Quattro Passi Dentro Casa: l’Enciclopedia del Cane

L’Enciclopedia del Cane sta sulla libreria a nord-ovest, quella anni ’80, ma di design. È stata collezionata con lentezza, fascicolo per fascicolo Frequentavo ancora le scuole elementari, ma già leggevo cose di una pesantezza indescrivibile. Ogni settimana arrivava un fascicolo nuovo che io andavo a ritirare dal giornalaio. I due giornalai che si sono succeduti durante la raccolta dei fascicoli avevano un entrambi un cognome che finiva in -oni e mi conoscevano benissimo: l’editoria necessita di clienti come me. Le enciclopedie, a quei tempi, funzionavano in maniera un po’ macchinosa: ogni settimana arrivava un fascicolo nuovo da ritirare dal giornalaio, poi, ogni tot fascicoli si ordinava al giornalaio la copertina.  Quando la copertina arrivava, si riportavano i fascicoli dal giornalaio che li mandava, insieme alla copertina, dal rilegatore. Dopo un tempo variabile, i fascicoli tornavano rilegati in un volume, ben avvolti nella carta da pacco. Per andarli a riprendere serviva tornare nuovamente in edicola, anzi spesso ci si andava più volte per sapere se fossero arrivati. L’edicola, insieme al supermercato, era l’anima del quartiere: dell’edicola resta solo il casottino, del supermercato l’edificio, ora occupato dalla farmacia e da un poliambulatorio.

Quando l’enciclopedia è iniziata, non avevo ancora un cane mio, sebbene lo desiderassi più di ogni altra cosa, la fissa per i cavalli è venuta dopo. Mentre imparavo a conoscere le razze attraverso l’enciclopedia, cercavo di capirle anche dal vivo, ma c’era un problema: a me piacevano i cani da caccia, l’enciclopedia partiva dai cani da pastore (Gruppo I), e procedeva lentissima verso il Gruppo VII (Cani da Ferma). Nel frattempo, cercavo di conoscere i cani del quartiere: quasi tutti appartenevano al Gruppo II ed erano stati comprati per fare la guardia. Ricordo schnauzer, rottweiler, dobermann, maremmani e qualcosa del Gruppo I, pastori tedeschi per lo più, e in pastore belga Tervuren, poi morto di piroplasmosi, che oggi chiamiamo babesiosi.

Arrivata al quarto volume dell’enciclopedia, ho scoperto i cani nordici, che in quegli anni iniziavano a andare molto di moda. Mi piaceva il samoiedo: tutto bianco e orsettoso al punto giusto. Lo chiamano il cane che sorride, peccato che abbai altrettanto. In strada, tuttavia, si vedevano solo husky, rigorosamente neri e bianchi, e con gli occhi azzurri, e alcuni chow. Mi piaceva anche il groenlandese che, tuttavia, l’enciclopedia sconsigliava di prendere come animale domestico. Invece, chissà perché, taceva di dire la verità sugli husky, che nel frattempo invadevano le case degli italiani, con esiti non sempre fausti. Qui gli husky non hanno mai rischiato di entrare: nessuno aveva intenzione di comprarmi un cane, tantomeno un cane da slitta.

Mentre l’enciclopedia mi propinava bassotti, terrier e segugi, e io volevo sapere tutto dei cani del Gruppo VII, i cani da ferma hanno trovato me. Il giovane esploratore, ovvero fuggiasco, era una un Deutsch Drahthaar, che aveva imparato a scappare dalla sua cuccia a igloo, dal suo serraglio, e dal suo giardino, per venirmi a trovare. Il problema era che puzzava quanto le fognature di una metropoli del sud-est asiatico e trasferiva tutti i suoi aromi su di me. Però, a patto che non mi ci strusciassi troppo addosso, avevo ottenuto il permesso di portarlo in giro per il quartiere. Io frequentavo ancora le scuole elementari e lui era più grosso e saggio di me, andavamo insieme in edicola, e poi lo riportavo, a malincuore, nel suo serraglio. Almar, così si chiamava, dopo qualche mese di amicizia è sparito, prima sostituito da un setter blue belton, e poi da una pointerina bianca e arancio. Temo sia stato l’odore a fregarlo: non sarei mai riuscita a convincere mia madre che lavandolo sarebbe diventato inodore, così niente drahthaar, anche se la razza avrà sempre un posticino nel mio cuore.

