistere. Vedo cani alimentati con mangimi di scarsa qualità, perché costano poco; cani che, nel 2019, vivono ancora in “serragli”, fatti con avanzi di materiali edili arrugginiti; cani che hanno il mantello talmente infeltrito, da ferirsi con le semenze annodate nel pelo; cani derisi e buttati via senza motivo, se non la sfortuna di essere capitati nel serraglio sbagliato.

E boh… di certo il cane non va idolatrato, bambinizzato e dementizzato, come sbagliano fare tanti proprietari di cani da compagnia, ma la categoria “cacciatori”, che ha ancora l’incommensurabile fortuna di poter far svolgere ai propri cani i lavori per cui sono nati, un po’ di gratitudine e devozione, nei confronti di cani che si mettono al loro totale servizio, dovrebbe imparare a mostrarla.




Il periodo giovanile e lo sviluppo di paure

Il Periodo Giovanile viene fatto iniziare a 12 settimane (presunto termine del Periodo di Socializzazione) e fatto terminare a 6 mesi o, tenendo conto della velocità di maturazione propria di ciascuna razza, al raggiungimento della maturità sessuale (Serpell et al., 2017). Gli effetti di ciò che accade in questa fase sulla futura personalità del cane sono stati studiati relativamente poco (Serpell et al., 2017), ma alcuni lavori presenti in letteratura (Dehasse, 1994; Foyer et al., 2014; Serpell e Duffy, 2016) parrebbero confermare che le esperienze vissute nell’arco del Periodo Giovanile possano influenzare in maniera duratura quello che sarà il comportamento di un soggetto. Fox (1971 e 1978), Woolpy e Ginsburg (1967) e Woolpy (1969) hanno altresì rilevato che i cuccioli, sia di lupo che di cane, socializzati all’età di 3 mesi devono continuare a ricevere rinforzi sociali periodici fino a 7 o 8 mesi di età; in caso le stimolazioni vengano a mancare, essi sono portati a regredire. Un cucciolo correttamente socializzato fino all’età di 8 settimane e poi ceduto, può trasformarsi un soggetto timido, pauroso e difficile da addestrare se lasciato isolato in canile durante il Periodo Giovanile (Argue, 1999).

Studi compiuti sui roditori aprono inoltre a nuove prospettive sull’importanza del Periodo Giovanile poiché, in queste specie, interventi correttivi (arricchimento ambientale) durante la pubertà sono stati in grado di eliminare completamente gli effetti dello stress in età precoce sull’asse HPA (Francis et al., 2002).

Nella letteratura cinofila popolare si legge di un secondo e addirittura di un terzo “periodo della paura” che seguirebbe il “primo periodo della paura” (prima risposta motoria di evitamento e paura) generalmente collocabile attorno ai 49 giorni di vita (Coppinger e Coppinger, 2001). Coloro che, in maggioranza addestratori ed educatori, rintracciano un secondo, e addirittura un terzo, “periodo della paura” non indicano con precisione l’arco temporale in cui esso si verifica all’interno del Periodo Giovanile, ma questo può essere imputabile a differenze di maturazione in relazione alla razza e all’individuo (Stewart, 2016). Sebbene siano riportare reazioni di paura improvvise ed eccessive da parte di cuccioli di età compresa tra i 6 e i 18 mesi, non esiste, al momento, alcuna letteratura scientifica sull’argomento (McAuliffe, 2016).  Questi periodi della paura secondari sono collocati nell’adolescenza, un momento caratterizzato da profondi cambiamenti fisiologici (Heim e Binder, 2012) e che coincide nel momento in cui lupi e cani rinselvatichiti lasciano il nucleo famigliare (McAuliffe, 2016).

In relazione allo  sviluppo di paure, tra cui la paura dello sparo, anche il Periodo Giovanile è importante: i cani di età superiore alle 12 settimane che continuano a vivere relativamente isolati all’interno di allevamenti e canili sviluppano quella che è comunemente chiamata “sindrome da canile”, ovvero livelli anormali di timidezza nei confronti di persone e situazioni nuove (Appleby et al., 2002; Serpell e Jagoe, 1995; Pfaffenburger e Scott, 1976; Grandin e Johnson, 2005).

