Wildlife Photographer of the Year a Milano

Alcuni anni fa, la biblioteca locale ha organizzato un corso di fotografia. Il docente, Bruno Valenti, un fotografo naturalista specializzato in rapaci notturne, trovandosi di fronte ad una classe molto eterogenea per competenze ed aspettative, ha impostato buona parte delle lezioni sul commento delle fotografie vincitrici (e segnalate) di questo concorso.

Il concorso fotografico Wildlife Photographer of the Year è organizzato dal Natural History Museum di Londra ma le opere premiate viaggiano poi in giro per il mondo per essere ammirate dagli appassionati. Al momento (fino al 10 dicembre 2017) le fotografie sono visibili a Milano: la mostra è organizzata da Radice Uno per Cento e ospitate dalla Fondazione Luciana Matalon a pochi passi dalla fermata MM1 Cairoli (linea rossa).  Successivamente, la mostra si sposterà al Forte di Bard, in Val d’Aosta.

Dati e informazioni sulle opere finaliste sono presenti sul sito dell’ente organizzatore,  evito pertanto di riscriverli, invitandovi a leggerle qui. Preferisco dedicare l’articolo a quelle che sono state le mie “impressioni” di giornalista e di fotografa amatoriale. Come qualcuno già sa, fotografo fin da bambina ma, per scelta personale, i miei soggetti preferiti sono i cani, non gli animali selvatici.  Tuttavia, ammiro chi si dedica a questo tipo di fotografia pur dovendo tuttavia riconoscere che i “veri”, almeno per i miei parametri, fotografi di wildlife sono una minoranza di coloro che si ritengono tali.  Fotografare animali selvatici dovrebbe significare fotografare selvatici veri, in natura (e non in pseudo parchi-safari per  fotografi….) e, soprattutto,  avvicinarsi a loro con grandissimo rispetto. Loro possono donarci immagini meravigliose, rispettarli è il minimo con cui li possiamo ricambiare.

Altri due tasti dolenti, che spesso vanno a braccetto, sono quelli della ricerca dell’esotico ad ogni costo e dell’inseguimento dell’attrezzatura costosa.  Molti sono convinti che per fare una bella fotografia sia necessario recarsi in capo al mondo e fotografare animali rarissimi: non è vero, e la giuria del  Wildlife Photographer of the Year sembra darmi ragione. L’immagine simbolo della mostra è quella di una volpe che si aggira nei sobborghi di Bristol ma non è certo l’unico esempio di foto scattata dietro casa.  La prima foto che si incontra nel percorso espositivo si intitola “The Moon and the Crow” e ha uno “scontatissimo” corvo come protagonista. Questa immagine è stata scattata nei dintorni di Londra dal sedicenne Gideon Knight che ha così vinto il premio Young Wildlife Photographer of the Year. Sarà che adoro fotografare la luna e le silhuettes prodotte dalla sua luce ma trovo questa immagine incredibilmente raffinata . “The Moon and the Crow” non è tuttavia  l’unica immagine che vede protagonista le piccole cose che abbiamo tutti i giorni sotto il naso: nella categoria Piante e Funghi abbiamo l’italiano Valter Binotto che vince fotografando l’impollinazione di un nocciolo (Wind Composition) ma anche, della semplice erba fotografata con sapienza all’alba (Grass at Sunrise) dallo spagnolo Roberto Bueno.  Se volete altri esempi di selvaggina della porta accanto, vi segnalo Refinery Refuge dello spagnolo Juan Jesús González Ahumada che si è “limitato” a fotografare un nido di cicogne ospite di una raffineria o… the Alley Cat dell’indiano Nayan Khanolkar, si tratta di un leopardo, non di un gatto, animale non tanto esotico per Mumbai dal momento che ne infesta le strade.

Le foto che ho citato possono essere ammirate, insieme a molte altre, sul sito del Natural History Museum ma, prima di chiudere, voglio ricordare anche Spiraling Sparrows di  José Pesquero, Spagna, segnalata nella categoria “Impressioni”. L’immagine mi è subito sembrata famigliare, quello strano bokeh spiraleggiante era maledettamente tipico dell’Helios 44, una vecchia ottica analogica russa acquistabile a pochi euro, frecciatina dedicata a chi sostiene che per fare belle foto servano macchine costose e a coloro che, solo perché possiedono un corredo costoso si ritengono grandi fotografi.

Grass at Sunrise

I “veri” fotografi, in questo caso di wildlife, e la saggia giuria li hanno smentiti:  l’attrezzatura conta, la tecnica conta, ma contano molto di più l’occhio, la capacità di giocare con la luce e la capacità di leggere il quotidiano alla luce della fantasia.

Ps. All’uscita della mostra ho acquistato il magnete della fotografia Nosy Neighbour ma probabilmente tornerò ad acquistare il catalogo (è disponibile anche su Amazon Wildlife Photographer of the Year Portfolio 26 ) che racconta  la genesi di ogni immagine e ne descrive le caratteristiche tecniche.