In quegli anni, mio zio, storico e fedelissimo kurzhaarista (allora li chiamavano bracchi tedeschi, o brac tudesch), si era portato a casa un setter irlandese incontrato in campagna: l’aveva seguito fino all’auto, era molto bello e aveva deciso di dargli una possibilità. Ricordo che era bellissimo, che si chiamava Rosso, e che è vissuto, se non sbaglio, fino ad almeno 17 anni. Però, ricordo di aver pensato qualcosa del tipo: “umm sì, bello, molto bello, ma qualcosa non mi torna, troppo appariscente”. Il bracco tedesco, al contrario, mi sembrava troppo essenziale; il pointer aveva qualche carattere distintivo in più, ma restava pur sempre un cane a forma di cane, con quattro peli addosso. Il gordon? No! Troppo scuro e massiccio! Il bracco italiano? Ma, sembra un segugio! Insomma, già allora non sapevo farmi andare bene niente!

Invece, il setter inglese… intrigante e setoso, ma non troppo, era la giusta via di mezzo.  La maggior parte degli inglesi presenti nel settimo volume, di otto, era bianca e nera (blue belton): io ero rimasta colpita dal bianco arancio “Lindo della Bassana”.  I miei, che già avevano dribblato il drahthaar, avrebbero fatto a meno anche del setter, eppure ero quasi riuscita a convincerli: c’era una setterina blue belton al canile municipale e sono andata a vederla con mio padre, che ha cercato di prendere tempo.

Pochi giorni dopo, non fidandomi delle promesse di nessuno, ho raccattato il primo randagio (che probabilmente non era tale) avvistato transitare per il quartiere. Era blue belton, aveva una bellissima coda frangiata da setter e fermava e guidava proprio come un’inglese. Il pelo arruffato e la “durezza” ne tradivano le origini, almeno in parte, teutoniche. Tommaso, così si chiamava, era molto probabilmente mezzo setter e mezzo schnauzer: all’eleganza del primo, univa la serietà e la predatorietà del secondo. Sul suo diario di caccia sono segnati topi, talpe, galline, bisce, gatti… mai altro mio cane fu così spazzino.

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Quattro passi dentro casa: il non prato a nord-est

Il non prato a nord-est assomiglia molto a un campo da beach volley. C’è tanta, tanta sabbia e solo qualche spavaldo ciuffetto d’erba. Ripensandoci, ci sono anche due o tre margherite. Eppure, è stato un prato, e prima, ancora è stato sia un prato che un orto. L’orto è ben fissato nella memoria: mi mancano le verdure genuine, ma non le zolle da coltivare. Ho sempre schivato l’orticoltura, nonostante fosse la grandissima passione di mio nonno: lui aveva un grande orto rigoglioso che era la meta preferita dei suoi conigli in fuga.  Da bambina ho passato alcune estati coi nonni: in caso di fuga, l’allerta veniva estesa alla famiglia e ai vicini, a cui veniva richiesto di impegnarsi nella cattura, ma io tifavo per i conigli. L’orto di casa l’ho vissuto il meno possibile ma, quando è stato necessario, pena la moria delle piante, ho cercato di provvedere alla sua irrigazione, con esiti quasi sempre disastrosi. La canna dell’acqua finiva quasi sempre con lo sbattermi addosso, così che la terra si trasformava in fango e, per bagnare 20 metri quadri di terreno, mi inzaccheravo fino ai capelli. E poi… Premesso che ho paura di api, vespe e calabroni, vogliamo parlare di zanzare? Avete presente quante zanzare ci siano nella zona di Pavia? Non credo, ma se siete convinti di saperlo, immaginate il numero che avete ipotizzato e moltiplicatelo per quattro. La cifra ottenuta è presente h 24, come il Carrefour, che è sempre aperto, le zanzare moderne non si fanno problemi di orario.  In compenso, amano moltissimo l’acqua se vi mettete a bagnare l’orto arrivano a sciami.  La mia carriera di bagnatrice di orti, infatti, è finita prima di cominciare: i pomodori vanno bagnati dal basso, quell’altra cosa dall’alto, questo va bagnato pochi minuti, quell’altro di più… Che se c’è una cosa che non ho mai sopportato è la terra sotto alle unghie. Ho lucidato cavalli, infilato mani all’interno di bovini, raccolto quintali di deiezioni canine, ma la terra sotto alle unghie mi dà fastidio. Forse dovrei ringraziare le bollette dell’acqua che hanno iniziato a salire e l’orto a restringersi. Ho cercato di salvare un’aiuoletta di fragole, ma i cuccioli hanno sconvolto i miei piani. Le creature hanno anche ucciso il ciclamino, che ero riuscita a fare sopravvivere per quasi 5 anni. Cani, uh? Bell’affare!

