Quattro Passi Dentro Casa: l’Enciclopedia del Cane

L’Enciclopedia del Cane sta sulla libreria a nord-ovest, quella anni ’80, ma di design. È stata collezionata con lentezza, fascicolo per fascicolo Frequentavo ancora le scuole elementari, ma già leggevo cose di una pesantezza indescrivibile. Ogni settimana arrivava un fascicolo nuovo che io andavo a ritirare dal giornalaio. I due giornalai che si sono succeduti durante la raccolta dei fascicoli avevano un entrambi un cognome che finiva in -oni e mi conoscevano benissimo: l’editoria necessita di clienti come me. Le enciclopedie, a quei tempi, funzionavano in maniera un po’ macchinosa: ogni settimana arrivava un fascicolo nuovo da ritirare dal giornalaio, poi, ogni tot fascicoli si ordinava al giornalaio la copertina.  Quando la copertina arrivava, si riportavano i fascicoli dal giornalaio che li mandava, insieme alla copertina, dal rilegatore. Dopo un tempo variabile, i fascicoli tornavano rilegati in un volume, ben avvolti nella carta da pacco. Per andarli a riprendere serviva tornare nuovamente in edicola, anzi spesso ci si andava più volte per sapere se fossero arrivati. L’edicola, insieme al supermercato, era l’anima del quartiere: dell’edicola resta solo il casottino, del supermercato l’edificio, ora occupato dalla farmacia e da un poliambulatorio.

Quando l’enciclopedia è iniziata, non avevo ancora un cane mio, sebbene lo desiderassi più di ogni altra cosa, la fissa per i cavalli è venuta dopo. Mentre imparavo a conoscere le razze attraverso l’enciclopedia, cercavo di capirle anche dal vivo, ma c’era un problema: a me piacevano i cani da caccia, l’enciclopedia partiva dai cani da pastore (Gruppo I), e procedeva lentissima verso il Gruppo VII (Cani da Ferma). Nel frattempo, cercavo di conoscere i cani del quartiere: quasi tutti appartenevano al Gruppo II ed erano stati comprati per fare la guardia. Ricordo schnauzer, rottweiler, dobermann, maremmani e qualcosa del Gruppo I, pastori tedeschi per lo più, e in pastore belga Tervuren, poi morto di piroplasmosi, che oggi chiamiamo babesiosi.

Arrivata al quarto volume dell’enciclopedia, ho scoperto i cani nordici, che in quegli anni iniziavano a andare molto di moda. Mi piaceva il samoiedo: tutto bianco e orsettoso al punto giusto. Lo chiamano il cane che sorride, peccato che abbai altrettanto. In strada, tuttavia, si vedevano solo husky, rigorosamente neri e bianchi, e con gli occhi azzurri, e alcuni chow. Mi piaceva anche il groenlandese che, tuttavia, l’enciclopedia sconsigliava di prendere come animale domestico. Invece, chissà perché, taceva di dire la verità sugli husky, che nel frattempo invadevano le case degli italiani, con esiti non sempre fausti. Qui gli husky non hanno mai rischiato di entrare: nessuno aveva intenzione di comprarmi un cane, tantomeno un cane da slitta.

Mentre l’enciclopedia mi propinava bassotti, terrier e segugi, e io volevo sapere tutto dei cani del Gruppo VII, i cani da ferma hanno trovato me. Il giovane esploratore, ovvero fuggiasco, era una un Deutsch Drahthaar, che aveva imparato a scappare dalla sua cuccia a igloo, dal suo serraglio, e dal suo giardino, per venirmi a trovare. Il problema era che puzzava quanto le fognature di una metropoli del sud-est asiatico e trasferiva tutti i suoi aromi su di me. Però, a patto che non mi ci strusciassi troppo addosso, avevo ottenuto il permesso di portarlo in giro per il quartiere. Io frequentavo ancora le scuole elementari e lui era più grosso e saggio di me, andavamo insieme in edicola, e poi lo riportavo, a malincuore, nel suo serraglio. Almar, così si chiamava, dopo qualche mese di amicizia è sparito, prima sostituito da un setter blue belton, e poi da una pointerina bianca e arancio. Temo sia stato l’odore a fregarlo: non sarei mai riuscita a convincere mia madre che lavandolo sarebbe diventato inodore, così niente drahthaar, anche se la razza avrà sempre un posticino nel mio cuore.

In quegli anni, mio zio, storico e fedelissimo kurzhaarista (allora li chiamavano bracchi tedeschi, o brac tudesch), si era portato a casa un setter irlandese incontrato in campagna: l’aveva seguito fino all’auto, era molto bello e aveva deciso di dargli una possibilità. Ricordo che era bellissimo, che si chiamava Rosso, e che è vissuto, se non sbaglio, fino ad almeno 17 anni. Però, ricordo di aver pensato qualcosa del tipo: “umm sì, bello, molto bello, ma qualcosa non mi torna, troppo appariscente”. Il bracco tedesco, al contrario, mi sembrava troppo essenziale; il pointer aveva qualche carattere distintivo in più, ma restava pur sempre un cane a forma di cane, con quattro peli addosso. Il gordon? No! Troppo scuro e massiccio! Il bracco italiano? Ma, sembra un segugio! Insomma, già allora non sapevo farmi andare bene niente!

Invece, il setter inglese… intrigante e setoso, ma non troppo, era la giusta via di mezzo.  La maggior parte degli inglesi presenti nel settimo volume, di otto, era bianca e nera (blue belton): io ero rimasta colpita dal bianco arancio “Lindo della Bassana”.  I miei, che già avevano dribblato il drahthaar, avrebbero fatto a meno anche del setter, eppure ero quasi riuscita a convincerli: c’era una setterina blue belton al canile municipale e sono andata a vederla con mio padre, che ha cercato di prendere tempo.

Pochi giorni dopo, non fidandomi delle promesse di nessuno, ho raccattato il primo randagio (che probabilmente non era tale) avvistato transitare per il quartiere. Era blue belton, aveva una bellissima coda frangiata da setter e fermava e guidava proprio come un’inglese. Il pelo arruffato e la “durezza” ne tradivano le origini, almeno in parte, teutoniche. Tommaso, così si chiamava, era molto probabilmente mezzo setter e mezzo schnauzer: all’eleganza del primo, univa la serietà e la predatorietà del secondo. Sul suo diario di caccia sono segnati topi, talpe, galline, bisce, gatti… mai altro mio cane fu così spazzino.

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Quattro passi dentro casa: il non prato a nord-est

Il non prato a nord-est assomiglia molto a un campo da beach volley. C’è tanta, tanta sabbia e solo qualche spavaldo ciuffetto d’erba. Ripensandoci, ci sono anche due o tre margherite. Eppure, è stato un prato, e prima, ancora è stato sia un prato che un orto. L’orto è ben fissato nella memoria: mi mancano le verdure genuine, ma non le zolle da coltivare. Ho sempre schivato l’orticoltura, nonostante fosse la grandissima passione di mio nonno: lui aveva un grande orto rigoglioso che era la meta preferita dei suoi conigli in fuga.  Da bambina ho passato alcune estati coi nonni: in caso di fuga, l’allerta veniva estesa alla famiglia e ai vicini, a cui veniva richiesto di impegnarsi nella cattura, ma io tifavo per i conigli. L’orto di casa l’ho vissuto il meno possibile ma, quando è stato necessario, pena la moria delle piante, ho cercato di provvedere alla sua irrigazione, con esiti quasi sempre disastrosi. La canna dell’acqua finiva quasi sempre con lo sbattermi addosso, così che la terra si trasformava in fango e, per bagnare 20 metri quadri di terreno, mi inzaccheravo fino ai capelli. E poi… Premesso che ho paura di api, vespe e calabroni, vogliamo parlare di zanzare? Avete presente quante zanzare ci siano nella zona di Pavia? Non credo, ma se siete convinti di saperlo, immaginate il numero che avete ipotizzato e moltiplicatelo per quattro. La cifra ottenuta è presente h 24, come il Carrefour, che è sempre aperto, le zanzare moderne non si fanno problemi di orario.  In compenso, amano moltissimo l’acqua se vi mettete a bagnare l’orto arrivano a sciami.  La mia carriera di bagnatrice di orti, infatti, è finita prima di cominciare: i pomodori vanno bagnati dal basso, quell’altra cosa dall’alto, questo va bagnato pochi minuti, quell’altro di più… Che se c’è una cosa che non ho mai sopportato è la terra sotto alle unghie. Ho lucidato cavalli, infilato mani all’interno di bovini, raccolto quintali di deiezioni canine, ma la terra sotto alle unghie mi dà fastidio. Forse dovrei ringraziare le bollette dell’acqua che hanno iniziato a salire e l’orto a restringersi. Ho cercato di salvare un’aiuoletta di fragole, ma i cuccioli hanno sconvolto i miei piani. Le creature hanno anche ucciso il ciclamino, che ero riuscita a fare sopravvivere per quasi 5 anni. Cani, uh? Bell’affare!

