Sii portavoce delle tue passioni

Gentaglia, o brava gente? Stando a dati di qualche giorno fa, le donazioni da parte dei cacciatori per l’emergenza COVID_19,  hanno superato il 1.500.000 euro. A queste donazioni “identitarie”, ovvero fatte attraverso le associazioni di categoria, andrebbero sommate anche quelle fatte singolarmente. So per certo di cacciatori che hanno fatto, di loro iniziativa, offerte a enti e ospedali. Andrebbero anche calcolate le offerte che sono state fatte, e che verranno fatte, in “memoria di”, perché purtroppo il coronavirus si è portato via anche molti di noi. Non sapremo mai, con esattezza, quanti soldi sono stati donati dai cacciatori, ma in fondo… che ci importa? Ricordo le donazioni dei cacciatori per il terremoto dell’Emilia e per i successivi, ma chi se le ricorda? Forse quelli che le hanno fatte, forse quelli che le hanno ricevute, ma l’opinione pubblica? Se il mondo se ne è scordato, che ci importa? Vuole la categoria guadagnare visibilità attraverso le offerte? Credo proprio di no, anzi, al contrario, molti tra coloro che hanno donato, lo abbiano fatto per il piacere di farlo, perché sentivano di dover donare, non per essere notati, o ringraziati.

Sia chiaro, avete e abbiamo fatto tutti bene a donare, è
sicuramente una bella dimostrazione di solidarietà da parte della categoria, ma
da sola non basta. Infatti, come avrete sicuramente letto, gli animalisti hanno
inventato dei pretesti per attaccarci, inventandosi che le donazioni non erano
vere, eccetera eccetera. Attaccano persino perché, ad oggi, la stagione
venatoria 2020/2021, non è stata sospesa. Come se non ci fosse un indotto
dietro alla caccia, come se non ci siano (di già) degli allevamenti di selvaggina
che scoppiano, come se la Beretta non avesse riconvertito parte della sua
produzione alla creazione di valvole per i respiratori.

Queste cose però le sappiamo solo “noi”, sono notizie che
non fanno rumore. Questo nostro “noi”, invece, deve aprirsi, smettere di essere
un cerchio chiuso, deve espandersi. Lì fuori devono capire che siamo “brava
gente”, devono capirlo attraverso i nostri gesti di tutti i giorni, gesti di
vita e gesti di caccia. Sulla vita di tutti i giorni, cosa volete che vi dica:
non fregate i parcheggi, aiutate le vecchiette ad attraversare la strada,
magari fermatevi se per terra vedete delle strisce pedonali, queste cose le sapete
già, non mi dilungo.

Quanto alla caccia, diventate ambasciatori della vostra passione. Fermi, alt, dove andate, tornate indieeeeetro! Non vi sto incitando ad aprire improbabili profili Instagram per esibirvi tipo influencer dei poveri, NO-NO-NO! Di questi, e soprattutto di “queste”, ne abbiamo già abbastanza: non deve importarci della nostra di visibilità, deve importarci della nostra passione. Occorre spiegare, con saggezza, quello che facciamo. Il 28 di marzo avevo in programma una giornata per raccontare i cani da caccia in un centro cinofilo; il 16 di aprile sarei dovuta andare in una scuola elementare a parlare di cani, inclusi quelli da caccia.  Questi sarebbero stati esempi di divulgazione positiva e propositiva, ovviamente sono saltati, ma qui non ci si perde d’animo.

Io per esempio faccio colazione sfogliando quelle vecchie
riviste cinofile e venatorie che non ho mai avuto il tempo di leggere. Sono
certa, o per lo meno mi auguro, che ne esistano a pacchi anche nelle vostre
case, così come spero che qualcuno di voi abbia ancora vecchie pubblicazioni
degli anni ’30, ’40, ’50, eccetera. Ve li ricordate i disegni di Lemmi? Vi
ricordate con che garbo e con che classe erano discusse la caccia e la
cinofilia? Bene, riprendiamo in mano quelli scritti e lasciamoci ispirare,
scriviamo anche noi (su questo blog c’è sempre spazio per i contenuti di
qualità) e cerchiamo, attraverso i social, che oggi sono l’unico contatto con
il mondo esterno, di presentare le nostre passioni nel migliore dei modi.