Nel non prato, nella parte che fu orto, è anche seppellita una cucciolina appena nata, quella tutta bianca con le orecchie nere che pensavo di tenere per me. Ci sono anche le “tombe” dei pesci rossi. La mia carriera con gli animali è iniziata proprio dai pesci, meno dispendiosi e invadenti dei cani, e dei cavalli, a cui sono passata successivamente. Mi ricordo un funerale fatto per il pesce rosso, che era stato avvolto in uno straccio in cotone (come si fa con i pesci appena pescati) e messo in una scatola di biglietti da visita. Piovigginava, e avevo invitato alla cerimonia un paio di vicine di casa, che credo sarebbero state più volentieri a casa. 

Il non prato è anche l’area dove si stendono i panni. Dovete sapere che io non ho un’asciugatrice e, di conseguenza, ho sviluppato un’adorazione per questi elettrodomestici. In verità ammiro tutti gli elettrodomestici che se la cavano da soli, però… c’è anche una coscienza ecologica e risparmiosa. La Greta che è in me mi impedirebbe di asciugare i panni in asciugatrice durante una giornata di sole, ma se piove?  Per soddisfare la mia passione per le asciuagatrici, da un po’ di anni a questa parte, ogni volta che vado in Inghilterra, mi premuro di trovare una casa con l’asciugatrice. E mi diverto un sacco ad attaccare, contemporaneamente, asciugatrice, lavatrice, forno e asciugacapelli, roba che in Italia ti si fulmina il contatore!

Tornando al non prato, abbiamo, come dicevo, una parte che fu orto, e una parte che fu esclusivamente prato e “area cani”. Questa zona del giardino, infatti, era stata recintata per poterci lasciare il mio primo cane, Tommaso, un meticcio blue belton, mezzo setter e mezzo schnauzer. Tommaso aveva il vizio di scappare “per andare a gatti” (ricordava dove abitavano tutti i gatti del quartiere), così avevamo pensato di creare un’area a prova di fuga in cui lasciarlo quando non eravamo in casa. Mio zio gli aveva anche fatto una cuccia triangolare e post-moderna, dipinta di grigio, cuccia nella quale non credo sia mai entrato.  Non ricordo sia nemmeno stato da solo nella parte del giardino che gli era stata assegnata: stava molto più volentieri in casa.

Eppure, lì c’era un prato e una grossa quercia alla quale, per diversi anni, quando le zanzare giravano solo di notte, veniva attaccata un’amaca. Adesso ci sono delle siepi, dei mughetti, dei fiori LIDL che avevo acquistato come sementi e lanciato in giro a casaccio (perfettamente nel mio stile). C’è anche una recinzione che la “Lillina” cerca ostinatamente di scavalcare, infatti scrivo dal giardino mentre controllo quel che fa. Chi ha ucciso il non prato? Tante cose e nessuna: un po’ lo hanno rovinato i cuccioli, un po’ i muratori, un po’ il gran caldo. Il risultato è una distesa di sabbia che, a sua volta porta sabbia in tutta la casa.  Il mio approccio nei confronti della vegetazione è sempre stato quello di lasciarla crescere come cresce, senza intervenire, però, forse, adesso, il non prato ha bisogno di un supporto, questa volta non solo morale.