Cake cioccolato e cocco – I dolci di Flavia

Ingredienti: 

2 uova

130g zucchero

150g farina

50g fecola

59g cacao amaro

2 vasetti di yogurt al cocco

80g farina di cocco

1 bicchierino di rum

1 bicchiere d’acqua

Olio q.b.

Una bustina di lievito vanigliato

100g cioccolato fondente a pezzetti

Lavorazione:

Montate le uova con lo zucchero fino a renderle belle spumose. A più riprese aggiungete farina, fecola e cacao e man mano che il composto si rapprende aggiungete lo yogurt al cocco, olio, rum e acqua. Alla fine aggiungete lievito e cioccolato fondente.

Io ho usato una tortiera rotonda, ma si può usare anche uno stampo da plum-cake.

Cottura: 180 gradi per 30minuti

Una volta raffreddata potete anche decorarla con farina di cocco o zucchero a velo.

Vai alla prossima ricetta.

Puoi iniziare a leggere le ricette di Flavia da qui o trovarle raccolte qui.

 




Taglia: temperatura e movimento

Oggi ho ripreso in mano uno dei libri di Mario Canton Compendio di Terminologia per la Descrizione della Variabilità Esteriore nei Cani e nelle Razze Canine: Volume 1  e ho trovato un paio di informazioni che credo possano interessare anche i lettori di Dogs & Country.

Il rapporto tra la superficie e la temperatura

La prima riguarda il “rapporto massa/superficie”: la dispersione del calore in un cane è proporzionale alla sua superficie che, tuttavia, non è correlata direttamente con il peso corporeo MA aumenta in rapporto di circa 2/3 rispetto al peso. In parole povere, in proporzione, i cani piccoli disperdono più facilmente rispetto al peso e quindi tenderanno a soffrire il freddo mentre, con i cani grandi, abbiamo il problema opposto. Venendo ai cani da caccia questo potrebbe spiegare perché alcune razze, come ad esempio lo spinone italiano o certi grandi esemplari di drahthaar e setter gordon abbiano maggiori difficoltà quando le temperature si alzano… e l’acqua scarseggia. Parallelamente, mi vengono in mente alcune variazioni di taglia all’interno della stessa razza a seconda della nazione in cui i cani sono allevati. [esiste anche una regola ecogeografica che conferma ciò e che riguarda la fauna selvatica, si chiama Regola di Bergmann]. Parlando di dispersione del calore, inoltre, dobbiamo ricordare che alcune caratteristiche anatomiche la incentivano: muso lungo, orecchie grandi, torace appiattito, profondo o disceso, arti sottili ma con piedi grandi (i cani “sudano” dai piedi), pelo raso e taglia tendente a piccolo.  In pratica… vi ho appena descritto un cirneco! Le strutture utili a mantenere calore sono opposte, pensate alla morfologia di un Alaskan malamute o di un samoiedo.

Il rapporto tra la taglia e il movimento

Semplificando di molto le cose (gli interessati possono approfondire consultando i testi di Mario Canton sul movimento), una diminuzione di peso (anche nello stesso soggetto se lo facciamo dimagrire!) regala:

una maggior agilità nella deviazione delle traiettorie poiché ci sono 1) meno peso relativo da spostare e maggior chiusura delle angolazioni angolare (c’è meno peso su di loro);

e un’accelerata esecuzione dei singoli movimenti legata a 1) una diminuzione della massa degli arti e a 2) una loro ridotta estensione lineare.

Il che spiega come mai quando si ricerca la velocità in certi tipi di selezione la taglia dei cani selezionati per quello scopo tenda a ridursi, aggiungo io…

Per chi fosse interessato il libro è disponibile come ebook a prezzo ridotto o nella versione in
cofanetto.

Ps. Visto che la relazione tra superficie e temperatura può influenzare i livelli di benessere del cane, non dimenticatevi di dare un’occhiata al Gundog Research Project!




The Pointer by Arthur Croxton-Smith

From the book The Power of the Dog (1910)

The Pointer

His nostril wide into the murky air,
Sagacious of his quarry from so far.

Milton—Paradise Lost

tiff by the tainted gale with open nose,
Outstretch’d and finely sensible, draws full,
Fearful, and cautious, on the latent prey;
As in the sun the circling covey bask
Their varied plumes, and, watchful every way,
Through the rough stubble turn the secret eye.