Nel non prato, nella parte che fu orto, è anche seppellita una cucciolina appena nata, quella tutta bianca con le orecchie nere che pensavo di tenere per me. Ci sono anche le “tombe” dei pesci rossi. La mia carriera con gli animali è iniziata proprio dai pesci, meno dispendiosi e invadenti dei cani, e dei cavalli, a cui sono passata successivamente. Mi ricordo un funerale fatto per il pesce rosso, che era stato avvolto in uno straccio in cotone (come si fa con i pesci appena pescati) e messo in una scatola di biglietti da visita. Piovigginava, e avevo invitato alla cerimonia un paio di vicine di casa, che credo sarebbero state più volentieri a casa. 

Il non prato è anche l’area dove si stendono i panni. Dovete sapere che io non ho un’asciugatrice e, di conseguenza, ho sviluppato un’adorazione per questi elettrodomestici. In verità ammiro tutti gli elettrodomestici che se la cavano da soli, però… c’è anche una coscienza ecologica e risparmiosa. La Greta che è in me mi impedirebbe di asciugare i panni in asciugatrice durante una giornata di sole, ma se piove?  Per soddisfare la mia passione per le asciuagatrici, da un po’ di anni a questa parte, ogni volta che vado in Inghilterra, mi premuro di trovare una casa con l’asciugatrice. E mi diverto un sacco ad attaccare, contemporaneamente, asciugatrice, lavatrice, forno e asciugacapelli, roba che in Italia ti si fulmina il contatore!

Tornando al non prato, abbiamo, come dicevo, una parte che fu orto, e una parte che fu esclusivamente prato e “area cani”. Questa zona del giardino, infatti, era stata recintata per poterci lasciare il mio primo cane, Tommaso, un meticcio blue belton, mezzo setter e mezzo schnauzer. Tommaso aveva il vizio di scappare “per andare a gatti” (ricordava dove abitavano tutti i gatti del quartiere), così avevamo pensato di creare un’area a prova di fuga in cui lasciarlo quando non eravamo in casa. Mio zio gli aveva anche fatto una cuccia triangolare e post-moderna, dipinta di grigio, cuccia nella quale non credo sia mai entrato.  Non ricordo sia nemmeno stato da solo nella parte del giardino che gli era stata assegnata: stava molto più volentieri in casa.

Eppure, lì c’era un prato e una grossa quercia alla quale, per diversi anni, quando le zanzare giravano solo di notte, veniva attaccata un’amaca. Adesso ci sono delle siepi, dei mughetti, dei fiori LIDL che avevo acquistato come sementi e lanciato in giro a casaccio (perfettamente nel mio stile). C’è anche una recinzione che la “Lillina” cerca ostinatamente di scavalcare, infatti scrivo dal giardino mentre controllo quel che fa. Chi ha ucciso il non prato? Tante cose e nessuna: un po’ lo hanno rovinato i cuccioli, un po’ i muratori, un po’ il gran caldo. Il risultato è una distesa di sabbia che, a sua volta porta sabbia in tutta la casa.  Il mio approccio nei confronti della vegetazione è sempre stato quello di lasciarla crescere come cresce, senza intervenire, però, forse, adesso, il non prato ha bisogno di un supporto, questa volta non solo morale.

È in circostanze simili che riscontro tutti i miei limiti: non capisco niente di prati ma, soprattutto, non capisco perché il prato pubblico, che nessuno cura, sta benissimo e il mio fa schifo? Come va resistere l’erba sugli argini, che resta perfetta anche dopo le inondazioni? Sta il segreto nel limo della Mesopotamia? Sono il Po’ e il Ticino i fratelli minori del Tigri e dell’Eufrate? Siccome l’ultima cosa che voglio è diventare schiava del prato, ho iniziato a raccogliere informazioni sui prati a bassa manutenzione: mi serve un prato che sia resistente quanto una gettata di cemento. Della semenza “prato rustico” usata per re-forestare la parte frontale del giardino, non ho piena fiducia, mi sembra rustica quanto un Milanese fuggito a Cervinia per il lock down.  La scelta è pertanto caduta sulla semenza “Maciste”, un misto di festuca e non so cosa che lancerò in maniera assolutamente casuale e scriteriata tra la sabbia. Il venditore mi ha assicurato che va d’accordo con i cani, che non beve, che vive d’aria e che sopporta sia il caldo che il freddo. Se così sarà, il non prato tornerà ad essere prato.

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Quattro Passi Dentro Casa: La libreria a sud, il secondo piano

I piani, in questo, caso li contiamo dall’alto: contarli dal basso è complicato. A causa delle microscopiche dimensioni della stanza (piena di libri), il divano dell’Avanella, impatta direttamente contro la libreria a sud, nascondendone i piani bassi. Il ripiano di cui si parla, sta appena sotto a quello che io chiamo “piano attico”. Sul tetto della libreria non c’è granché da dire perché, a colpi di feng shui, sono riuscita a svuotarlo. Prima ci stava una beccaccia imbalsamata che non riuscivo più a gestire perché accumulava troppa polvere. Così, anche perché il feng shui sconsiglia gli imbalsamati, e i fiori secchi, l’ho regalata a chi la sapeva apprezzare.

Ma torniamo ai libri, questo ripiano assomiglia a una pizza, ma di quelle più improbabili. Così come su certe pizze potete trovare mozzarella, prosciutto ed ananas, qui andiamo dalla grammatica tedesca all’oncologia veterinaria, passando per la medicina complementare e le tecniche di scrittura creativa, un bel casino! Però, mi rappresenta benissimo. Parliamo un po’ di questi eterogenei inquilini. La grammatica tedesca: ho fatto un breve corso di tedesco, non ho imparato granché ma, la motivazione che mi ha spinta a fare il corso è che mi scoccia molto quando non riesco a leggere, o a capire, qualcosa, e il tedesco è una lingua abbastanza diffusa. Sopra alla grammatica tedesca c’è quella danese, così, tanto per dire.

Lì vicino c’è un’altra Norton Anthology of Literature, dicasi un tomo gigantesco, ma questa è Women, quote rosa con copertina blu. Nelle sue 2500 pagine racchiude alcune tra le più prestigiose scrittrici e poetesse che hanno scritto in inglese: ci sono americane, inglesi, canadesi, irlandesi etc., sono tutte qui. La ricordo come uno dei primi libri acquistati su Amazon, oggi giace accanto a un classico come “Il maestro e Margherita”; a “Gente di Dublino” (Joyce resta sempre Joyce) e al “Nome della rosa”. C’è anche Freud, con i suoi sogni, che confina con Woodhouse e con dei racconti di cani. Tra la saggistica c’è qualcosa di psicologia e di linguistica, un libro sulla santeria cubana, un saggio sul Vajont, uno sui capelli rossi e miei libri dei corsi di scrittura. Dopo aver scritto, per anni, improvvisando, ho frequentato corsi su come scrivere: articoli, racconti brevi, libri gialli e libri per bambini. Ho scritto racconti, ma mai libri gialli, né libri per bambini, eppure ne ho letti centinaia.

Degno di nota è anche il libro sulle terapie complementari nei volatili: ne avevo provata una su dei riproduttori di fagiani, e aveva funzionato. Lì vicino c’è anche una disanima scientifica sulle terapie “alternative”: mi ero iscritta al corso vero e proprio, quando studiavo in Massachusetts, ma il corso era a numero chiuso e, ovviamente, sono rimasta fuori. Però, l’esistenza di quel corso mi aveva fatto scoprire Hampshire College: un mondo a parte! Hampshire College (secondo alcuni Hempshire College) è stato fondato dopo il ’68: non esistono voti, si lavora su progetti, e gli studenti di orticultura coltivano verdure per tutti. Noi cinofili sappiamo che a Hampshire, insegnava l’esimio Prof. Coppinger che, ovviamente, in quell’anno era in sabbatico. Lui non c’era, ma il le sue pecore sì: aveva riempito il campus di ovini per i suoi esperimenti con i cani guardiani da gregge. Stavo a Mount Holyoke, il college di Emily Dicksinson, più prestigioso e competitivo di Hampshire, ma ho sempre pensato ad Hampshire come a un’ occasione persa. Ci sarei stata bene, magari mi avrebbero messo ad accudire il gregge.

Più in là ci sono due libri sugli stencils: la mia inadeguatezza nelle arti figurative è tale che riesco a fare disastri anche con le “formine”. L’unica cosa che io abbia mai stencillizzato bene – con un pennarello, che col pennello sbavo – sono le barriere della cassa parto dei cuccioli. Però, nessuno ha visto le mie creazioni artistiche: ho dovuto levarle dopo due giorni perché i diavoli le scavalcavano senza badare all’arte. C’è anche un vecchissimo libro su come si giudicano i cani in esposizione: è americano, raccomanda onestà e buone maniere da parte dei giudici, ha un po’ un sapore d’altri tempi.