Ho qui accanto una copia di The Shooting Gazette, è mezza
mangiata dal cane, ma leggo che è stata pubblicata nell’aprile del 2018: ci
sono andati DUE anni per trovare il tempo di leggerla. Ma ho fatto bene a non
gettarla, contiene un articolo che si chiama “Be the Best You Can Be” in
cui David Edgan ci invita a essere le migliori persone possibili durante la
pratica venatoria, e a essere i migliori portavoce possibili della caccia. Cosa
possiamo fare? Innanzitutto, comportarci bene in campo. Vale di più un fagiano,
o il rispetto delle norme di sicurezza? Altre cose? Raccogliere le cartucce
sparate, rispettare le distanze da case e strade, trattare e preparare bene i
nostri cani, ma poi? Dobbiamo anche allargare il nostro punto di vista,
comprendere l’importanza della gestione faunistica e del nostro ruolo
all’interno della stessa. Dobbiamo essere cacciatori formati ed informati,
pronti a rispondere, con dati e fatti, alle domande che ci vengono poste.
Dobbiamo conoscere le normative, le specie, l’ambiente, dobbiamo essere
preparati: in questo modo si fa divulgazione, solo così si tolgono le munizioni
dalle dei nemici. E poi?

Scusate se salto di palo in frasca, ma non voglio che mi
scappino le idee. Per esempio, se vi fermate in un ristorante dopo una
mattinata di caccia, siate rispettosi e sobri. Al tavolo accanto potreste avere
qualcuno che non a pensa come voi, o qualcuno che non sa nulla della caccia:
essere grezzi e volgari non è il miglior modo per presentargliela. Sui social,
comportatevi nello stesso modo. Io difficilmente posto foto di cadaveri, in
genere sono in bocca al cane o, ben più raramente, già serviti a tavola.
Fotografare piatti a base di selvaggina è un regalo che possiamo fare alla
caccia: chi li vede capisce che la selvaggina in tavola è molto buona, e che
non ci sono sprechi. Si scopre che quello che è stato abbattuto viene mangiato:
indirettamente si salva un animale d’allevamento.

Se volete pubblicare altri tipi di foto con animali morti
chiedetevi: “è etico il mio atteggiamento?” (se state ridendo con una nutria in
mano, non è etico – ve lo dico io); “fa impressione?”; “è di buon gusto?”.
Insomma, pensateci un attimo, pensate a quanti lo possono vedere, e poi postate,
o non postate.

Ricordate sempre che la promozione, sana, delle nostre
passioni è la miglior difesa e iniziate dal basso, magari invitando i
miscredenti a venire con voi al tiro al piattello, o ad accompagnarvi a addestrare
il cane.




Quattro passi dentro casa: il cespo di erica

Anche qui, non confondiamoci: il cespuglio di erica stava
fuori casa, il cespo di erica stava quasi in casa. Il cespuglio, radicato
solidamente nel terreno, abitava in giardino accanto al lampione. Poi un bel
giorno è sparito. I ricordi sono molto vaghi ma, tra un’ombra della mente e
l’altra, mi sembra che abbia fatto i bagagli nello stesso periodo in cui è
arrivata una setterina bianca e arancio, questioni di sopravvivenza. Il cespo,
anzi i due cespi, stavano in due vasi, sul balcone. Anche qui, come potete
notare, si parla al passato. Il balcone è quello della stanza in cui vivono il
telo cinese, le cornici blu e il divano dell’Avanella. La stanza, se non ve
l’avessi già detto, è esposta a nord, quindi non vede mai il sole. Del suo
balcone non se ne ricorda mai nessuno: è impunemente esposto alle intemperie
tanto da aver causato un’infiltrazione d’acqua nel soggiorno. È un ambiente
superfluo: ogni inverno, per lo meno negli inverni d’altri tempi, si imballa di
neve e devo uscire con la scopa per lanciarla giù in giardino, sperando sempre
di non centrare i cani. Adesso ha una pavimentazione in finto cotto toscano,
l’ho comprata da “Michela”, il cui cognome è abbastanza industrial-rinomato,
quindi diciamo solo il nome.  Le antenate
di queste piastrelle erano giallastre, rachitiche e scivolose. Roba da
discount, insomma, ma me le sarei tenute, evitando l’anda e rianda del
piastrellista sul parquet, se non fosse stato per l’infiltrazione.