Thomson

The respective virtues of the Pointer and Setter have been discussed without stint for many years, the advocates of each retaining their opinions uninfluenced by the arguments on the other side. It may not be known that no less a person than Sir Walter Scott once had a mild hand in the game. In “St. Ronan’s Well,” if you turn to the account of the dinner party which led to much ill-humour, you will find these remarks: “The company were talking of shooting, the most animating topic of conversation among Scottish country gentlemen of the younger class, and Tyrrel had mentioned something of a favourite setter, an uncommonly handsome dog, from which he had been for some time separated, but which he expected would rejoin him in the course of next week. ‘A setter,’ retorted Sir Bingo with a sneer; ‘a pointer, I suppose you mean?” ‘No, sir,’ said Tyrrel; ‘I am perfectly aware of the difference betwixt a setter and a pointer, and I know the old-fashioned setter is become unfashionable among modern sportsmen. But I love my dog as a companion, as well as for his merits in the field; and a setter is more sagacious, more attached, and fitter for his place on the hearth-rug, than a pointer—not,’ he added, ‘from any deficiency of intellects on the pointer’s part, but he is generally so abused while in the management of brutal breakers and grooms that he loses all excepting his professional accomplishments, of finding and standing steady to game.'”

Sir Bingo could not understand why one should wish for anything more. He never before heard that a setter was fit to follow any man’s heels but a poacher’s. Tyrrel’s point was that “many people have been of opinion, that both dogs and men may follow sport indifferently well, though they do happen, at the same time, to be fit for mixing in friendly intercourse in society.” A sentiment which we cordially approve. Whether the shooting man should select a Pointer or Setter to aid him in the field or on the moor resolves itself very largely into a question of individual taste. Either, when well broken, is capable of carrying out his highly specialized duties with great skill, and no prettier sight can be imagined than a brace of these clever animals quartering the ground and coming to a statuesque point when the game is winded. Of course, in externals the two breeds present many striking differences. Some admire the beautiful coat and gentle expression of the Setter, while others there are who declare that:

Loveliness
Needs not the foreign aid of ornament,
But is, when unadorn’d, adorn’d the most.

“Flax” Owned by William Arkwright, Esq. Painted by Maud Earl (1910)

In other words, form appeals more to them than coat. They dwell upon the handsome outline of the Pointer, his symmetrical, powerfully knit body, his straight legs and muscular quarters. The modern dog is not without his critics, however, who contend that a foxhound cross has been used in modern times as well as many years ago, and that the hound qualities introduced are detrimental rather than otherwise. It is urged that the duties demanded of the Pointer are even more exacting than those of the foxhound, as regards stamina, and that if the old dogs could perform them creditably there was no occasion to resort to outside blood, which developed a headstrong disposition that renders breaking more difficult, and tends to unsteadiness. In justice to the other disputants, it should be explained that they deny the alien cross, and contend that, as the foxhound is a perfect piece of mechanism, Pointer breeders are justified in attempting to work up to such a worthy model. Although one does not ask for a potterer it is questionable if great pace in a gundog is either necessary or desirable, for the fast animal is liable to pass birds that a slower one would find. After all, the truest test of excellence is finding birds for the guns, a feat in which the flashy worker is not always proficient.

In the innumerable letters which have appeared upon the subject I have never seen reference to the remarks of General Hutchinson. Possibly they have been quoted and escaped my observation. This gentleman, who is very rightly regarded as a sound authority, laid stress upon a sporting dog having small, round, hard feet, which he held to be a more certain test of endurance than any other point. “Rest assured, that the worst loined dogs with good feet are capable of more fatigue in stubble or heather than the most muscular and best loined, with fleshy ‘understandings.’ The most enduring pointers I have ever seen hunted had more or less of the strain of the foxhound; but doubtless they were proportionately hard to break.”

A variety of Pointer not much seen now-a-days is the black, or Scottish, which, of course, is free from any imputations as to the purity of his lineage. He is said to be all that one could wish.

From the same book: click here to read about the English Springer.

 PS. Don’t forget to take a look at the Gundog Research Project!



Antonio Tonali: un uomo di un altro mondo

di Ivan Torchio (1988), per gentile concessione dell’autore.

Antonio Tonali, classe 1895, cinofilo, cacciatore, soprattutto uomo di grande cultura, intelligenza, umanità e dotato di una modestia poco comune.

“Quando ero in collegio, era un po’ come essere prigioniero: chiudevano il portone ed a me veniva una grande tristezza, mi scoppiava il cuore. Pensavo al mio amico Pinu che aveva, anche lui, in mente i cani. Quelli erano tempi duri! Un ragazzo di dieci anni doveva già lavorare come un uomo e, tra di loro, quelli appassionati risparmiavano la mancia che, alla Festa, veniva loro consegnata per comperare le castagne o qualche altra piccola cosa (allora, non c’erano i Caffè e cercavano di mettere da parte soldi per comperare un cane. Non Io dicevamo nemmeno al toro papà (i tempi erano troppo duri per questi “lussi”) ma io, loro coetaneo, venivo messo al corrente questi segreti e li ammiravo. Me ne guardavo bene però dal dire queste cose, altrimenti mi, avrebbero portato… al manicomio. Vivevamo di sogni: ci bastava avere un “bastardino”, magari col pelo un po’ lungo, e fantasticavamo che avesse la discendenza dal setter… così avevamo sempre la testa per aria. Però mi sarebbe spiaciuto se mi avessero bocciato, per mia mamma, lei ci teneva che io studiassi.  Ricordo che un professore aveva capito che qualcosa in me non andava ed, un giorno, mi fece parlare, alla fine mi disse “tu sei uno di un altro mondo”. Allora avevo nove anni ed ho capito che le cose stavano davvero così… credo che questa affermazione sia tuttora valida.”