E poi? Libri sul Giappone: ho studiato giapponese per tre anni e girato buona parte del Kansai da sola, terrorizzando tutti quelli a casa perché andavo in metropolitana di notte da sola, ma là è sicuro! Verso il confine della libreria c’è il libro del feng shui che, insieme al corso sullo stesso argomento, ha cambiato il mio approccio nei confronti delle cianfrusaglie, ma è lunga da spiegare; uno con i gatti inseriti in famosi ritratti, regalatomi non so come con del cioccolato, un libro sui celti e un libro su Praga. Questo è uno di quei libri che affiderei volentieri al book crossing, ovvero di cui non mi importa granché, se non fosse che la gita scolastica a Praga è stata un disastro assoluto. Il tutto ebbe inizio con la “seduta spiritica” e poi proseguì con: i corridoi da albergo di Shining; la gente che vomitava anche l’anima; quelli che rotolavano sul pavimento; le marmellate scadute e io e altri due o tre semi-abbandonati sotto la neve nel cimitero ebraico. Noi e un sacco di corvi che gracchiavano, i fiocchi di neve alla fine di marzo. Ci sarebbe anche da raccontare del portafoglio zeppo di marchi e documenti che trovammo su un marciapiede. Lo consegnammo immediatamente a un poliziotto chiedendoci, subito dopo, se il proprietario dei soldi li avrebbe mai rivisti. Forse avevamo fatto la scelta sbagliata.

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Il secondo piano, oltre ad assomigliare a una pizza, ricorda anche uno di quei giganteschi tacchini ripieni che si mangiano il Giorno del Ringraziamento: so quanto sono enormi, e quanto sono ripieni, perché assaggiai uno a Pittsburgh, dalla cugina Florence. Tradotto in libri, significa che, alla regolare fila di ordinata, si sovrappongono ai volumi altri appoggiati in maniera longitudinale o, più onestamente, messi “come meglio si accomodano”. “Tramonto e polvere”; “Le nebbie di Avalon”; “Diari di dame di corte dell’antico Giappone”; “Storia di Genji, il principe splendente”, etc. etc. fino a arrivare alla poco glamour “Rassegna di diritto e legislazione veterinaria”: ne abbiamo adottati alcuni volumi a testa perché il dipartimento intendeva buttarli nel bidone. A proposito di cassonetti, prima che prendesse piede la raccolta differenziata, avevo i cassonetti a due passi da casa: il segnatempo della Oregon Scientific, che vive al secondo piano, era stato abbandonato lì fuori, perfettamente funzionante.

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Quattro Passi Dentro Casa: Il Kefir

I granuli di kefir abitano in taverna. Nella stagione fredda vivono su uno scaffale, in un barattolo che li nasconde dalla luce. Nella stagione calda, invece, vanno in villeggiatura con un siberino, in una borsa termica. Con la mezza stagione mi trovo ad un bivio: se fa troppo freddo si addormentano, se fa troppo caldo si in@zzano e si ingozzano di latte, gonfiandosi.

È come ad avere a che fare con un animale che ha, allo stesso tempo, problemi gastroenterici e problemi comportamentali. Eppure, sarà perché mi piacciono i casi complicati, non li ho ancora uccisi. Sono arrivati lo scorso agosto, dalla colonia “della Pina”, e sono rimasti.  Ho provato a cedere dei loro discendenti, ma solo un’adozione su tre era andata a lieto fine, quella di una dottoressa che lavora al reparto malattie infettive. Con il Covid 19 ho perso di vista sia lei che i kefirini. Nel frattempo, miei sono diventati una sorta di terzo animale domestico, accudito ad orari regolari, a costo di farmi vedere in videoconferenza mentre li filtro.

Che poi io il kefir, neanche lo bevo quasi più, lo avevo provato per una disbiosi, con dei benefici, ma l’ho poi sospeso, per fare altri esperimenti, visto che con la medicina ufficiale non avevo mai risolto nulla. Però… non ho mai buttato i granuli. Ho continuato a filtrarli ogni giorno alla stessa ora, e a dare loro il latte della marca preferita. Sono granulini fortunati, tramite le mie solite “vie traverse”, sono riusciti a mangiare anche della latte di vacca appena munto. Perché si dice “vacca”, non “mucca” e io non ho mai fatto mistero della mia passione per questi animali.  Da piccolina avevo una fattoria di plastica, che poi mia madre mi ha obbligato a regalare, anzitempo. Mettevo gli animali in recinti divisi per specie e funzione: i cavalli avevano un recinto triangolare e c’erano un sacco di pecore.  Anche i miei presepi sono sempre stati zeppi di pecore, quasi più ovini che statuine.

Tornando ai bovini, li ho sempre guardati con un che di induista: la vacca sacra, la vacca madre terra (in medicina cinese i bovini appartengono all’elemento terra).  Infondono calma, mi danno un senso di sicurezza: ricordo benissimo l’aereo in atterraggio su Newcastle. I puntini neri sotto di me erano vacche Angus, ed erano ovunque, quasi nei giardini di casa. L’accoglienza che ci voleva: del resto dico sempre che se vincessi alla lotteria, mi metterei ad allevare Angus al pascolo! Magari anche Varzesi, la razza è poco importante: mi basta una mandria sul prato e qualcuno che si ricordi di loro, vista l’altalenanza del mio senso pratico. Ho scelto di non fare il veterinario di vacche, ma ammiro i buiatri, perché non reggerei né gli orari, né la fisicità del lavoro. Però, reggerei i loro proprietari molto più facilmente di quanto mi accada con certi proprietari di “pets”: con gli “agricoli” (non me ne abbiate se vi chiamo così, è affettuoso), ci vado d’accordo. Spesso parlano la stessa lingua dei cacciatori: questi due mondi sono molto vicini, e se si trova la giusta chiave comunicativa, diventa tutto facile.

Ai kefirini parlo in italiano, a volte anche inglese, la mia lingua dell’anima: sono cresciuti bilingue, come i cani. Mi sono chiesta se non fosse il caso di imparare il russo, a quel punto potrei forse capire le chilometriche telefonate delle badanti: parlano a alta voce perché sono convinte che nessuno le capisca. Per ora, dopo anni di spionaggio, sono ferma a “Da e Te sam”, non posso che migliorare. Ne frattempo, le bestioline si lasciano filtrare in anglo-italiano: li passo dal vaso grande al vaso piccolo, serve un imbuto (rosa), un colino (marrone), una spatolina (fucsia e blu) e una bilancia (rosa), se la giocano LIDL e IKEA. Bisogna schiacciare bene i granuli per far colare la cremina, poi pesarli e dare la giusta quantità di latte in base al loro peso. Se ci sono avanzi del giorno precedente, questi vanno in una bottiglietta che in origine conteneva un succo di frutta finlandese. Un succo filosofico la cui etichetta dice “you live longer than snow”, di questi tempi non è così scontato.

Io mi affeziono agli esseri viventi, non mi distacchi neanche con il diserbo, così pur non consumandoli, li ho filtrati e sfamati per mesi, fino a che… li ho chiamati in soccorso e loro, con gratitudine, hanno risposto alla chiamata. È tutto così surreale, nazione che vai, estinzione che trovi: in Inghilterra hanno finito la carta igienica, in Italia, dove si pensa prima a mangiare, e poi a risolvere il problema di eliminare le scorie, è finito il lievito. Un bel problema per chi si era messo a panificare conto terzi!

Quando mi imbatto in problemi di difficile risoluzione, mi torna in mente che bisogna pensare “Out of the box”, così ingrano la marcia. Se mi impegno raggiungo il livello di risoluzione del problemi “Hermione Granger Avanzato”, e se la volontà non basta, mi ricordo ho due lauree e mi metto ad invocarle. Di solito funziona: è così che ho aggiustato la maniglia del water un sabato sera, non poteva proprio stare così fino al lunedì! Quindi, adesso? Lieviti: batteri; prosecco col fondo; date le brioche al popolo, le perle ai porci, evvai di brainstorming! Tatjana, Lessia, Ludmilla, Lydia, Katia, Ivan, Vladimir, Igor, tutti qui che mi aspetto da voi un miracolo.  Altro che #mangiapaneatradimento! Grati, fedeli, addestrabili e anche un po’ imprevedibili, come un buon cane da ferma, hanno prodotto un buon lievito, sovversivo quanto basta. Da un mese buono qui si panifica a “madre di kefir”, detta anche Grande Madre Russia: il mio quarto animale domestico, da sfamare regolarmente!