Delle piastrelle non me ne importa un granché: le vedo solo
con la coda dell’occhio, ci dividono i doppi vetri e la zanzariera. Perché, se
fa freddo non puoi aprire i vetri, che entra il freddo; se fa caldo non puoi
aprire le zanzariere, che la a casa si trasforma in un emporio all’ingrosso di
insetti. Questa mattina ho aperto un istante ed è entrato un moscone: nero, lucido
e cangiante, era molto nervoso. Per fortuna se ne è andato di sua sponte, non
sempre succede. Le cimici cinesi, per esempio, vengono per restare. Non so chi
abbia concesso loro il permesso di soggiorno, ma si sentono a loro agio dalle
nostre parti, in tutte le quattro stagioni. Oramai non le temo più: le
acchiappo delicatamente con della carta igienica (per questo ogni tanto svetta
rotolo sulla scrivania) e le butto nel water. La mia prima cimice, al contrario,
è stata un trauma: avevo circa otto anni e lei (?) si è posata sulla manica di
un mio maglione. Il maglione era brutto, giallo e sintetico. Ho urlato talmente
tanto che sono arrivati i vicini, da quel giorno non ho più indossato maglioni
gialli, qualche volta maglioni sintetici.

Se alle cimici mi sono abituata, persistono perplessità nei confronti di api, vespe e calabroni. Io faccio finta che non esistano, ma loro mi vengono a cercare. La calabrona regina è molto ostinata: ogni anno cerca di fare il nido su questo balcone. La scorsa stagione ho chiamato i rinforzi e l’hanno uccisa. Era enorme: sette, o otto, centimetri d’insetto, forse di più. Data la taglia era sicuramente americana, anzi texana, e proveniva dalla base USA di Aviano. Prima di spirare, mi ha giurato che avrebbe mandato la nipote a sostituirla, arriverà da Houston con DHL. Speriamo che il Covid_19 generi intoppi, nel frattempo torniamo al cespo…

L’erica di LIDL

Perché “cespo”? Perché chiunque abbia visto l’erica nel nord dell’Inghilterra e in Scozia non può chiamare diversamente un ciuffetto di questa pianta compattato artificialmente in un parallelepipedo. I cespi erano arrivati in sostituzione dei gerani: non li curavo e sono morti. Non è che lo faccia apposta: me ne dimentico, sulle piante ho sempre avuto le mie idee. Non posso tenere piante d’appartamento, perché i cani le morsicano. Ho provato orchidee e bonsai, ma nonostante le amorevoli cure mi hanno lasciato: a volte sono morti, altre volte li ho regalati per il loro bene. Non mi piacciono i fiori recisi: sono dei condannati a morte e mi fanno starnutire. Resterebbero le piante carnivore, ma non so, non so se ho voglia di provarci. Ho sempre pensato che le piante debbano essere #aiutateacasaloro e che non debbano #stareincasa. Io abbraccio gli alberi, ma li lascio nei boschi. Credo nei giardini selvaggi e scapigliati.

La mia povera erica è morta per il caldo: gli è stato
chiesto di adeguarsi a un clima che non le appartiene. Tutti gli anni, almeno
un paio di volte all’anno LIDL propone dell’erica in vendita, forse anche lei è
arrivata così, ma non per mano mia. 
Quando la incrocio tra gli scaffali, la guardo, le sorrido e scatta quel
sentimento dolceamaro di nostalgia dei moors.  Le giro le spalle e le auguro buona fortuna.

Il mio cespo, sebbene passato a miglior vita, era stato molto amato, non capita a tutte le eriche in cattività. Durante i primissimi giorni di quarantena, la gente era impazzita. Non potendosi più recare né a lavoro, né al centro commerciale, si era avventurata nella scoperta delle campagne. Uscire all’aperto con il cane era diventato meno che sicuro: anche i luoghi poco battuti erano diventati battuti, fosse il sole alto o basso all’orizzonte. Non sapendo come altro risolvere, sono andata a passeggiare dalle parti del campo nomadi, a debita distanza: c’ero soltanto io, e le sagome delle baracche sullo sfondo. Al rientro, ho conosciuto un rigagnolo: né bello, né brutto, se non fosse stato per la spazzatura.  Nell’acqua del rigagnolo, dritto davanti a me, un cespo di erica di forma rettangolare, identico al mio. Non era stato amato abbastanza e lo avevano gettato in acqua: curiosa l’idea di affogare l’erica, quando è di troppo, di norma la si brucia. L’erica è piuttosto resistente all’acqua, nasce e cresce in una terra di tempeste: il cespo infatti era ancora vivo. Ho provato a salvarlo, ma non ci sono riuscita, troppi i cani con me, troppo pesante il cespo e troppa la distanza che lo separava dalla riva. Ciao cespo, e rinasci sul moor la prossima volta, ma mettiti in un angolo, così non ti bruciano!