Argue (1999), nel suo volume dedicato alle razze setter e pointer, racconta di numerosi soggetti “rovinati” perché lasciati isolati in canile durante il Periodo Giovanile. Egli racconta di cuccioli correttamente socializzati che, una volta ceduti ai nuovi proprietari, venivano lasciati in canili isolati fino a circa 8 mesi di età. Questi cani diventavano timidi, “selvatici”, timorosi nei confronti dell’uomo e difficili da addestrare. Racconta altresì di un cane da lui ri-adottato ad un anno di età e riabilitato a fatica alla pratica venatoria dopo 6 mesi di rieducazione. Questo dimostra che, se ciò che è stato appreso durante la fase sensibile non viene rinforzato, come accaduto a questi soggetti, il cane può regredire (Shepherd, 2004).

Fox e Stelzner (1966) hanno lavorato per comprendere se nel corso dei periodi sensibili ci fossero dei momenti di particolare sensibilità e hanno riscontrato una maggiore vulnerabilità (maggior sensibilità allo stress, alla paura e al dolore fisico) nei cuccioli di 8 settimane. Questo dato è molto importante perché è proprio a 8 settimane che la maggior parte dei cuccioli lascia il luogo e la famiglia d’origine per iniziare una nuova vita: questo passaggio traumatico e stressante in questa fase sensibile può esitare in problemi comportamentali (Serpell et al., 2017).

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Bibliografia: 

Appleby D. L., Bradshaw J. W. S. e Casey R. A. (2002). Relationship between aggressive and avoidance behavior by dogs and their experience in the first six months of life. Veterinary Record, 150: 434–8.

Argue D. (1999). Setters and pointers. Swan Hill Press, Shrewsbury, UK.

Dehasse J. (1994). Sensory, emotional and social development of the young dog. Bulletin for Veterinary Clinical Ethology, 2: 6–29.

Coppinger R. e Coppinger  L. (2001). Dogs: a startling new understanding of canine origin, behavior, and evolution. University of Chicago Press, Chicago, USA.

Foyer P., Bjällerhag N., Wilsson W. e Jensen P. (2014). Behaviour and experiences of dogs during the first year of life predict the outcome in a later temperament test. Applied Animal Behaviour Science, 155: 93–100.

Fox  M. W. (1971). Behavior of wolves, dogs and related canids. Harper and Row, New York, USA.

Fox  M. W. (1978). The dog: its domestication and behavior. Garland STPM Press, New York, USA.

Fox M. W. e Stelzner D. (1966). Behavioral effects of differential early experience in the dog. Animal Behavior, 14: 273–81.

Francis D. D., Diorio J., Plotsky P. M. e Meaney M. J. (2002). Environmental enrichment reverses the effects of maternal separation on stress reactivity. Journal of Neuroscience, 22: 7840–3.

Grandin T. e Johnson C. (2005). Animals in translation. Using the mysteries of autism to decode animal behavior. Hartcourt, Orlando, USA.

Heim C. e Binder E. B. (2012). Current research trends in early life stress and depression: Review of human studies on sensitive periods, gene-environment interactions, and epigenetics. Experimental Neurology, 233: 102–11.

McAuliffe L. (2016). A second fear period. Paws for thought https://dogidogblog.wordpress.com/2016/07/16/a-second-fear-period/ Accesso il 12/04/2018

Pfaffenberger C. J., Scott P.,  Fuller J. L., Ginsburg B. E. e Bielfelt  S. W. (1976). Guide dogs for the blind: their selection, development and training. Elsevier, Amsterdam, The Netherlands.

Serpell J. ed. (2017). The domestic dog its evolution, behaviour and interactions with people. 2nd Ed. Cambridge University Press, Cambridge, UK.

Serpell J. A. e Duffy D. L. (2016). Aspects of juvenile and adolescent environment predict aggression and fear in 12 month-old guide dogs. Frontiers in Veterinary Science, 3: 49. doi: 10.3389/fvets.2016.00049.

Serpell J. e Jagoe A. (1995). Development of behaviour. In: Serpell J. (Ed.) The domestic dog its evolution, behaviour and interactions with people. 1st Ed., 80-102. Cambridge University Press, Cambridge, UK.