È in circostanze simili che riscontro tutti i miei limiti: non capisco niente di prati ma, soprattutto, non capisco perché il prato pubblico, che nessuno cura, sta benissimo e il mio fa schifo? Come va resistere l’erba sugli argini, che resta perfetta anche dopo le inondazioni? Sta il segreto nel limo della Mesopotamia? Sono il Po’ e il Ticino i fratelli minori del Tigri e dell’Eufrate? Siccome l’ultima cosa che voglio è diventare schiava del prato, ho iniziato a raccogliere informazioni sui prati a bassa manutenzione: mi serve un prato che sia resistente quanto una gettata di cemento. Della semenza “prato rustico” usata per re-forestare la parte frontale del giardino, non ho piena fiducia, mi sembra rustica quanto un Milanese fuggito a Cervinia per il lock down.  La scelta è pertanto caduta sulla semenza “Maciste”, un misto di festuca e non so cosa che lancerò in maniera assolutamente casuale e scriteriata tra la sabbia. Il venditore mi ha assicurato che va d’accordo con i cani, che non beve, che vive d’aria e che sopporta sia il caldo che il freddo. Se così sarà, il non prato tornerà ad essere prato.

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Storie di Covid: appari e scompari

di Paola Ferraris

Storie di COVID – ovvero, la sparizione di taluni e l’emersione di altri.
Dopo il lockdown, s’è molto disquisito dei c.d. “untori” – i runners dell’ultima ora, i ginnasti, ed… i padroni di cani. Tutte sub-specie di esseri umani, secondo l’autorevole opinione del popolo dell’ #iorestoacasa, in quanto incuranti del bene supremo della salute altrui e del sacrificio che tutti i reclusi stavano – ed avrebbero dovuto – sopportare a causa della “sub-specie” che, imperterrita, ha continuato a circolare. Poi si è scoperto che i fatti non erano proprio quelli … ma questa è un’altra storia.
Sta di fatto che, circa una settimana post lockdown, un folto gruppo di habitués con cani sono scomparsi … ora, chiunque abbia un cane ed esca con regolarità, più o meno di vista conosce i frequentatori dei parchi di zona ed i “passeggiatori” con cani. La loro sparizione rappresenta il quarto segreto di Fatima … hanno soppresso le creature? Le tengono rinchiuse in casa e le fanno sporcare all’interno? Sono emigrati? Boh … se mai ci sarà risposta, si saprà quando tutto questo finirà.
In compenso, sono misteriosamente apparsi soggetti, con creature a quattro zampe, mai visti prima (come noto, fonte di altrettante polemiche sui social e non solo). Il quinto segreto di Fatima… li tenevano imbalsamati in naftalina? Erano congelati, da tirar fuori in caso di necessità (con doti da preconizzatori degne del Mago Otelma)? Hanno adottato dai rifugi, in epoca di COVID, per potere uscire??
Questi soggetti sono misteriosamente apparsi, con le loro creature, creando non poco scompiglio tra frequentatori abituali delle (poche) aree cani rimaste fruibili. Ignari del bon-ton da area cani, che imporrebbe di chiedere “Posso?”, soprattutto ai proprietari di maschi o, comunque, ai proprietari di creature “vivaci” (i.e. lievemente aggressive). Coloro, invece, accedono all’area cani, con piglio disinvolto, ignorando le rimostranze dei presenti. Anzi, la risposta standard è “non si preoccupi, il mio cane è tranquillo, non fa niente”, il tutto mentre la creatura “tranquilla” cerca di affondare i denti nel collo del tuo cane …
Provocando la diaspora degli habitués. Costretti ad espatriare ed occupando, abusivamente e trasgressivamente, le aree limitrofe, non deputate ai cani (con tutto ciò che ne consegue, ma anche questa è altra storia …).
Poi, ci sono coloro con creature mignon, che si affacciano al cancello e, con piglio autoritario, ti urlano “scusi/scusate può/potete chiudere il cancello” (ché, nell’area cani vi è un cancello, montato misteriosamente, che la divide in due) ed entrano con le bestie di satana mignon, che ringhiano ed abbaiano ai cani grandi al di là della rete. Anche loro, misteriosamente apparsi dal nulla in periodo di lockdown. E simpatici quanto un cactus nelle mutande (cani e padroni).
Li chiamo, indistintamente, COVID19. Non avendo il (dis)piacere di essere on a first-name basis.
E mi chiedo: scompariranno, così come sono apparsi, quando si potrà tornare alla normalità? Le “creature”, emerse con il COVID, dove le nasconderanno o le porteranno? Torneranno ad essere rinchiuse ed imbalsamate? Il sesto segreto di Fatima. Chi vivrà, vedrà.