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Quattro passi dentro casa: Le lampade di questa stanza

In una stanza tutto sommato minuscola, ci sono ben tre
lampade. Una ci vuole, che ci rischiari dalle tenebre, ma le altre due? Andiamo
a conoscerle, dalla più piccola alla più grande. La più piccina, non che ultima
in ordine di arrivo è una lampada del sale formato bonsai. Calcolando la
metratura della stanza, se volessi davvero usarla per ionizzare l’aria, cosa
che si mormora queste lampade facciano, avrei dovuto prenderla grande almeno il
doppio, invece ho scelto lei. A guidarmi, non solo lo spirito del risparmio, ma
anche la situazione. Io vado a impressioni, circostanze, eccetera e tale
lampada era stata annunciata come in vendita da LIDL. LIDL ha l’astuta capacità,
con il suo volantino, di creare aspettative. Da librivora, adoro il volantino
di LIDL, e pensare che, gli omini della pubblicità, spesso saltano la mia
cassetta della posta. In tempi normali ovviavo al problema sottraendo,
nottetempo suddetto volantino, dalle cassette altrui, magari proprio da quelle
su cui campeggia rabbiosa la scritta “NO PUBBLICITA’”. A me la pubblicità dei
supermercati piace, ma adesso rifuggo da qualsiasi superficie che possa essere
contaminata, forse gli omini della pubblicità lo sanno e non mi lasciano più nulla.
Se vi hanno rubato il volantino di LIDL, da febbraio in poi, non sono stata io!
Oltre a stuzzicarci, quelli di LIDL, sono bravi a fare leva sulla scarsità: se
un bene è scarso, viene percepito come un bene di valore. Nella mia infinita storia
accademica, ho studiato anche economia politica, altrettanto devono aver fatto
gli omini del marketing. Le massaie invece no, ci cascano ogni volta e le
mattine del lunedì e del giovedì, corrono da LIDL ad accaparrarsi gli oggetti
del desiderio, prima che l’ambita cianfrusaglia vada esaurita.

No, sul serio, mi rifiuto: la corsa tra gli scaffali roba da
Flinestones. Magari una certa cosa la vorrei tanto, ma riesco a non
darlo a vedere. Mi approccio ai cestoni delle offerte con finto distacco,
allungo l’occhio e, se la cosa non c’è più, proseguo incurante verso i fiocchi
di latte: ai cani piacciono, è una bella scusa. Questa lampada, così come le
ali da pipistrello da fare indossare al cane (che invece avrebbe preferito i
fiocchi di latte) è stata comprata nel tardo pomeriggio. Era l’ultima ed era
evidentemente una predestinata. L’accendo spesso e, lo scorso autunno, o forse
era primavera- insomma era quel periodo di monsoni, la lampada si è messa a
piangere allagando il ripiano della libreria. Nessun miracolo di San Gennaro,
voleva solo dirmi che c’era troppa umidità, come se non me ne fossi accorta da
sola. Che poi, che avrà da lamentarsi, abita vicino alla porta della stanza,
sul tetto della mini-libreria a sud, nel punto meno umido della casa. È stata fortuna,
non ha neppure dovuto scegliere dove stare, la presa della corrente ha deciso
per lei.

La seconda lampada vive sulla scrivania, ma non ha mai avuto
un posto fisso, va e viene a seconda di quanti pc (ne ho due), quanti libri e
quante altre cose, stanno sulla scrivania.  Quando il tavolo è troppo occupato viene
sloggiata per terra, sul parquet, a farle compagnia qualche pelo di setter. Il
non avere un posto fisso, le permette di guardare la stanza, e il mondo fuori
dalla stanza, da diverse prospettive. Può persino succhiare la corrente da ben
due prese elettriche diverse. Non so quasi nulla di questa lampada, mi è stata
regalata dopo che qualcun altro l’aveva recuperata sulla via della discarica.
La spina andava riparata, ma una volta fatto (non da me) funziona benissimo.
Credo abbiano scelto di mandarla qui perché è la classica lampada da scrivania,
anzi da scrivania di una biblioteca. Probabilmente ne avete viste di simili
nelle biblioteche, o nei film. È una di quelle lampade con un cappello verde bottiglia,
piuttosto largo e orientabile. Il gambo è stretto e dorato e poggia su una base
larga, sempre dorata. Queste lampade vintage, sono chiamate anche lampade
Churchill (My Dear Sir Winston <3 ), o ministeriali. La leggenda
vuole che negli anni ’30, in Europa, fossero di moda sulle scrivanie dei VIPS, a
me fa tanto Ivy League, o Seven Sisters, per tirare l’acqua al
mio mulino.  La mia Winstonina ha qualche
graffio sul gambo e dei graffi più marcati sulla base, comunque se li sia
fatti, fanno parte della sua storia. L’accendo poco, in genere d’inverno, o
quando la giornata è uggiosa. Illumina quanto basta, ma non troppo.

La terza lampada è la lampada regina, ovvero quella che regna
quando il sole non c’è più, ma a tu hai bisogno di vederci chiaro, lo chiamano smart
working
e non finisce con il tramonto. Non ci sono lampadari in questa
stanza, solo questa lampada “alogena” che parte dal pavimento e va verso
l’alto. È rosso papavero e ha quasi 40 anni, ma non li dimostra, viene dal
vecchio arredamento “di design” di questa stanza. Il problema è che si è
portata dietro una certa filosofia spendacciona tipica degli anni ’80: mangia
quanto uno Shire! Con Shire intendo quegli enormi cavalli da tiro dalle zampe
pelose, l’idea di prenderne uno “da compagnia” mi è subito passata dopo aver
scoperto quanto mangiano. Ad oggi, non sono ancora riuscita a convertire la
Signorina Shire al LED, non trovo lampadine della sua taglia: lei succhia,
illumina e scalda, come si addice ad una vera lampada alogena della Milano da
bere.  In inverno, funziona come secondo
termosifone, in estate… le preferisco il buio.

È talmente calda da aver cercato di fondere un pezzo della
libreria e di aver quasi dato fuoco alla casa. Antefatto, questa stanza è
esposta a nord per una parete, e a est per l’altra. In inverno è GELIDA anche
con il riscaldamento acceso: le case te le costruiscono belline e trac, la
fregatura che non sai. I vecchi serramenti, quelli comprati insieme
all’abitazione, erano stati fabbricati dalla Casa dello Spiffero, e io ho avuto
una delle mie idee. Seguendo quanto consigliato dall’adorabile rivista British Country
Life
, mi ero procurata dei pesanti tendoni patchwork. Ottimo risultato
estetico e funzionale, ma alla rossa lampada non piacevano, le toglievano
centralità. Così, colpa sua, o colpa mia, che non ho curato le distanze, un
giorno d’inverno, mentre scrivevo al pc, ho sentito un rumore sopra la mia
testa. Ho fatto finta di niente per un po’, che avevo altro da fare, e poi,
riguardando in alto, ho visto fumo e fiamme provenire dalla tenda. Senza farmi
prendere dal panico, sono uscita dalla stanza, ho spento la lampada
(l’interruttore è fuori) e poi mi sono messa a cercare un recipiente con cui
poter lanciare efficacemente dell’acqua verso l’alto.

Non trovando niente al piano, sono scesa in cucina e ho preso un’insalatiera in porcellana inglese, di quelle bianche e blu con i paesaggi disegnati, ovvero le uniche stoviglie degne di esistere. E fu così che Rossella domò l’incendio a insalatierate d’acqua. Poi venne l’assicuratore che risarcì i danni, inclusa l’anziana scrivania di design che con l’acqua si gonfiò.

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Quattro passi dentro casa: La libreria a sud, il piano attico

Ci ho pensato, riflettuto, e ripensato: anche le librerie
meritano di essere raccontate.  Magari a
rate, per non tramortire, e inframmezzate con elementi più leggeri. Le mie
librerie sono pesanti, sovraccariche. In tutti i sensi.

La libreria ha sud, è in realtà, una delle due che poggiano
contro il muro meridionale della stanza. Abbiamo la libreria vera e propria, e
la sua cucciola, che ha solo tre ripiani. A separarle c’è un cassettone che per
il momento non avrà voce in capitolo. La libreria a sud è uno scaffale
bianco-giallognolo che appartiene alla serie Billy di Ikea. È il primo mobile
che ho comprato da Ikea, il primo mobile che abbia mai montato da sola. Il
fatto che si chiami come un cane, per l’esattezza come l’ex cane di mia nonna,
deve avermi aiutato non poco.

Ikea è sempre una sorpresa: studi il catalogo; decidi cosa
vuoi; vai in negozio; vedi gli ambienti; vai in magazzino; rintracci il tuo
prodotto e scopri, ogni sacrosanta volta, che l’agognato elemento d’arredo è
uno scatolone piatto e lungo. Ci vuole molta fantasia ad immaginarlo in tre
dimensioni, e ce ne vuole ancora di più a dargli l’opportunità di trasformarsi
in un mobile vero. Siccome non ho mai avuto come coinquilino il caporeparto del
Leroy Merlin, ho sempre affrontato le istruzioni di Ikea in prima persona e
rigorosamente da sola: non amo ricevere suggerimenti in quei frangenti. Potrei
reagire male, molto male, è meglio che mi sentano solo viti e bulloni, o
finirei con l’iniziare una nuova carriera al porto di Genova. E poi, vuoi
mettere, trasformare la confezione lunga e piatta in un mobile vero? Tutto da
sola?

La libreria ha sei ripiani, ma oggi ci soffermeremo sul
primo dall’alto: il piano attico. Un libro non dovrebbe mai augurarsi di finire
al piano attico. Se è stato messo a dimora lì, significa che non te ne importa
abbastanza. Non verrà sfogliato spesso, né verrà spolverato. Più è basso il
proprietario, più questa cosa sarà tragicamente vera. Sul mio piano attico c’è
un gruppo eterogeneo di libri, scritti in italiano, in inglese e in francese.
Gli argomenti sono i più disparati: abbiamo una raccolta di Hemingway; un libro
di scienze forensi; Libertà di Franzen; robette commerciali; un bel saggio – in
verità un po’ tirato – sul ruolo della donna nella caccia, scritto da
un’antropologa; un manuale di obedience canina anni ’60; un libro che ci
hanno fatto leggere in terza elementare; dei saggi di filosofia e alcuni libri
scritti da autori nippo-americani.