Shepherd K. (2004). Sviluppo del comportamento, comportamento sociale e comunicazione nel cane. In:  Horwitz D.F.,  Mills D.S.,   Heath S. (Eds.), Palestrini C. (Tr.) Terapia comportamentale del cane e del gatto. UTET Scienze Mediche, Torino, Italia.

Stewart T. (2016). A second fear period. Paws for thought https://dogidogblog.wordpress.com/2016/07/16/a-second-fear-period/ Accesso il 11/04/2018

Woolpy J. H. e Ginsburg B. E. (1967). Wolf socialization: a study of temperament in a wild social species. American Zoologist, 7: 357–63.

Woolpy J. H. (1968). The social organisation of wolves. Natural History, 77: 46–55.




La paura dello sparo vista dalla scienza

Per natura, tutti gli animali sono spaventati dai rumori improvvisi, e più in generale da tutto ciò che è nuovo e improvviso (Grandin e Johnson, 2005), ma Bradshaw (2011) spiega che l’udire fuochi d’artificio durante il Periodo della Socializzazione, o durante le prime settimane del Periodo Giovanile, riduce il rischio che i cuccioli sviluppino il timore di rumori forti. Al contrario, cuccioli che non hanno l’opportunità di udire spari o suoni forti in queste prime fasi di vita, sono più suscettibili allo sviluppo di fobie legate ai rumori.

Della stessa opinione sembra essere Pageat (1999), che addirittura titola un paragrafo “Il mito del gene della paura del fucile”. Secondo l’autore, infatti, i cinofili tendono a ricondurre questo atteggiamento alla genetica, quando in realtà le reazioni negative alle prove di sparo, come quelle presenti nei TAN (Test d’Aptitude Naturelle), devono essere imputate a un’errata preparazione a questo test (Pageat, 1999). I ricordi legati alla paura, negli animali, sono permanenti, poiché vengono stoccati nella memoria come immagini, suoni, sensazioni tattili e odori (Grandin e Johnson, 2005). Una sbagliata introduzione al colpo di fucile può altresì portare a ulteriori fobie nei confronti dei rumori, perché gli animali sembrano super-generalizzare attraverso il senso, in questo caso l’udito, ciò che li ha spaventati per la prima volta (Grandin e Johnson, 2005).

Il patrimonio genetico codifica alcune caratteristiche del cane, ma non tutte e tra queste non le più sottili sfumature comportamentali. Tra quanto codificato geneticamente possiamo, invece, trovare una certa suscettibilità emozionale, la propensione a sviluppare turbe dell’umore, la propensione a sviluppare segnali facciali piuttosto che corporei. Si può parlare di “promessa genetica” che è destinata ad influenzare comportamento del cane per circa il 20%, mentre il restante 80% è legato all’influenza ambientale durante i periodi critici (Pageat, 1999). In altri termini è corretto parlare di una possibile maggiore sensibilità a stimoli sonori che, tuttavia, non è destinata a sfociare in una fobia se il cane è introdotto ai rumori con la giusta modalità e tempistica. Pageat (1999) non concorda sull’attribuire a determinate razze specifici modelli comportamentali, mentre il parere di Grandin e Johnson (2005) è più sfumato. La studiosa parla di animali “flighty” che, per esempio, sono più portati a esprimere comportamenti dettati dalla paura (border collie, cani di piccola taglia e cavalli arabi), mentre altri sarebbero meno inclini a spaventarsi (rottweiler e quarter horse). La tendenza a fuggire e a sobbalzare sarebbe determinata geneticamente, ma il livello di percezione della paura varia ampiamente all’interno di una specie animale, e anche all’interno di una razza (Grandin e Johnson, 2005). Gradin e Johnson (2005) ipotizzano altresì una relazione tra aspetto fisico e comportamento e pone tra le caratteristiche fisiche associate a comportamenti legati alla paura un’ossatura leggera e, nei cavalli e nei bovini, una rosa sulla fronte posizionata più in alto rispetto al livello degli occhi.