Seduti davanti al camino acceso, con una canina pointer bianco arancio ed un setter che ci osservano incuriositi, ascoltiamo Antonio Tonali che vestito, come sempre, da cacciatore, con vivacità giovanile, ci racconta di cani, di beccaccini e di persone. Il richiamo a… quell’altro mondo, palpabile e ciò che ne determina la percezione sono la serenità e la semplicità che il nostro personaggio e l’ambiente che lo circonda ci trasmettono. La grande passione per i cani, elevata a “ragione di vita” in contrapposizione alla violenza della Prima Guerra Mondiale vissuta drammaticamente in prima persona. Una vita semplice, forse un po’ primitiva, ma solo in apparenza, in realtà essenziale ma arricchita dalla semplicità e dalla genuinità nel rapporto con gli animali e con gli uomini, cui è sottesa una grande cultura ed una grande carica di umanità. Affascinati dall’uomo, ci ricordiamo dell’importanza di Tonali come testimone dei primi passi della nostra cinofilia e gli domandiamo di descriverci i cani di allora (la fine del secolo scorso – Fine 1800 n.d.r.).

“Anche allora, in ogni paese, non c’erano più di alcuni cacciatori bravi e questi avevano cani bravissimi. I cacciatori avevano fucili a bacchetta con la canna che sembrava un tubo di stufa sparavano polvere nera e, dopo il colpo, dovevano spostarsi sul lato per vedere cosa era successo al di là della cortina di fumo. lo ero ragazzo e diventavo matto a vedere il lavoro dì quel cani: bracchi e pointers.”

— Lei parla di pointers, ma c’erano già in Italia? “Che sappia io i primi pointer venivano da Monza, erano cuccioli che qualche guardiacaccia della tenuta reale vendeva e costavano 50 lire. Pensate che, qui a Villanterio, il migliore terreno agricolo costava 40 lire alla pertica. Io ammiravo molto questi cacciatori che spendevano un patrimonio per avere uno di questi cani ed ammiravo soprattutto quelli che facevano grandi sacrifici per mettere da parte i soldi.”

– Come facevano ad esserci i pointers a Monza? “Era una riserva di caccia di Umberto I e lui, sicuramente, li avrà avuti in regalo dall’Inghilterra.”

– E Lei quando ha avuto il primo cane? “Finché mio papà è stato in grado di andare a caccia i cani li aveva lui, io sono subentrato gradualmente; un giorno lui ha detto che non dovevamo contarlo più, come cacciatore; aveva 80 anni e disse che, in campagna poteva ancora andarci, col bastone, ma, a caccia, aveva finito. Allora, sapete, i vecchi non avevano egoismo, quando arrivavano a 80 anni (non erano molti però ad arrivarci), molto ragionevolmente, dicevano: la vita finisce, dovete continuare voi. Così comperai una cagnina “già fatta”, da un fittavolo vicino a Pavia, mio papà l’aveva vista e mi diede le 40 lire d’argento con cui la pagai. Andai a prenderla in bicicletta e lasciai al fittavolo il mucchietto dei 40 “cavourini” d’argento… in fondo un po’ mi piangeva il cuore nel vedere quel mucchietto lasciato sul tavolo. Era una cagnina tutta marrone che poi ho fatto coprire e mi ha dato un cucciolo col quale ho iniziato con le “sgnepe”; di beccaccini se ne trovavano dappertutto e così uno, due, tre, io cercavo di sparare bene e li facevo riportare (per farle capire) così ha cominciato a fermare.”