La letteratura nippo-americana, o giapponese-americana, è
pressoché sconosciuta in Italia, forse perché pochissimo è stato tradotto
dall’inglese. Durante la Seconda Guerra Mondiale, questo gruppo etnico è stato
oggetto di forti discriminazioni, culminate con la reclusione di migliaia di
persone in campi di internamento. Gli scrittori nippo-americani hanno nomi
giapponesi: sono nati negli Stati Uniti da genitori giapponesi. La mia
preferita, quella su cui ho scritto la mia tesi di laurea, magistrale, è Hisaye
Yamamoto. Seventeen Syllables (diciassette sillabe), la sua raccolta di
racconti, alloggia altrove, è a portata di mano.

Alla descrizione della mensola, è seguito un forte impulso a
sgomberare: ma tutti i libri del piano attico si sono salvati, ad avere la
peggio sono stati dei CD. Gli inglesi lo chiamano decluttering
(rimozione del clutter, cianfrusaglie) e sono volate nel bidone un po’
di cose, non troppe perché la discarica è chiusa. Ho passato gran parte della
mia vita ad accumulare, fino a quando, frequentando un corso di feng shui,
ho cambiato prospettiva. Il fatto che io abbia fatto un corso di feng shui,
non vi deve stupire, sarei capace di seguire anche corsi su come dipingere il
carapace delle tartarughe. Il fatto che invece abbia iniziato a liberarmi degli
eccessi, invece, ha stupito anche me. Non succede sempre-sempre, ma adesso da
alcune cose riesco a staccami. Il libro sul feng shui, però, è al piano
sotto, il che mi impone di rimandare ulteriori approfondimenti. Decluttering,
tuttavia, suona bene con book crossing e, i miei primi esperimenti di
sgombero, hanno riguardato proprio i libri.

In effetti ne ho parecchi, anzi ne ho troppi: cauti e
silenziosi, i libri hanno preso possesso di questa casa. Ho iniziato a leggere
quando non sapevo ancora leggere: guardavo le figure o, peggio, pretendevo che
gli altri leggessero per me. Sin da bambina, ho chiesto e ricevuto in regalo,
un sacco di libri, e quando dico “sacco” immaginatevi una valanga. I genitori
sanno dire no a un giocattolo, ma se chiedi un libro non gli sembra di
viziarti.

Le biblioteche le ho invece sempre frequentate con
parsimonia: andava spesso a finire che, una volta riportato il libro a casa
sua, ne andassi a comprare una copia per conservarla in eterno, tanto valeva
comprarla da subito senza fare tanti giri. Non paga del cartaceo accumulato,
quando mia nonna ha traslocato, mi sono portata via anche tutti i libri che
stavano lì, con la scusa che la nuova casa era più piccola.

Accumula che accumula, post feng shui, venne il
giorno in cui un vicino di casa, dovette mettere a disposizione il suo Apecar
per trasportare, in diversi viaggi, i libri che avevo deciso di donare alla
biblioteca del paese. Questa storia dell’Ape che sfrecciava avanti e indietro
sulle strade di campagna la racconto con un pizzico di orgoglio, per essermi
scrollata di dosso quintali di libri, e con una punta di imbarazzo, per averne
accumulati così tanti di cui, in fondo, mi importava così poco.  A quel grande esodo, ne sono seguiti di minori:
ogni tanto di o tre libri prendevano la via della biblioteca. Quali libri?
Quelli che avevo già letto e che non mi erano piaciuti. Quelli che avevo già
letto, ma non avrei riletto e, infine, quelli che non avevo mai letto, e non
avrei mai letto. Yes, because, in una delle mie fasi di accumulo pre- feng
shui
avevo scoperto l’Augusto.

L’Augusto è l’omino che vende i libri usati in Piazza del
Duomo a Pavia, nei giorni di mercato. Con la scusa che costavano poco, che
erano interessanti e che avevo imparato a montare librerie, col vai e vieni
dall’Augusto, in pochi mesi ne ho riempite altre due. Hai voglia a sgomberare,
a una libreria si sono sfondati i ripiani e, interpellato l’aggiusta-tutto, si
è rifiutato di aggiustarla, fino a che non l’alleggerisco. Campa Cavallo che
l’Erba Cresce, sono quasi sicura che il surplus librario sopravviverà
alla quarantena. Eppure, sono cambiata: romanzi, narrativa e libriciattoli vari
li leggo in ebook, anche perché non saprei dove metterli; acquisto libri
cartacei con misura e continuo a donare, ma, a guardarsi intorno, è rimasto
tutto uguale.

Le biblioteche però, le ho abbandonate: volevo che i libri
fossero disponibili per la comunità, volevo poterli magari andare a trovare se
ne avessi sentito la mancanza e, invece, ho tragicamente scoperto che i libri
non sarebbero rimasti lì. Niente macero, NO PANIC, ma li avrebbero girati a
carceri, sale d’attese d’ospedale, scuole, eccetera eccetera. Bene, ma non
benissimo, non li volevo rinchiusi forzati in un luogo sconosciuto, così ho
cambiato approccio.

Taaanti, anni fa, durante il mio primo viaggio all’estero da sola, in Irlanda, avevo trovato un libro su un autobus di Cork: On the Road, di Jack Kerouac. Quel libro voleva viaggiare, infatti è arrivato fino in Italia, così, ricordandomi di lui, ho iniziato a pensare che il destino di un libro era quello di trascorrere la sua vita su uno scaffale, ma solo se amato, o di viaggiare libero fino a trovare “il suo posto”. I libri che escono di qui, e che nessun amico vuole adottare, oggi vengono liberati attraverso un circuito di book crossing, gli auguro buona vita e li immagino in tanti luoghi e in tante avventure. Libertà!

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Quattro passi dentro casa: La luce dei censimenti

A salvarvi, ma solo temporaneamente, dalla descrizione della
libreria a sud, è l’orario insolito ho iniziato a scrivere. L’orologio del pc
dice 06.52 PM, non si sta male, si sta benissimo, specie in questa stagione.
Anni fa avevo ottenuto una vignetta di me stessa tramite non so più quale
programma. Era una faccina bianca-bianca, con gli occhi gialli e i capelli
rossi. Mi è tornata in mente perché tanti sembrano terribilmente preoccupati di
non poter andare in spiaggia la prossima estate: è malvagio dire che il
“problema” mi lascia indifferente? Non me ne vogliano albergatori, bagnini, piadinari
e venditori di cocco bello, comprendo il loro dramma ma… La mia ultima spiaggia
estiva, se non ricordo male, l’ho vista nel 1996 e continuo a non sentirne la
mancanza. Caldo, sabbia, sole, gente, immobilità, rumore: mi stupisco che
possano piacere.

Se c’è il sole, non ci sono io: a partire dalla primavera,
fino all’autunno, scelgo il lato del marciapiede in base a dove cade
l’ombra.  Se i vampiri fossero reali,
probabilmente sarei dei loro. Anemica da tempi immemori; pallida che neanche una
carta igienica primo prezzo, completano il look gli occhi giallo-verde-gatto a
seconda dell’umore. Dal punto di vista fisiologico, segnalo l’assoluta incapacità
di funzionare di prima mattina e il timore del solleone, ma anche quello del
sol leoncino: ecco a voi il ritratto di un animale notturno.

Quando il sole inizia a farsi un po’ umile e zio Apollo
lascia il passo a zia Artemide, ve la ricordate Pollon, no?  Ecco, in quel momento, che è il tardo
pomeriggio, io rinasco: quando il mondo inizia a smettere di lavorare, io
ingrano la quarta. Non amo il telefono, lo sapete già, e lo detesto anche di
più perché ha il vizio di squillare in questi orari. Gli altri smettono di sbattere
le ali e vogliono chiacchierare, io ho appena spiccato il volo e non voglio
interruzioni. Negli anni, ho preso l’abitudine di salvaguardare questo orario
per fare le cose più speciali, o più difficili: scrivere quella cosa che non
riesco a scrivere, studiare quella cosa incomprensibile, finire quel progetto.

C’era una sola, solida, eccezione alla regola: il pilates
del giovedì sera alle 6.00 PM, un’eccezione che dura da dieci anni. Si chiama
“lezione di pilates advanced”, detta anche “acro” dagli affezionati.
Sala 3, posto… lo stesso da dieci anni, nell’angolo a sinistra, con
l’insegnante a destra, tappetino privato, grigio asfalto. Livia, in questa
lezione, mette alla prova la sua creatività con un gregge di fedelissime che le
chiedono di portare il pilates, oltre il pilates. È la mia unica eccezione alla
regola dell’imbrunire: tutte le altre lezioni sono state messe a dimora in
pausa pranzo, alla mattina, o quando è già diventato buio. La lezione del
giovedì sera è speciale per tanti: va prenotata con 15 giorni di anticipo, alle
7.00 AM o, o perdi il posto. Con il Covid 19, che qui ci governa da quasi due
mesi, non serve affannarsi, nessun risveglio forzato: non c’è da correre per
non rischiare di finire in lista d’attesa. La lezione del giovedì sera non c’è
più.