Uno studio pubblicato nel 2016 (Overall et al., 2016) parrebbe confermare una maggiore reattività ai rumori in certe razze e in determinate linee di sangue. Questo lavoro ha preso in esame 50 australian shepherd, 81 border collie e 58 pastori tedeschi di cui è stata analizzata la reattività a rumori forti e improvvisi: spari, tuoni e fuochi d’artificio. I ricercatori hanno raccolto dati sui comportamenti dei cani attraverso questionari e fotografie e li hanno comparati per tipo, frequenza e intensità. È stata altresì usata una scala per la misurazione dell’ansia Anxiety Intensity Rank (AIR) ed è stata inclusa un’analisi genetica. A conclusione dello studio è emersa una segregazione della reattività per linee genetiche (sebbene la frequenza delle reazioni da parte del singolo soggetto potesse cambiare) e che sia gli australian shepherd che i border collie presentavano una maggior reattività ai rumori forti rispetto ai pastori tedeschi.  Le reazioni variavano altresì in base alla provenienza del cane e allo scopo per il quale era stato acquistato (Overall et al., 2016).

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Bibliografia:

Bradshaw J. (2011). In defence of dogs: why dogs need our understanding. Penguin, London, UK.

Grandin T. e Johnson C. (2005). Animals in translation. Using the mysteries of autism to decode animal behavior. Hartcourt, Orlando, USA.

Pageat P. (1999). L’homme et le chien. Odile Jacob, Paris, France.

Overall K.L,  Dunham A.E., Juarbe-Diaz S.V. (2016). Phenotypic determination of noise reactivity in 3 breeds of working dogs: A cautionary tale of age, breed, behavioral assessment, and genetics. Journal of Veterinary Behavior 16 , 113-125.

 




La paura dello sparo: ulteriori considerazioni

L’articolo sulla paura dello sparo, come prevedibile, ha suscitato forti reazioni. Diciamo che l’avevo previsto ma… avrei sperato in un filo in più di apertura mentale e, invece,  molti lettori hanno ritenute insensate le conclusioni a cui è giunta l’etologia moderna. Inconsciamente, questa è una scelta di comodo perché è molto più semplice incolpare i geni (la fattrice, lo stallone, l’allevatore…) che prendersi le proprie responsabilità.  Riconoscere il ruolo dei fattori ambientali nella genesi della paura del fucile, infatti, implica assumersi delle colpe, se il cane è un fifone, o darsi da fare se stiamo crescendo un nuovo cucciolo.

Le obiezioni? “Io non ho mai fatto nulla per presentare al cane i rumori, l’ho portato fuori all’apertura, si è alzato un volo di starne, gli ho fatto una scarica di fucilate sulla testa e non è successo nulla! Sono tutte ….. la socializzazione e tutto il resto!” Nell’articolo originario, se l’avessero letto bene, queste persone avrebbero trovato la parte in cui dico che si può essere molto fortunati e ritrovarsi con un cane che non accusa il colpo di fucile, nonostante non si sia fatto nulla di particolare per prepararlo a tanta confusione.  Come mai? Può essere pura fortuna o, può anche essere, il che è molto più plausibile,  che il cane sia stato esposto a stimoli rumorosi senza che ciò sia stato pianificato. Magari avete spaccato la legna in sua presenza, azionato la motosega, il trattore, il toserba, magari è nato in estate e c’erano spesso temporali,eccetera. Cani che vivono in prossimità dell’uomo spesso vengono esposti ai rumori senza che lo si debba fare “apposta”.

Qui si inserisce la seconda critica all’articolo un tempo i cani non venivano esposti ai rumori, né socializzati eppure erano normali”… Questo è un falso mito.  Un tempo, parliamo di quasi un secoletto fa, i cani da caccia erano quasi tutti di proprietà di “signori” che li facevano accudire da personale apposito: è assai improbabile che questi soggetti avessero scarse interazioni con l’uomo. Parallelamente, e più tardivamente, anche persone di medio e basso reddito hanno iniziato ad andare a caccia con il cane, ma si trattava quasi sempre di contadini con il classico segugetto da pagliaio che, comunque, partecipava alla vita della fattoria vivendo a stretto contatto con l’uomo e quindi come rumore.