– Con le prove a beccaccini, quando ha cominciato? “Io leggevo sul “Cacciatore Italiano” delle prove a beccaccini, leggevo le polemiche tra Colombo, Griziotti ed altri… mi piaceva perché capivo che erano appassionati che s’intendevano di cani e , di beccaccini, che erano grandi cinofili. Ho cominciato per caso: un giorno cacciavo col mio cane ed signore, dopo avermi osservato a lungo (non riuscivo a capire cosa volesse) mi disse di andare nei “Paludi” dove provavano i cani e dove facevano anche le prove a beccaccini. Sono andato ed ho visto dei cani proprio belli, dei pointers molto tipici, però anch’io, con la mia cagnina, non ho fatto brutta figura ed allora, ho preso un po’ di coraggio. Ho cominciato con una cagnina che il mio amico Preti, il veterinario, aveva comperato a Copiano e poi affidata a me. Io non volevo andare alla prova perché… come potevo competere con tutti quei grandi cinofili che avevano dei pointers che mi facevano restare incantato? Però hanno insistito e sono andato. Il mio amico Preti non è venuto (forse aveva paura che facessi fiasco) ma ci ha dato la sua macchina ed ha detto al meccanico del paese che venisse a guidarla lasciandoci auto ed autista, tutto il giorno, a disposizione. Con me c’erano un mio amico, che era segugista, ed il papà di Antonio Ridella (Antonio era ancora un bambino). Lei (la cagna n.d.r.) è andata proprio bene, io invece mi ero impantanato e non riuscivo ad andare a servire la cagnina. I beccaccini erano avanti 10 – 15 metri e son volati e la cagnina… niente ed io che non riuscivo a muovermi e non capivo più nulla… era la mia prima prova quindi si può capire; se il fischietto non fosse stato legato con lo spago, forse l’avrei mandato giù… Giudicava Colombo e mi diceva di chiamare la cagnina ma io, pur nella mia confusione non la chiamavo, e poi mi sono anche spazientito e gli ho detto che non la chiamavo perché, altrimenti, avrei disturbato l’altro cane che era in coppia con la mia. Non era giusto disturbare quell’altro cane dal momento che la mia aveva fermato ed era stata corretta al frullo delle “sgnepe”. E così ho vinto e così è iniziata la malattia delle prove al beccaccino”

– Com’era organizzata la cinofilia a Pavia? “C’erano delle grandi personalità, Coppaloni e il mio amico Giannino Radice, Griziotti, Bovina ed altri, io sono sempre rimasto un po’ fuori, cosa dovevano farsene di uno come me che potevo solo… far ridere i polli. Poi mi hanno un po’ convinto, dicevano che bisognava darsi da fare per il bene della cinofilia perché la maggior parte dei cacciatori sosteneva i cani bastardi e, invece, si doveva dimostrare il contrario. Mi ricordo di tanti altri oltre a quelli che ho già detto: Nasturzio, l’armatore di Genova che importò i setters e li portò poi a Rocca de Giorgi e poi, di lì, cominciò l’era delle prove ed allora c’erano: Necchi che aveva rilevato l’allevamento di bracchi di Colombo, Rettani, il dott. Bionda, Biondet e poi Rino Colli che era il segretario della “Scuderia Lomellina.”

– Lei era molto amico di Antonio Ridella? “Antonio era di qui e l’avevo conosciuto da bambino, era lui che mi portava anche in giro e che mi ha fatto conoscere tanti cinofili. Ma io… andare in città… andare via dalla mia campagna, finiva che andavo in confusione e allora mi dicevo: hai visto, dovevi stare a casa, cosa vai a fare insieme a tutta questa gente importante?”

-Qual è il cane che ricorda di più? “Tutti. Però i cani sono come i cristiani: ci sono quelli fortunati e quelli che nascono sfortunati. Posso ricordare Cirano. Ha avuto dei grandi risultati sì, però, non è stato capito, solo Griziotti aveva capito che grande cane era. Io dicevo tante volte a Cirano: sei arrivato tardi, dovevi arrivare quando c’era ancora Colombo. Ma i cani non si possono dimenticare… nessuno. Bisognerebbe fare il monumento a certi grandi cani, non farlo a Napoleone o a quegli altri balordi che ammazzano la gente: chiamare lo scultore e far fare il monumento ai cani.”

– Ha conosciuto Pollacci? “Altroché, aveva i setters gordon, bravissimi. Ricordo North, era un bellissimo stallone, il migliore che c’era, ho – avuto un figlio di North, ma l’ho regalato.”

— Come mai, non andava bene? “Andava benissimo, era ancora un cucciolone ma un ragazzo che conoscevo, Gianni Bianchi, un giorno è venuto da me per dirmi che la sua cagna (era una cagnina che era stata anche qui da me) era rimasta uccisa. Mentre lui mi raccontava io pensavo: ma guarda un po, adesso è senza cane mentre io ne ho 5 o 6 buoni… la sera sono andato alla stazione dei treni (c’era il tram che andava a Pavia e lui doveva tornare con quello) col cucciolone al guinzaglio e gli ho detto: prendilo è tuo, ha pochi mesi ma lavora bene.”

Vai all’articolo precedente di Ivan Torchio qui.




Muffin zucca e cioccolato – I dolci di Flavia

Ingredienti:

(per 6 muffin)

1 uovo

70g zucchero

140g farina

200g zucca

2 cucchiai di olio

100g cioccolato fondente

Latte q.b

Mezza bustina di lievito

Lavorazione:

Cuocete in forno la zucca tagliata a cubetti a 180° gradi per 30 minuti. Successivamente schiacciatela con una forchetta riducendola a purea.

Montate un uovo con lo zucchero, poi unite rapidamente gli altri ingredienti: zucca, latte, olio, farina e lievito.

Tagliate a pezzetti il cioccolato (io prima di usarlo l’ho lasciato in freezer qualche ora).