Se sei determinato, la ricrei a casa tua, un video, una app
e un tappetino e un sacco di stimoli che ti rubano lo spazio mentale. Ho il
tappetino grigio asfalto, il roller giallo, la fitball mai
gonfiata – che occupa spazio, il ring e i micro pesetti rosa. Il tempo?
Come potersi inventare che manca, proprio adesso che ce lo possiamo gestire? A
scarseggiare, è la capacità di chiudere, in un comparto stagno, momenti che
vanno vissuti come meditazioni in movimento. Mentre va il video ti lampeggia la
notifica, ti suona il campanello (chi caspita è, visto che non si può andare a
casa della gente?), ti abbaia il cane perché il solito gatto che si annoia passeggia
avanti e indietro.  Scuse, caprette
espiatorie di chi non sa quietare la mente.

Le 6.00 PM di tutti i giorni potrebbero diventare 6.00 PM
del giovedì, ma non ci riescono. Sono caparbie, ma traforate da pensieri che
entrano ed escono. Oggi è venerdì, il venerdì è il giorno della specialità. È
il giorno che inverno si vive fuori casa da buio-a-buio, senza poter fare
altro. Oggi è il primo venerdì, dopo due mesi, che la specialità entra in casa:
lezione online al pomeriggio, che lascia il tempo di fare ciò che si vuole dopo
le 6.00 PM, se si volesse approfittarne. Scelgo di non fare altro.

Guardo fuori, c’è quella luce dorata che sbatte sul verde chiaro. In marzo e aprile, il verde è più verde del solito, o forse è meno verde, dipende dai punti di vista. I cacciatori lo chiamano il “primo verde”, perché è quello che arriva dopo l’inverno. Si colorano i prati e prendono forma le foglie che soppiantano il grigio e il marrone. Gli animali, i cui colori sono anche stati fatti per nasconderli, si vedono bene, anche da molto lontano.  Sul “primo verde” si contano gli animali, di mattina presto, o all’imbrunire, quando la luce gioca col verde. La guardo, mentre scrivo.

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Quattro passi dentro casa: il divano dell’ Avanella

Disclaimer: il divano dell’Avanella non viene
dall’Avanella. Già questo è un inizio grandioso! Ma, per chi non lo avesse
capito, le mie narrazioni non seguono un filo logico, sono Joyciane. Il flusso,
anzi il “ruscello” di coscienza è molto più fedele alla vita di quanto non lo
siano gli ordini cronologici, né tantomeno il vizio di voler andare da A a B in
linea retta: alla meta ci si arriva anche prendendo la strada panoramica.

Il divano dell’Avanella va contestualizzato nella storia di
questa stanza. La stanza è quella intermedia tra le tre presenti al secondo piano
di un’ordinaria villetta a schiera suburbana. Essa nasce, nei primi, anni ’80
con lo scopo di essere un ufficio dentro casa. In famiglia ci piace essere
postmoderni. Conte, marzo 2020, ha detto che bisogna fare smart working:
mi padre ha iniziato a farlo negli anni ’70. Il suo primo
ufficio-da-lavoro-agile era il tavolo della cucina. Un tavolo della cucina
marrone scuro, il colore lo ricordo bene perché non mi piaceva, affiancato, in
corridoio, da un’altissima libreria nera dove stavano libri, cataloghi e pile
di documenti cartacei. La cosa più speciale era la localizzazione dell’ufficio:
pieno centro storico, all’ombra della cattedrale.

Poi, con la casa nuova, l’ufficio domestico si è conquistato
una stanza intera, quella da dove scrivo ora. Questa volta all’arredamento ci
aveva pensato un architetto e la stanza era stata agghindata con mobili bianchi
e accessori rossi, tutta roba di design. È rimasto tutto così fino a quando il
capofamiglia ha deciso di rinunciare al lavoro da casa spostandosi di nuovo in
centro storico, un ritorno al lavoro impacciato. Io, che ancora frequentavo le
scuole medie, ho ereditato la stanza e parte dell’arredamento, del resto i miei
libri reclamavano scaffali. Nello spazio lasciato vuoto dai pochi mobili
portati via era stato inserito un letto, bianco, anni ’70, l’ex letto di mio
zio (perché qui non si butta mai niente) che sarebbe dovuto servire “per gli
ospiti”. Nessun ospite l’ha mai utilizzato: l’idea era buona, ma… mio padre,
non tutti siamo leggeri in famiglia, ne ha sfondato la rete sedendosi sopra. Se
proprio volessimo dirla tutta, ma non si deve sapere, io, qualche volta,
saltavo in piedi sul letto, ma credo lo facciano tutti i bambini. Ritengo
pertanto che le reti a molle dei letti siano state progettate tenendo conto
anche di questo, declino di conseguenza ogni mia responsabilità.

Dopo questo incidente, la stanza è rimasta senza letto e ho
cercato di viverla alla giapponese: con tappeti, mica tappeti, e persino con un
futon che mi ero portata in aereo dal Giappone. Lo avevo acquistato
candidamente a Kobe e poi caricato in aereo a Osaka, senza pensare che una
ragazza piccola con un pacco enorme, arrotolato nella carta, avrebbe potuto
destare sospetti.  Infatti, così è stato,
un finanziere a Malpensa mi chiese proprio cosa contenesse il pacco. Quando gli
dissi “Un materasso, se vuole glielo apro!”, mi spedì via per evitare
complicazioni.

Ektrop

Nonostante il futon, continuavo a sentire forte e chiara
l’esigenza di un divano vero che doveva essere: economico, comodo, piccolo, perché
la stanza è piccola, e facile da trasportare. Come tanti esseri umani, adoro il
catalogo Ikea, cioè adoravo il cartaceo, che di solito arrivava ogni settembre.
Anzi, qui non arrivava mai, ma riuscivo ad avere sottobanco la copia di mia
nonna, che tanto non ci sarebbe andata lo stesso all’Ikea di Corsico. Mi scuso
con le cugine se ho rubato l’ambito catalogo per anni, a loro insaputa, ma
bisogna pure arrangiarsi.  Il catalogo
Ikea incarna quello che rappresentava il catalogo Postalmaket nella mia
infanzia: in pratica guardi tutto, vorresti comprare tutto, e poi non compri
nulla. O, in alternativa, vai in fissa, guidi fino all’Ikea, perlustri per ore e
poi ti accorgi di non riuscire nemmeno a sollevare dagli scaffali quello che
vorresti caricarti in macchina e portarti in casa.

Quasi uguale a quello dell’Avanella

Tornando a tempi più moderni, essendo a caccia di divani, mi piaceva assai il design dell’Ektrop: molto classico, molto inglese, specie quello bianco a fiori neri. Molto bello, ma troppo caro e troppo grande. La pensavo così fino a quando, all’Avanella, ebbi un colpo di fulmine. Cosa sia l’Avanella lo sapranno al massimo una decina di amici, qualche centinaio di Italiani, e qualche migliaio di stranieri, perché all’Avanella vanno soltanto gli stranieri. I pochi italiani che la conoscono, sono quelli che ci abitano vicini, o sono gli amici della proprietaria, quasi tutta gentaglia che va a caccia e ha cani. L’Avanella può infatti vantarsi di aver ospitato più di un personaggio illustre appartenente a questa fetta di mondo. E sempre l’Avanella  può raccontare di avere avuto, prima tra tanti, un capo guardiacaccia donna, con tanto di laurea in scienze forestali.  L’Avanella è tante cose in una. Chi è curioso può andare su internet e scoprire che l’Avanella è un agriturismo, ma io non la considero tale. L’Avanella è anche una riserva di caccia, per l’esattezza un’azienda faunistico venatoria, ma anche qui siamo un po’ sui generis. Agriturismo? Il complesso di strutture dell’Avanella: villa, fienile e villini (le scuole) ricorda tutt’al più in villaggio. Negli agriturismi di solito si mangia, all’Avanella no: puoi dormire, tuffarti in piscina, o lavare i panni sporchi in mezzo agli altri. Se vuoi mangiare devi andare a Certaldo, o a San Gimignano, oppure passare alla HOOPPEE (il toscano per COOP) e poi accendere il fornello. La caccia all’Avanella è un lusso solo per pochi: Francesca & gli amici. I fortunati posso cacciare il cinghiale, il capriolo, i colombacci e i fagiani, ma non luglio quando all’Avanella ci sono finita io.

A luglio all’Avanella fa solo caldo: questo mi ha portato a
conoscere molto bene i suoi interni. Francesca mi aveva collocato nel fienile,
al piano terra del fienile, il territorio riservato alla famiglia e agli amici.
La struttura originale del fienile era stata conservata: il piano terra era
quindi piuttosto buio, lungo e stretto e suddiviso in due parti. La stanza da
letto, con il bagno, ne occupavano un terzo; gli altri due terzi erano un
lunghissimo spazio aperto al centro del quale spiccava un divano Ektrop, bianco
e a tre posti.