I  cacciatori appartenenti alla classe media e bassa hanno iniziato, almeno in Italia, ad avere cani di razza a partire dal secondo dopo guerra, direi più spiccatamente dagli anni ’60 e, a quell’epoca, non esisteva nemmeno ancora l’idea dell’allevamento a fini commerciali. I primi grossi allevamenti, alcuni tuttora attivi, stavano gettando le fondamenta ma, in generale, le cucciolate erano ancora cose per ricchi (provvisti di staff specializzato),  o faccende di famiglia, con tanto di pargoli saltellanti attorno ai cani. Cuccioli e uomini, insomma, vivevano a stretto contatto.

Le cose sono cambiate, dopo, con i cani che iniziavano ad essere intesi come fonte di reddito, il che ha portato ad allevarli in maniera più “intensiva”  e la qualità delle cure è scesa:  a volte ci si trova con più cucciolate da accudire contemporaneamente, a volte le strutture in cui crescono sono lontane dai rumori, eccetera eccetera. Anche il cacciatore è cambiato:  c’è chi vive in appartamento e non può tenere il cane in città e lo lascia crescere in qualche recinto isolato in periferia. C’è chi ha la villetta, ma siccome il cucciolo rovina il giardino lo si mette in un box in fondo all’orto. Poi si rientra tardi alla sera, stanchi da lavoro e non si trascorre del tempo con lui, anche se si tratta del figlio di campioni di altissima genealogia, pagato fior di soldi,  e non di un cane da pagliaio qualunque.

Se il cucciolo fosse un meticcetto di paese, forse, le cose sarebbero più semplici per lui: gli appartenenti ad alcune razze canine moderne  sono l’equivalente di un purosangue con la relativa ipersensibilità, se selezioniamo cani reattivi, loro saranno reattivi anche quando ciò diventa scomodo!  I cani, i tempi e i contesti sono cambiati, perché gli uomini si ostinano a non cambiare? Non dovrebbe forse esserci una maggior sensibilità nei confronti del cane? Non dovrebbe, il cane, essere un amico prima di essere un ausiliare? Non dovremmo noi, suoi proprietari, fare qualche piccolissimo sacrificio per crescerlo al riparo da paure, anziché insistere con l’allevatore per avere “un cambio di prodotto”, se il cucciolo sviluppa la paura del fucile? Credo sia nostro dovere morale, viste le moderne conoscenze etologiche, offrire al cucciolo tutte le risorse per aiutarlo a crescere bene e limitare il rischio che si manifestino problemi come la paura del fucile.

Allego, per i curiosi, un articolo de “I Nostri Cani” del 1968 in cui si riportano i consigli del noto  addestratore Gino Puttini. Si parla di paura dello sparo e di come recuperare (e sottolineo recuperare, non scartare!) i cani. Il pezzo ha quasi 50 anni q quindi ci sta che si pensasse ancora alla genetica, sebbene siano ben menzionate anche le cause ambientali, lo ripropongo più che altro come curiosità storica. Si tratta di una foto “stropicciata” perché la rivista è molto debole e non sopravvivrebbe. PS. Non dimenticatevi di dare un’occhiata al Gundog Research Project!




Esiste il gene della paura del fucile?

Ne ho già parlato in diverse occasioni (come per esempio nello speciale Il Mio Cucciolo) e, di solito mi innervosisco a ripetere sempre le stesse cose ma, poco fa, ho aperto un thread su un forum di cinofilia venatoria e mi sono accorta che, nonostante gli anni passino, nulla è cambiato. Stavo rispondendo rapidamente a quel thread quando la finestra del browser si è chiusa, ripartiamo da qui.

Tutti corrono a comprare, accoppiare e accumulare cani ma nessuno fa il minimo sforzo per informarsi, in questo caso poi, se non si vuole leggere, a volte basterebbe ragionare. Cito infatti il francese Patrick Pageat (L’homme et le chien – L’uomo e il cane, nell’edizione in italiano), veterinario nonché noto studioso di comportamento canino: “Come può esistere la paura del colpo di fucile quando, nel periodo in cui ebbe origine il cane, il fucile non esisteva? Può, Madre Natura essere stata così previdente?”