Riempite i pirottini, io ho creato un cuore di cioccolato con un pezzettino centrale, ma voi potete creare i classici muffin con le gocce se non volete il cuore morbido cioccolatoso.

I pirottini devono essere riempiti per ¾

Cottura: 180° gradi per 20 minuti.

Vai alla prossima ricetta.

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Gino Pollacci Duca di Gordon

di Ivan Torchio (1988), per gentile concessione dell’autore.

Un viso arguto incorniciato da capelli bianchi e interrotto nei morbidi lineamenti da un paio di baffetti che ricordavano un duplice fiocco di neve. Nella penombra dell’armeria Albertini, luogo tradizionale di ritrovo, mi allungò la mano accennando ad alzarsi dalla poltrona, ed alle parole di presentazione rispose congratulandosi con chi mi presentava perché era stato capace di trovare un “giovine” più preoccupato di imparare la preparazione dei cani piuttosto che solo ad uccidere selvaggina indipendentemente dal cane e dalla etica. A quella presentazione seguirono metodici incontri, sempre nello stesso luogo, e lunghe conversazioni, alle quali il prof. teneva in modo particolare, direi con attaccamento, al punto di rilevare, “cipolla” in mano, i miei non sempre puntuali arrivi.

Seguiva con interesse i miei racconti sui cani in preparazione e interrompeva per raccontare aneddoti dai quali traeva spunto per parlarmi dei suoi gordon. Dei gordon fu certamente un vero cultore, ma non tanto in rapporto alle prove di lavoro, quanto al loro impiego sul terreno di caccia. I suoi cani di “Loano” (affisso riconosciuto nel 1929 n.d.r.), in pratica, erano stati forgiati in terreni di alte montagne e su un selvatico che egli riteneva essere, comunque, al di sopra di ogni altro, il forcello. Del gallo di monte sapeva praticamente tutto, lo amò e lo studiò anche con tentativi di riproduzione semi artificiale e, su questo argomento, scrisse anche una serie di articoli tecnici che poi raccolse in un volumetto.

Identica cosa fece per i cani del castello di Gordon. Data l’età ormai avanzata, non teneva più cani né tantomeno poteva seguire il lavoro quotidiano di Griziotti, del quale era un estimatore incondizionato. Non particolarmente interessato alle altre razze, ne faceva rari riferimenti e,  con quel modo caratteristico delle persone avanti di età, periodicamente ritornava a raccontarmi di come una invitò Griziotti alle Navette per potergli mostrare una cagnina di grandi mezzi. L’avvocato arrivò ad Ormea accompagnato da bracca che fece meraviglie su galli e cotorne tanto che egli lo pregò di portare a Pavia, in dressaggio, la gordonina, ma di lasciargli, nel frattempo, in affidamento la bracca, con la quale passò giornate indimenticabili.

In occasione di questo racconto, non mancava di farmi rilevare come il cane di Gordon non fosse altro che il bracco degli inglesi… Di Pollacci posso dire che non ebbe mai, lui professore universitario, atteggiamenti cattedratici, anzi era in sostanza persona disposta ad ascoltare e discutere dei più svariati argomenti. Logicamente poi si finiva sempre nel cadere sulla caccia e sui cani che accomunava, quasi sempre, non solo alle sue amate Navette ma anche a Mazza Emilio, suo “mitico” guardiacaccia che lo aveva introdotto ai segreti della caccia ai selvatici di alta montagna, tanti anni prima.

Malgrado abbia allevato a Pavia, dei suoi cani non è rimasta traccia, ed in verità, anche all’epoca a cui mi riferisco, non erano presenti in numero cospicuo i cani del castello di Gordon. Era figura dell’Ottocento, nel suo stile (che era comune ad altri di quell’ambiente), un Ottocento di tipo classico, romantico, che li portava anche a certi aspetti del comportamento che lasciano allibiti coloro che, come me, sono cresciuti in una dimensione diversa. Nei tempi che furono, i gentlemen di Pavia avevano quale loro luogo di ritrovo il bar ristorante Bixio. In una serata di accesa discussione suoi cani, un partecipante si lasciò scappare alcuni pesanti pensieri sia sui Gordon sia sui cani di Pollacci, il quale, dopo averlo schiaffeggiato, lo sfidò a duello. Fortunatamente, una lunga mediazione di gentiluomini presenti al fatto, salvò il malcapitato dalla lama di Gino Pollacci che era anche un campione di spada.

Vai all’articolo precedente di Ivan Torchio qui.

Altri materiali storici sul setter gordon sono disponibili a questi links:

I Tre Stili – di Giacomo Griziotti

Brevi appunti sul setter nero fuocato di Rino Radice




A few more words on gun shyness

The previous article on gun shyness triggered many reactions. This had pretty much been forecasted, but I hoped to find a larger number of open minded people. In the end, however, I must admit hearing that you, owner, can be deemed responsible for your own dog gun shyness is not pleasant. Modern ethology is not being kind here, and it is much easier to blame the genes, the bitch, the stud or the breeder. Acknowledging the role of environment, upbringing and training is tough, it can make us feel guilty.

