Quattro passi dentro casa: il cespo di erica
Anche qui, non confondiamoci: il cespuglio di erica stava
fuori casa, il cespo di erica stava quasi in casa. Il cespuglio, radicato
solidamente nel terreno, abitava in giardino accanto al lampione. Poi un bel
giorno è sparito. I ricordi sono molto vaghi ma, tra un’ombra della mente e
l’altra, mi sembra che abbia fatto i bagagli nello stesso periodo in cui è
arrivata una setterina bianca e arancio, questioni di sopravvivenza. Il cespo,
anzi i due cespi, stavano in due vasi, sul balcone. Anche qui, come potete
notare, si parla al passato. Il balcone è quello della stanza in cui vivono il
telo cinese, le cornici blu e il divano dell’Avanella. La stanza, se non ve
l’avessi già detto, è esposta a nord, quindi non vede mai il sole. Del suo
balcone non se ne ricorda mai nessuno: è impunemente esposto alle intemperie
tanto da aver causato un’infiltrazione d’acqua nel soggiorno. È un ambiente
superfluo: ogni inverno, per lo meno negli inverni d’altri tempi, si imballa di
neve e devo uscire con la scopa per lanciarla giù in giardino, sperando sempre
di non centrare i cani. Adesso ha una pavimentazione in finto cotto toscano,
l’ho comprata da “Michela”, il cui cognome è abbastanza industrial-rinomato,
quindi diciamo solo il nome. Le antenate
di queste piastrelle erano giallastre, rachitiche e scivolose. Roba da
discount, insomma, ma me le sarei tenute, evitando l’anda e rianda del
piastrellista sul parquet, se non fosse stato per l’infiltrazione.
Delle piastrelle non me ne importa un granché: le vedo solo
con la coda dell’occhio, ci dividono i doppi vetri e la zanzariera. Perché, se
fa freddo non puoi aprire i vetri, che entra il freddo; se fa caldo non puoi
aprire le zanzariere, che la a casa si trasforma in un emporio all’ingrosso di
insetti. Questa mattina ho aperto un istante ed è entrato un moscone: nero, lucido
e cangiante, era molto nervoso. Per fortuna se ne è andato di sua sponte, non
sempre succede. Le cimici cinesi, per esempio, vengono per restare. Non so chi
abbia concesso loro il permesso di soggiorno, ma si sentono a loro agio dalle
nostre parti, in tutte le quattro stagioni. Oramai non le temo più: le
acchiappo delicatamente con della carta igienica (per questo ogni tanto svetta
rotolo sulla scrivania) e le butto nel water. La mia prima cimice, al contrario,
è stata un trauma: avevo circa otto anni e lei (?) si è posata sulla manica di
un mio maglione. Il maglione era brutto, giallo e sintetico. Ho urlato talmente
tanto che sono arrivati i vicini, da quel giorno non ho più indossato maglioni
gialli, qualche volta maglioni sintetici.
Se alle cimici mi sono abituata, persistono perplessità nei confronti di api, vespe e calabroni. Io faccio finta che non esistano, ma loro mi vengono a cercare. La calabrona regina è molto ostinata: ogni anno cerca di fare il nido su questo balcone. La scorsa stagione ho chiamato i rinforzi e l’hanno uccisa. Era enorme: sette, o otto, centimetri d’insetto, forse di più. Data la taglia era sicuramente americana, anzi texana, e proveniva dalla base USA di Aviano. Prima di spirare, mi ha giurato che avrebbe mandato la nipote a sostituirla, arriverà da Houston con DHL. Speriamo che il Covid_19 generi intoppi, nel frattempo torniamo al cespo…
Perché “cespo”? Perché chiunque abbia visto l’erica nel nord dell’Inghilterra e in Scozia non può chiamare diversamente un ciuffetto di questa pianta compattato artificialmente in un parallelepipedo. I cespi erano arrivati in sostituzione dei gerani: non li curavo e sono morti. Non è che lo faccia apposta: me ne dimentico, sulle piante ho sempre avuto le mie idee. Non posso tenere piante d’appartamento, perché i cani le morsicano. Ho provato orchidee e bonsai, ma nonostante le amorevoli cure mi hanno lasciato: a volte sono morti, altre volte li ho regalati per il loro bene. Non mi piacciono i fiori recisi: sono dei condannati a morte e mi fanno starnutire. Resterebbero le piante carnivore, ma non so, non so se ho voglia di provarci. Ho sempre pensato che le piante debbano essere #aiutateacasaloro e che non debbano #stareincasa. Io abbraccio gli alberi, ma li lascio nei boschi. Credo nei giardini selvaggi e scapigliati.
La mia povera erica è morta per il caldo: gli è stato
chiesto di adeguarsi a un clima che non le appartiene. Tutti gli anni, almeno
un paio di volte all’anno LIDL propone dell’erica in vendita, forse anche lei è
arrivata così, ma non per mano mia.
Quando la incrocio tra gli scaffali, la guardo, le sorrido e scatta quel
sentimento dolceamaro di nostalgia dei moors. Le giro le spalle e le auguro buona fortuna.
Il mio cespo, sebbene passato a miglior vita, era stato molto amato, non capita a tutte le eriche in cattività. Durante i primissimi giorni di quarantena, la gente era impazzita. Non potendosi più recare né a lavoro, né al centro commerciale, si era avventurata nella scoperta delle campagne. Uscire all’aperto con il cane era diventato meno che sicuro: anche i luoghi poco battuti erano diventati battuti, fosse il sole alto o basso all’orizzonte. Non sapendo come altro risolvere, sono andata a passeggiare dalle parti del campo nomadi, a debita distanza: c’ero soltanto io, e le sagome delle baracche sullo sfondo. Al rientro, ho conosciuto un rigagnolo: né bello, né brutto, se non fosse stato per la spazzatura. Nell’acqua del rigagnolo, dritto davanti a me, un cespo di erica di forma rettangolare, identico al mio. Non era stato amato abbastanza e lo avevano gettato in acqua: curiosa l’idea di affogare l’erica, quando è di troppo, di norma la si brucia. L’erica è piuttosto resistente all’acqua, nasce e cresce in una terra di tempeste: il cespo infatti era ancora vivo. Ho provato a salvarlo, ma non ci sono riuscita, troppi i cani con me, troppo pesante il cespo e troppa la distanza che lo separava dalla riva. Ciao cespo, e rinasci sul moor la prossima volta, ma mettiti in un angolo, così non ti bruciano!
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