Che all’Avanella si cominciasse presto, lo intuii sin dalla
prima mattina, dalle ombre e dai rumori uditi nel dormiveglia. I rumori sconosciuti
erano stati provocati da Francesca che, in orario antelucano, aveva depositato
una brioche con la panna nell’angolo cucina. Nelle mattine successive, il mio
sonno fu disturbato presenze meno nobili: un bambino, credo russo, che ritenevo
risiedere al piano alto del fienile, correva e urlava sin dalle prime luci
dell’alba. Francesca, a dieci anni di distanza, continua a dire che non c’era
nessun bambino russo al secondo piano, io seguito a credere che abbia fatto
confusione sul registro delle presenze. All’Avanella, non solo si comincia
presto, ma tra cene, escursioni e grigliate si finisce tardi. Poi, di notte i
cinghiali bussano alla porta, così giorno si collaudano i divani. Fu così che
scattò l’amore tra me il divano Ektrop.

Era amore sì, ma non abbastanza forte per farmi decidere a
comprarne un gemello, costava troppo ed era troppo grande. Un paio di mesi dopo
aver abbandonato il mio divano toscano preferito, venni a sapere che il mio
amico P. sarebbe andato all’Ikea per comprare le forchette. La P puntata è per
tutelare la privacy del malcapitato a cui mi sono appiccicata, per aver modo di
trasportare fino a casa un divano di Ikea. Lo sventurato, infatti, era munito
di auto simil-furgonata che aveva sufficiente spazio per trasportare un divano
piccolo, almeno in teoria. Così siglammo un patto: “Io ti porto all’Ikea, ma ci
stiamo al massimo 10 minuti.” Sembra incredibile, ma abbiamo davvero sfidato e
vinto l’Ikea esplorandola in 10 minuti. Era andato tutto alla grande, fino a
quando i miei occhi hanno incrociato il profilo spaurito di un Ektrop a due
posti.  Era proprio quello bianco, con in
fiori neri. Il povero divano era stato abbandonato nell’angolo delle occasioni
perché ferito a bordo zampa, un’infermità minore, ma che ne riduceva
sostanzialmente il prezzo, facendolo rientrare nel mio budget. Ci siamo
guardati e ho capito che non potevo lasciarlo lì. Cioè, non l’ho capito proprio
subito, ho tentennato per altri dieci minuti che mi sono costati una punizione.
L’ho dovuto caricare sul carrello (da me) e poi spingere suddetto carrello, con
il divano sopra, fino alla cassa, tra l’ilarità e l’ammirazione degli astanti.

L’avventura è proseguita nel parcheggio quando abbiamo scoperto che un pezzo di divano, in qualsiasi modo lo girassimo, sarebbe rimasto fuori dall’auto. Peggio di una carretta del mare, ma un elastico, un portellone legato alla meglio, una targa dell’Uzbekistan, quest’ultima in senso figurato, ci hanno fatto passare la paura. Il mio Ektrop è qui, sotto alle cornici blu, in perenne memoria del “divano dell’Avanella”.

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Quattro passi dentro casa: le cornici blu

Le cornici blu, come è giusto che sia, guardano dall’alto al
basso il telo cinese. Sono arrivate prima di lui, molto, molto prima. Ridendo e
scherzando, credo se ne stiano attaccate al muro da almeno una quindicina
d’anni. Sempre nella stessa posizione e sempre sopra la stessa pittura color
malva che mi ha reso inconfondibile tra i commessi del colorificio locale. Che
ci vada di persona, o che mandi l’imbianchino, il contenuto della latta non
deve essere rosa, ma non deve nemmeno essere viola. Guai a virare verso il
color lavanda, è troppo freddo, dobbiamo stare il quanto più vicini possibile
al color malva. Che poi è quasi sinonimo del color erica in fiore: dipende
dalla luce, tante cose dipendono dalla luce. 
A proposito di colori freddi, non credo si vedrà mai una parete gialla
in questa casa, il color malva si abbia perfettamente al blu delle cornici. È
un blu che è tanti blu insieme: distalmente, così diciamo in anatomia, troviamo
un blu abisso, muovendoci verso l’interno, invece, abbiamo un azzurro chiaro
caraibico, commercialmente noto anche come “Bahamas Blue”. Le sfumature sono
interrotte da venature bianco azzurro. Descritte così, le mie cornici potrebbero
sembrare la seconda cinesata nel raggio di pochi centimetri: niente di più
falso, nell’insieme, l’effetto complessivo è piacevole.

Non posso dirvi dove le ho comprate, non perché debba
rimanere un segreto, semplicemente non me lo ricordo: ricordo di averle
comprate io, di questo ne conservo la certezza, ma ho dei buchi nella memria
simili a quelli di un gruviera. Credo provengano da una specie di brico locale,
uno di quelli che da un anno all’altro cambiano nome e proprietà, con
l’assortimento che, tuttavia, rimane all’incirca lo stesso. Però, potrebbero
anche provenire dal brico supremo, quello che sta a una ventina di chilometri
da qui e che non nomino perché mi mette troppa soggezione: è troppo lontano per
pensare di andarci. Ho visto gente rimettere a nuovo la casa durante queste
giornate di quarantena. C’è una casetta bianca, qualunque, lungo il tratto in
cui passeggio con i cani. In meno di un mese la sua recinzione è diventata più
nera, le sue persiane più verdi, e i suoi muri più bianchi. Se non si può
uscire di casa, da dove saranno arrivate tutta quella pittura e tutti quei
pennelli?

Comunque, tornando alle cornici blu, costoro sono un numero
di cinque, non ricordo esattamente il perché. Tre alloggiano stampe di
fotografie dell’inizio del secolo scorso , due invece delle copie di fotografie
in bianco e nero scattate negli anni ’70. 
C’è però un incredibile trait d’union, tutte le immagini portano
dei setter inglesi. Prima di parlarvi delle immagini, devo parlarvi dei passpartout,
perché hanno una storia tutta loro. A comprare una cornice pronta ed infilarci
dentro una foto siamo capaci tutti, ci costa anche molto meno che far fare una
cornice su misura, il problema arriva quando gli abbinate ciò che dovrebbe contenere.
Le anime semplici si accontentano di far combaciare i bordi dell’immagine con
quelli della cornice: la gradevolezza del risultato lascia però molto a
desiderare.  Tutti abbiamo almeno
un’immagine imprigionata in questa maniera, ma… ecco vi lascio i puntini di
sospensione, così potete decidere come pensarla.

La soluzione preferita da
pignoli-perfezionisti-ossessivi-compulsivi? Il passepartout della giusta
tonalità e della giusta misura. Ora che ci penso, perché il beige del
passpartout centrale è più crema degli altri, che danno invece sul corda? Chi
lo sa, ho impattato con l’ennesimo buco del gruviera. Nell’anno di nascita
delle cornici blu non esistevano ancora i tutorial su Youtube, però avrei
potuto aggrapparmi ai ricordi delle lezioni di educazione tecnica delle scuole
medie. Ci ho pensato, ma non ci ho neanche provato: è inutile cercare di fare
il salto dalla teoria alla pratica, se sai già che quanto allungherai la gamba
cadrai prima di toccare l’altra sponda.

Ready for the Call

Se esistesse una classifica del senso pratico, il mio sarebbe sotto lo zero. Con la manualità va un po’ meglio, ma sostanzialmente io sono quella che ha le idee, mi aspetto che siano gli altri a realizzarle. Le mie idee, ovviamente, sono ottime, solo difficili da mettere in pratica. È per questo che i commessi dei brico, i fabbri, gli imbianchini, i falegnami, insomma gli artigiani in genere, preferiscono non avermi come committente.  Ricorrono a mille astuzie per non farsi trovare, ma nulla possono contro la mia determinazione. Mi evitano perché sanno di non poter essere scortesi: negli anni, infatti, ho elaborato un sistema di rottura di scatole raffinato ed efficace, nonché a prova di insulto. Perché se io rompo, usuro, consumo, trito….  ma in fondo sono educata e gentile, anche se vorrebbero tanto mandarmi a quel paese non ho fornito loro le munizioni per poterlo fare.  In fondo sono persino buona: consapevole della mia totale assenza di senso pratico, affermo spesso che il mio coinquilino ideale sarebbe un caporeparto del Leroy Merlin.

Comunque, quando venne l’ora dei passepartout, la vittima
designata fu un anziano corniciao locale.  Con poco entusiasmo, li realizzò, facendomeli
pagare a caro prezzo e poi narrò la vicenda al figlio che ereditò, insieme
all’attività, anche un atteggiamento sospetto nei miei confronti.

Ma arriviamo finalmente a raccontare cosa contengono le
cornici blu, partendo da quella più a sinistra. La prima cornice, vicino alla
finestra e a nord del televisore, contiene una delle due foto anni ’70. Una
setterina che sorveglia un cucciolo di circa tre settimane: l’età l’ho stimata
io.