What did the readers say? I was told stuff like “I never introduced the pup to noises, but when the first day of the shooting season came, I brought him with me and shot a whole covey of partridge on his head and nothing happened! The dog is fine! Socialization and all that stuff, bullshit.” If these people had carefully read the first article, they would have realized I wrote that sometimes people are very lucky, and a dog can survive such intense experience, without any prior training. Is luck often that blind? Not really, what most likely happens is that the dog has been exposed to noise and other stimuli, the owner is simply not aware of this. Maybe the pups grew up by the house, or on a farm, where he learnt to recognize the tractor, the lawn mower and other sounds, maybe they were born during a stormy summer and learnt not to fear thunders. Dogs living near humans are generally exposed to noise and this could prevent gun shyness.

It is now time to discuss the second objection “In the past dogs were not socialized, nor exposed to noise, yet, they were normal”. This is a false myth. Let’s thing about the past: about one century ago, almost all the hunting dogs used to belong to rich people. These people had professional staff taking care of the dogs, it is highly unlikely that these dogs were poorly socialized. What about ordinary people? At a certain moment in history, people with lower incomes started to become interested in hunting dogs. These people were mainly farmers and, usually, had some mixed breed dogs who could work like a hound, a spaniel or a terrier (their contemporary equivalent would be the lurcher). These dogs used to live on the farm, close to their owner, to other humans and to human made noises.

In Italy, lower and middle class hunters began being involved with purebred hunting dogs after WWII, more vigorously from the sixties. At the time, the idea of breeding dogs as a business had not yet been developed and most of the litters were homemade and raised by amateurs. It could be the rich man with his staff or the plain hunter, sharing the burden of raising a litter with his wife and children: dogs and humans, whatever the wealth, used to live close to each other.

Things changed later, as soon as people realized that breeding and selling dogs could become a profitable business. Dogs began to be seen as “livestock” and raised as you would raise a farm animal. Separate living quarters with kennels were built and sometimes multiple litters were raised simultaneously. Pups are nowadays sometimes raised at a distance from human made noises and sometimes experience less interactions with humans. Commercial kennels, however, are not the only ones to blame, hunters have changed as well. Some hunters now live in the city, they do not want to share their apartment with muddy dogs and send them to live “in the countryside” (locked in kennels) paying someone local human being to go feed and clean them. Some hunters have a detached house in the suburbs, but pups destroy gardens so they end up in a kennel far from the house. Hunters return home late from work, they are tired and they do not feel like interacting with their new pup, even if he has a great pedigree and was paid a lot of money.

If the pup would not be such a thoroughbred but just a farm mutt, things could maybe be easier for him. Some modern purebreds are not that different from thoroughbred horses and are equally nervous and sensitive. We selected these dogs taking speed and reactivity in great account, well… they can now be highly reactive even when we would prefer them not to be. Times and contexts have changed, why people refuse to acknowledge this? I think we should pay more attention to the dogs’ needs and remember that the dog is “man best friend”. We should put the pup first and do our best to make him grow into a happy and fearless adult. We should no longer bring a gun shy pup back to the breeder asking for a replacement or a refund, we should, in a few words, be responsible of our actions.

PS. Don’t forget to take a look at the Gundog Research Project!




Giacomo Griziotti: Vent’anni con l’Avvocato

di Ivan Torchio (1988), per gentile concessione dell’autore.

Quasi tutte le vicende fin qui riportate ripetono un nome: Giacomo Griziotti (1894-1986).  Non fu allevatore in senso stretto, non fu professionista ma un protagonista (quasi suo malgrado); dotato di grande intelligenza e di profonda cultura, fu uno dei più apprezzati conoscitori del cane da caccia ed esercitò sempre un grande “carisma” per la profondità tecnica delle sue osservazioni.

La sua presenza nella cinofilia italiana ha lasciato tracce indelebili, tali da far affermare, senza alcun dubbio, che l’Avvocato fu uno dei più significativi “ambasciatori della pavesità”. La nebbia, intensissima e gocciolante, era di quelle classiche della nostra pianura quando, al mese di novembre, si alternano giornate di splendido sole ed altre di scarsissima visibilità. Nella piazza, che sembrava inghiottita nel nulla, lì, di fronte a me pochi metri, un possente bracco italiano stava frugando in mezzo a delle immondizie. Mi fermai ad osservarlo mentre una voce maschile invitava il cane ad essere più ubbidiente. Chiesi che età avesse il bracco italiano. Quel signore, che io non conoscevo, sorpreso dal fatto che conoscessi la razza, incominciò con le solite domande che si rivolgono ai ragazzini mentre, insieme, percorrevamo un tratto di piazza. Ci lasciammo con l’impegno di rivederci il giorno seguente per andare fuori coi cani.