Direi di no, eppure alcuni cani hanno paura dello sparo, perché? Non sono “tarati”, detesto questo termine e darei del tarato a chi lo utilizza, la spiegazione è più raffinata, nonché meno semplice. Sappiamo che esistono individui (anche all’interno della specie umana), più sensibili di altri. Questo ci porta a pensare che esistano cani più sensibili a determinati stimoli, ad esempio il rumore, rispetto ad altri. Questa maggiore sensibilità può avere basi genetiche? Possibile, anzi probabile, oserei dire. Di fatto, ho riscontrato un maggior numero di soggetti con “paura dello sparo” in alcune razze rispetto ad altre e, sempre in queste razze, i cani erano più difficili da recuperare rispetto ad altri, il tutto sempre da intendersi come generica generalizzazione. In linea di massima, i “sensibili” erano soggetti molto reattivi, definibili, con un termine, forse inappropriato, “nevrili”. Un certo tipo di selezione porta a privilegiare velocità, reattività, nervi a fiori di pelle e quindi anche “sensibilità”: se paragoniamo il comportamento di un mastino napoletano a quello di un setter… non sono proprio la stessa cosa!

Prima di parlare di paura, tuttavia, dovremmo parlare di sensibilità: ci sono soggetti più sensibili a stimoli sonori? Sì, ma essere sensibili a qualcosa non significa averne il terrore, quello si sviluppa sulla sensibilità, a seguito di fattori esterni. Oltre ad essere sensibili, cos’altro avevano in comune i cani che avevano sviluppato paura dello sparo? Altri elementi avevano giocato a loro sfavore? Sì: in primis una socializzazione sommaria. Non è questa la sede per definire ed illustrare il concetto di socializzazione, lo farò forse in futuro e nel frattempo vi invito a googlare, il punto è che i cuccioli vanno socializzati e, tanto, ma il cacciatore/allevatore lo fa un po’ a macchia di leopardo. Il cane da caccia “medio”, nasce e cresce in canile, in campagna, lontano da particolari problemi e da particolari stimoli. L’ambiente che lo circonda, in genere, è piuttosto silenzioso e ciò non lo prepara a sufficienza alla futura attività venatoria.

Errore numero due, il cucciolo, oltre a non essere socializzato a sufficienza nei primissimi mesi di vita, viene lasciato maturare in box nella convinzione che, lavorandolo prima, si “rovini”. Moltissime persone non fanno fare niente al cane fino a 7-8 mesi, o più. Raggiunta quella età caricano il cane in macchina (magari non ci è mai andato prima, se non per recarsi una volta dal veterinario) e lo “testano” con qualche quaglia sullo sparo o, peggio, lo portano direttamente a caccia, magari il giorno dell’apertura, o durante un’allegra zingarata in riserva.

E qui possono succedere due cose: a) il cane ha nervi d’acciaio (e il proprietario è molto fortunato) e tutto fila liscio, nonostante esistano tutte le premesse per il disastro o b) il cane si spaventa, succede il disastro e ci si trova per le mani un soggetto con “la paura dello sparo”. I modi e i metodi di custodia del cane che ho descritto sopra, non sono inventati, purtroppo, anzi e ho conoscenti che sono recidivi e che ad ogni nuovo cucciolo, si ritrovano con un cane timoroso dello sparo: è davvero solo sfortuna? Possibile che ad alcuni non capitino mai cani con paura dello sparo e altri cacciatori solo cani “tarati”? (Le eccezioni in eventuale loro possesso sono, in questo caso, cani acquistati già adulti).

Vi riporto un altro esempio tratto da una storia vera. Il signor Rossi acquista cucciola di alta genealogia eccetera eccetera e la fa crescere in canile/giardino. Dopodiché, le presenta il solito selvatico e la solita fucilata: disastro. Negli anni successivi la canina viene più o meno recuperata (con metodi piuttosto empirici…) ma, visto il problema, l’allevatore offre una seconda cucciola, sorella della prima. La cagnolina, questa volta, viene socializzata molto bene e stimolata correttamente durante la crescita: non presenta alcun timore dello sparo e a caccia è ben più spavalda della sorella con cui condivide gli stessi geni.

Chi avesse obiezioni può continuare a leggere qui.

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