Quattro Passi Dentro Casa: La libreria a sud, il secondo piano

I piani, in questo, caso li contiamo dall’alto: contarli dal basso è complicato. A causa delle microscopiche dimensioni della stanza (piena di libri), il divano dell’Avanella, impatta direttamente contro la libreria a sud, nascondendone i piani bassi. Il ripiano di cui si parla, sta appena sotto a quello che io chiamo “piano attico”. Sul tetto della libreria non c’è granché da dire perché, a colpi di feng shui, sono riuscita a svuotarlo. Prima ci stava una beccaccia imbalsamata che non riuscivo più a gestire perché accumulava troppa polvere. Così, anche perché il feng shui sconsiglia gli imbalsamati, e i fiori secchi, l’ho regalata a chi la sapeva apprezzare.

Ma torniamo ai libri, questo ripiano assomiglia a una pizza, ma di quelle più improbabili. Così come su certe pizze potete trovare mozzarella, prosciutto ed ananas, qui andiamo dalla grammatica tedesca all’oncologia veterinaria, passando per la medicina complementare e le tecniche di scrittura creativa, un bel casino! Però, mi rappresenta benissimo. Parliamo un po’ di questi eterogenei inquilini. La grammatica tedesca: ho fatto un breve corso di tedesco, non ho imparato granché ma, la motivazione che mi ha spinta a fare il corso è che mi scoccia molto quando non riesco a leggere, o a capire, qualcosa, e il tedesco è una lingua abbastanza diffusa. Sopra alla grammatica tedesca c’è quella danese, così, tanto per dire.

Lì vicino c’è un’altra Norton Anthology of Literature, dicasi un tomo gigantesco, ma questa è Women, quote rosa con copertina blu. Nelle sue 2500 pagine racchiude alcune tra le più prestigiose scrittrici e poetesse che hanno scritto in inglese: ci sono americane, inglesi, canadesi, irlandesi etc., sono tutte qui. La ricordo come uno dei primi libri acquistati su Amazon, oggi giace accanto a un classico come “Il maestro e Margherita”; a “Gente di Dublino” (Joyce resta sempre Joyce) e al “Nome della rosa”. C’è anche Freud, con i suoi sogni, che confina con Woodhouse e con dei racconti di cani. Tra la saggistica c’è qualcosa di psicologia e di linguistica, un libro sulla santeria cubana, un saggio sul Vajont, uno sui capelli rossi e miei libri dei corsi di scrittura. Dopo aver scritto, per anni, improvvisando, ho frequentato corsi su come scrivere: articoli, racconti brevi, libri gialli e libri per bambini. Ho scritto racconti, ma mai libri gialli, né libri per bambini, eppure ne ho letti centinaia.