Così cominciarono i miei venti anni con l’Avvocato. Nel dressaggio era autodidatta sebbene seguisse la filosofia di Ernest Bellecroix del quale possedeva un libro, in lingua originale, che ebbi anche in lettura, naturalmente. Data l’intelligenza seppe utilizzare il metodo senza trasposizioni acritiche, tanto è vero che ogni soggetto in preparazione veniva osservato pazientemente studiato attentamente, in quanto l’obiettivo era sempre il capire come poter esprimere, al massimo, le caratteristiche individuali sollecitandone la psiche. Non utilizzava mai metodi di dura coercizione ed era proverbiale il suo modo di lavorare…  armato di nodosi randelli, (che chiamava “teneri virgulti”) e che mai tuttavia si incontrarono con groppa di cane; l’Avvocato li utilizzava infatti solo a scopo di minaccia. Da tutti considerato braccofilo, in realtà amava qualsiasi razza ed ebbe sempre in grande considerazione i cani inglesi. I bracchi erano per lui una sorta di legame con la nostra terra e, come tali, dovevano quindi essere curati e seguiti con particolare impegno soprattutto in periodi di crisi profonda, quale fu quello in cui imperversò, da noi, il furore anglofilo.

Sui campi portò tutte le razze, dagli irlandesi (ultimo Deli dell’Architetto Balbis), al drahthaar (Zara del dott. Marchetti per esempio). Correva per imporre i suoi cani, ma quando ciò non avveniva soleva dirmi: “quando gli affari vanno male, il fisico non deve subirne le conseguenze” e così cercavamo oblio in tavole ben imbandite. Cacciavamo molto con i cani ma, quasi esclusivamente, i beccaccini che non sparavamo se non dopo lavori perfetti. Grande cacciatore cinofilo ma anche grande appassionato di caccia sul fiume con barchino e spingarda, caccia che abbandonò quando le normative vietarono l’uso di quest’ultima. Aveva il dono di impegnarsi anche nelle cose in cui non credeva, come ad esempio nell’attività militare, che pur non riuscendo a capire né, tantomeno, a condividere sia nel primo sia nel secondo conflitto mondiale, affrontò con spirito determinato raggiungendo il grado di generale. Modestissimo, era solito chiedere parere in tutto, anche a me che pur ero, nei primi anni della nostra conoscenza, un ragazzino con i pantaloni corti.

La sua cinofilia era il dressaggio,  altre cose come gli aspetti associativi ecc. non lo interessavano in modo particolare, in questo dimostrando, ancora, modestia.  Era giudice, e alle doti, innate, di equilibrio e di obiettività, univa grande capacità di capire i cani ed una grande esperienza, tuttavia svolse questa attività solo raramente, quando il rifiuto sarebbe stato… sconveniente.

Incominciai col seguirlo anche in giro per l’Italia, sui campi di prove, e finimmo con l’invertire i ruoli: lui a raccontarmi aneddoti e fatti di cinofilia, di vita e di guerra, ed io che, alla guida del suo automezzo lo accompagnavo.  Il tempo passava veloce e sempre più spesso notavo il distacco dal mondo della cinofilia, così come è concepito attualmente… non aggiungo altro perché, credo, i motivi siano facilmente comprensibili per chi ha letto il suo libro sull’addestramento. Griziotti è stato un grande, anche più di quanto si possa immaginare e solo chi, come me lo ha seguito, può capire come la sua grandezza andava al di là dei risultati nella passione comune.

Ancora oggi, quando penso a Griziotti, penso a un modello, magari fuori tempo ma da imitare.

Un articolo di Giacomo Griziotti è presente qui.

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Cheesecake cocco e nutella – I dolci di Flavia

Ingredienti:

per la base:

200g biscotti tipo Oro Saiwa oppure, per i più golosi, tipo Pan di Stelle

per la crema:

500g ricotta

170g zucchero

250g mascarpone

2 vasetti di yogurt al cocco

4 fogli di colla di pesce

50g farina di cocco (2-3 cucchiai circa)

per la decorazione:

300g di nutella, o  altra crema spalmabile alla nocciola

Farina di cocco q.b.

Lavorazione:

Tritate i biscotti con un mixer e sciogliete il burro. Mescolate i biscotti al burro fuso e foderate il fondo di una tortiera da 22 cm. t bene col dorso di n cucchiaio e riponete in freezer per mezz’ora.

Intanto preparate la crema. Mescolate la ricotta con lo zucchero e il mascarpone. Aggiungete lo yogurt al cocco e la farina di cocco.

Mettete in acqua fredda i fogli di colla di pesce, e una volta morbidi, strizzateli e scioglieteli in un pentolino con un po’ di acqua. Quindi incorporateli alla crema.

Riprendete la tortiera. Ponete la crema sopra la base di biscotti e rimettete in freezer per 3 ore.

Decorate con uno strato di Nutella (eventualmente ammorbidita un po’ a bagnomaria prima di stenderla) e farina di cocco.

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