Con la seconda cornice abbiamo invece la prima foto di William Reid, un fotografo scozzese che risulta essere stato attivo tra il 1910 e il 1931. La “foto” è in realtà una pagina stampata proveniente da una qualche pubblicazione d’epoca. No Holt’s, no Christie’s: l’ho comprata su Ebay. Ora, io capisco il nazionalismo scozzese, capisco la sentita ricerca di identità da parte di questo popolo ma, intitolare l’immagine “Ready for the Call”, azzardatamente sottotitolata “A pack of Scottish Deerhounds on the Hills of the Vicinity of Edinburgh” (un branco di deerhound scozzesi sulle colline nei pressi di Edinburgo), mi pare un po’ tirato. Avete presente che cos’è un deerhound? Se non lo sapete ve lo spiego io: i deerhound sono dei levrieri specializzati nella caccia al cervo. La traduzione letterale del loro nome è segugi da cervo. Sono alti, molto alti sugli arti, smilzi, grigiastri e hanno un mantello duro, arruffato che spara in ogni direzione. Siccome so che è scortese paragonarli allo scopettone del wc, dirò che assomigliano a quelle spazzole irsute e avvitate che si usano per lavare l’interno delle bottiglie. Tolto il paragone politicamente scorretto, a me piacciono persino ma… non hanno nulla a vedere con le bestiole che appaiono nella foto. Abbiamo invece otto, forse nove – c’è una testolina che spunta dietro – cani. Di questi, quattro sono setter inglesi, tre sono pointer inglesi e uno sembra essere un cocker, per non sbagliare chiamiamolo semplicemente spaniel. I cani sono più o meno accovacciati e fermi, a dimostrazione che la steadiness (capacità di restare immobili), non è stata scoperta di recente dagli addestratori scozzesi. Dietro sembra vedersi un lago, più in là la sagoma dei moor.

We are Seven

Un lago fa da sfondo anche nell’immagine contenuta nella
cornice centrale, “A Young Game Keeper and His Nine Assistants, Aberfoyle
Scoltand”
(un giovane guardiacaccia e i suoi nove aiutanti, Aberfoyle,
Scotland). Nove cani, anche qui, che scrutano l’orizzonte immobili in compagnia
di un guardiacaccia che indossa il tweed della riserva, come accade tutt’ora.
Bravo William! Good boy! Stavolta hai azzeccato il titolo.

In quarta posizione abbiamo “We are Seven” (siamo
sette), il cui sottotitolo è “A Scotch Lassie and her half dozen setter
puppies”
. Lassie vuol dire ragazza, non vuol dire Lassie come lo intendiamo
noi. La razza “Lassie” non esiste, il cane a cui è stato dato quel nome, era un
cane da pastore di razza collie. Se siete arrivati fino a qui, e vi siete
persi, ci riprovo: quel cane protagonista di tanti film, era un collie di nome
“Lassie”, ovvero un cane da pastore di nome “Ragazza”. Se questo vi sembra
contorto, a me fa molto francese il contare i cani in mezze dozzine, sapete
come si dice 96 in francese vero? I cuccioli sono sei, con loro c’è una
ragazza, caso, o coincidenza, mi sento tanto io quando zampettavo per il
giardino urlando “Cagnoliniiiiiiii!”, “Cuccioliii” alla mia mezza dozzina.

La quinta cornice è sul confine con la libreria, cioè con una delle librerie, torniamo negli anni ’70, con una setter pensierosa, la stessa che fu mamma nella cornice iniziale. E il cerchio si chiude.

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Quattro passi dentro casa: la cinesata suprema

Disclaimer: questa volta non si tratta di un articolo cinofilo, né venatorio (sebbene un articolo con questo tema sia in preparazione), quello che state per leggere è un esercizio di scrittura “terapeutica” da quarantena. Del resto c’è chi si rilassa cucinando e chi scrivendo.

What if… Scrivessi il bestseller del secolo? Il secolo è appena iniziato e scrivere un libro che vendesse bene sempre stato il mio Piano B. Anzi no, il Piano C, il Piano B è meglio che lo conoscano solo in pochi: manca ancora la materia prima per pensare di realizzarlo, ma non posso svelarlo, comporterebbe il rischio che salti.

Sono le 18.00, diciotto punto zero-zero, sei zero zero p.m.,
in questo momento mi sfugge come leggano le ore nei Marines.  Mi appena risvegliata da un torpore profondissimo,
il che significa che non sono ancora davvero sveglia.  Non c’è né come il non dormire la notte,
dovrei saperlo: del resto non ho mai dormito. 
Ho passato la mia infanzia attaccata alle tazze di tè: a 3 anni sapevo già
distinguere un British Breakfast da un Earl Gray, al primo sorso.  Oggi per far ripartire il motore al minimo
dei giri, è servita una moka doppia di caffè ecobio-solidale non so cosa, ha
una confezione color juta. A seguire, una tazza di, mi pare che si chiami,
English Rose della Whittard. Whittard of Chelsea, la Londra bene, un tè
pannoso, una tazza di tè non potrebbe essere pannosa, ma questa lo è. Vi scrivo
standomene affondata nel divano con il computer sulle ginocchia. Sotto al
computer un supporto fucsia, anzi no, chiamiamolo con suo vero colore “rosa
shocking”. È non è nemmeno tanto trash, passatemi il secondo anglismo. Il
problema è un altro: a causa della globalizzazione, che ci ha messo in questo
disastro, migliaia di persone ne hanno uno identico al mio: li produce Ikea,
non potrebbe che essere altrimenti.

La cosa più spazzaturosa che mi circondi, tuttavia, sta un
paio di piani al disotto del supportino color lampone: sotto al mio sedere e
sotto ai cinesissimi jeans di seconda mano, se non ricordo male. Parlo della
trapunta che mi è stata regalata. Nell’intenzione di chi l’ha acquistata,
doveva trattarsi di un oggetto patchwork fatto a mano e a tema setter ma, non
appena è arrivato il pacco, ci si è subito accorti che la realtà superava di
gran lunga la fantasia. Davanti a me c’era l’equivalente di un copri asse da
stiro o, se preferite, di un sinteticissimo copri materasso. Nessuna traccia
delle pezze da patchwork,  abbiamo invece
un tessuto unico e scintillante, ovvero predestinato all’autocombustione. Su di
esso sono stati stampati, per giunta rozzamente, immagini di setter inglesi.  Ci sono persino le sbavature…

C’è sopra un po’ di tutto, ma confesso che il motivo per cui l’ho accettata come regalo di compleanno è stata l’immagine centrale: una, per me è una lei, setter identica a Tinkie, la mia ex-cucciola preferita. Non è ancora il momento giusto per raccontarvi di Tinkie, strepitoso esempio di resilenza, vi basti sapere che questo telo radioattivo è arrivato anche a causa sua: qualcuno certe colpe deve pur prendersele! Generalmente parca, in questo caso avevo deciso di abbondare, scegliendo la versione matrimoniale del telo, in modo da poterlo usare per il mio divano personale. Non immaginavo che, una volta aperto il pacco, le dimensioni avrebbero raddoppiato un vigoroso attacco di risate. Sì, perché di fronte a un tale monumento al kitsch, puzzolente come il catrame appena steso, non si poteva fare altro che riderci sopra: impossibile buttarlo nel camino, visto che non ce l’ho. Tra l’altro, essendo il mio compleanno a fine maggio, ed essendo il telo arrivato con tempistiche caraibiche, più che cinesi, la sua sinteticità non ne permetteva un pronto utilizzo in un ordinario luglio da Pianura Padana. La sorte, tuttavia, dopo l’inganno, era tornata a sorridermi: a breve sarei partita per il nord dell’Inghilterra e il sinteticone, lassù, avrebbe avuto vita più facile.

Let’s go together: io, Briony detta “la tigre”, Tigerlily detta “la foca”, la zia Chiara (la zia della foca) e il telo delle meraviglie. L’intenzione era quella di usarlo per salvaguardare il divano dai cani: con nostra sorpresa, abbiamo trovato ben due divani e una casa intonsa, una figlia naturale di Elle Decor. I suoi genitori adottivi, quelli della casa intendo, si sono subito mostrati molto apprensivi, qualcosa di inquietante considerando, la concomitante presenza della “Lillina”, una setterina che, a dispetto del nome floreale, andava comportandosi come la figlia del demonio. È così è iniziato il balletto del metti il telo – togli il telo; del metti il tappeto – togli il tappeto. Ogni giorno coprivamo il divano piccolo con ceste e tavolini; il divano grande lo coprivamo con la cinesata. I tappeti, invece, acquistati con grande affanno, venivano ritmicamente stesi, e poi arrotolati, a tutela della moquette, grigio polvere chiaro, che dava dritta su un giardino annaffiato a giorni alterni da tempeste oceaniche. In questa lotta senza tregua al fango e al danno, temevamo, probabilmente non a torto, di essere spiate dai veri proprietari della casa:  a ogni uscita smantellavano l’accampamento, per poi ripristinarlo al rientro. 

Poi vennero la traversata della Manica, il Passo del Gottardo e i tempi surreali del COVID-19, fu così che il copriletto acrylic-setteroso si sentì finalmente a casa, in mezzo alle risaie del nord Italia.

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