Degno di nota è anche il libro sulle terapie complementari nei volatili: ne avevo provata una su dei riproduttori di fagiani, e aveva funzionato. Lì vicino c’è anche una disanima scientifica sulle terapie “alternative”: mi ero iscritta al corso vero e proprio, quando studiavo in Massachusetts, ma il corso era a numero chiuso e, ovviamente, sono rimasta fuori. Però, l’esistenza di quel corso mi aveva fatto scoprire Hampshire College: un mondo a parte! Hampshire College (secondo alcuni Hempshire College) è stato fondato dopo il ’68: non esistono voti, si lavora su progetti, e gli studenti di orticultura coltivano verdure per tutti. Noi cinofili sappiamo che a Hampshire, insegnava l’esimio Prof. Coppinger che, ovviamente, in quell’anno era in sabbatico. Lui non c’era, ma il le sue pecore sì: aveva riempito il campus di ovini per i suoi esperimenti con i cani guardiani da gregge. Stavo a Mount Holyoke, il college di Emily Dicksinson, più prestigioso e competitivo di Hampshire, ma ho sempre pensato ad Hampshire come a un’ occasione persa. Ci sarei stata bene, magari mi avrebbero messo ad accudire il gregge.

Più in là ci sono due libri sugli stencils: la mia inadeguatezza nelle arti figurative è tale che riesco a fare disastri anche con le “formine”. L’unica cosa che io abbia mai stencillizzato bene – con un pennarello, che col pennello sbavo – sono le barriere della cassa parto dei cuccioli. Però, nessuno ha visto le mie creazioni artistiche: ho dovuto levarle dopo due giorni perché i diavoli le scavalcavano senza badare all’arte. C’è anche un vecchissimo libro su come si giudicano i cani in esposizione: è americano, raccomanda onestà e buone maniere da parte dei giudici, ha un po’ un sapore d’altri tempi.

E poi? Libri sul Giappone: ho studiato giapponese per tre anni e girato buona parte del Kansai da sola, terrorizzando tutti quelli a casa perché andavo in metropolitana di notte da sola, ma là è sicuro! Verso il confine della libreria c’è il libro del feng shui che, insieme al corso sullo stesso argomento, ha cambiato il mio approccio nei confronti delle cianfrusaglie, ma è lunga da spiegare; uno con i gatti inseriti in famosi ritratti, regalatomi non so come con del cioccolato, un libro sui celti e un libro su Praga. Questo è uno di quei libri che affiderei volentieri al book crossing, ovvero di cui non mi importa granché, se non fosse che la gita scolastica a Praga è stata un disastro assoluto. Il tutto ebbe inizio con la “seduta spiritica” e poi proseguì con: i corridoi da albergo di Shining; la gente che vomitava anche l’anima; quelli che rotolavano sul pavimento; le marmellate scadute e io e altri due o tre semi-abbandonati sotto la neve nel cimitero ebraico. Noi e un sacco di corvi che gracchiavano, i fiocchi di neve alla fine di marzo. Ci sarebbe anche da raccontare del portafoglio zeppo di marchi e documenti che trovammo su un marciapiede. Lo consegnammo immediatamente a un poliziotto chiedendoci, subito dopo, se il proprietario dei soldi li avrebbe mai rivisti. Forse avevamo fatto la scelta sbagliata.

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Il secondo piano, oltre ad assomigliare a una pizza, ricorda anche uno di quei giganteschi tacchini ripieni che si mangiano il Giorno del Ringraziamento: so quanto sono enormi, e quanto sono ripieni, perché assaggiai uno a Pittsburgh, dalla cugina Florence. Tradotto in libri, significa che, alla regolare fila di ordinata, si sovrappongono ai volumi altri appoggiati in maniera longitudinale o, più onestamente, messi “come meglio si accomodano”. “Tramonto e polvere”; “Le nebbie di Avalon”; “Diari di dame di corte dell’antico Giappone”; “Storia di Genji, il principe splendente”, etc. etc. fino a arrivare alla poco glamour “Rassegna di diritto e legislazione veterinaria”: ne abbiamo adottati alcuni volumi a testa perché il dipartimento intendeva buttarli nel bidone. A proposito di cassonetti, prima che prendesse piede la raccolta differenziata, avevo i cassonetti a due passi da casa: il segnatempo della Oregon Scientific, che vive al secondo piano, era stato abbandonato lì fuori, perfettamente funzionante.

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