Se ti è piaciuto trovi il precedente qui e il successivo qui.




Quattro passi dentro casa: il divano dell’ Avanella

Disclaimer: il divano dell’Avanella non viene
dall’Avanella. Già questo è un inizio grandioso! Ma, per chi non lo avesse
capito, le mie narrazioni non seguono un filo logico, sono Joyciane. Il flusso,
anzi il “ruscello” di coscienza è molto più fedele alla vita di quanto non lo
siano gli ordini cronologici, né tantomeno il vizio di voler andare da A a B in
linea retta: alla meta ci si arriva anche prendendo la strada panoramica.

Il divano dell’Avanella va contestualizzato nella storia di
questa stanza. La stanza è quella intermedia tra le tre presenti al secondo piano
di un’ordinaria villetta a schiera suburbana. Essa nasce, nei primi, anni ’80
con lo scopo di essere un ufficio dentro casa. In famiglia ci piace essere
postmoderni. Conte, marzo 2020, ha detto che bisogna fare smart working:
mi padre ha iniziato a farlo negli anni ’70. Il suo primo
ufficio-da-lavoro-agile era il tavolo della cucina. Un tavolo della cucina
marrone scuro, il colore lo ricordo bene perché non mi piaceva, affiancato, in
corridoio, da un’altissima libreria nera dove stavano libri, cataloghi e pile
di documenti cartacei. La cosa più speciale era la localizzazione dell’ufficio:
pieno centro storico, all’ombra della cattedrale.

Poi, con la casa nuova, l’ufficio domestico si è conquistato
una stanza intera, quella da dove scrivo ora. Questa volta all’arredamento ci
aveva pensato un architetto e la stanza era stata agghindata con mobili bianchi
e accessori rossi, tutta roba di design. È rimasto tutto così fino a quando il
capofamiglia ha deciso di rinunciare al lavoro da casa spostandosi di nuovo in
centro storico, un ritorno al lavoro impacciato. Io, che ancora frequentavo le
scuole medie, ho ereditato la stanza e parte dell’arredamento, del resto i miei
libri reclamavano scaffali. Nello spazio lasciato vuoto dai pochi mobili
portati via era stato inserito un letto, bianco, anni ’70, l’ex letto di mio
zio (perché qui non si butta mai niente) che sarebbe dovuto servire “per gli
ospiti”. Nessun ospite l’ha mai utilizzato: l’idea era buona, ma… mio padre,
non tutti siamo leggeri in famiglia, ne ha sfondato la rete sedendosi sopra. Se
proprio volessimo dirla tutta, ma non si deve sapere, io, qualche volta,
saltavo in piedi sul letto, ma credo lo facciano tutti i bambini. Ritengo
pertanto che le reti a molle dei letti siano state progettate tenendo conto
anche di questo, declino di conseguenza ogni mia responsabilità.

Dopo questo incidente, la stanza è rimasta senza letto e ho
cercato di viverla alla giapponese: con tappeti, mica tappeti, e persino con un
futon che mi ero portata in aereo dal Giappone. Lo avevo acquistato
candidamente a Kobe e poi caricato in aereo a Osaka, senza pensare che una
ragazza piccola con un pacco enorme, arrotolato nella carta, avrebbe potuto
destare sospetti.  Infatti, così è stato,
un finanziere a Malpensa mi chiese proprio cosa contenesse il pacco. Quando gli
dissi “Un materasso, se vuole glielo apro!”, mi spedì via per evitare
complicazioni.

Ektrop

Nonostante il futon, continuavo a sentire forte e chiara
l’esigenza di un divano vero che doveva essere: economico, comodo, piccolo, perché
la stanza è piccola, e facile da trasportare. Come tanti esseri umani, adoro il
catalogo Ikea, cioè adoravo il cartaceo, che di solito arrivava ogni settembre.
Anzi, qui non arrivava mai, ma riuscivo ad avere sottobanco la copia di mia
nonna, che tanto non ci sarebbe andata lo stesso all’Ikea di Corsico. Mi scuso
con le cugine se ho rubato l’ambito catalogo per anni, a loro insaputa, ma
bisogna pure arrangiarsi.  Il catalogo
Ikea incarna quello che rappresentava il catalogo Postalmaket nella mia
infanzia: in pratica guardi tutto, vorresti comprare tutto, e poi non compri
nulla. O, in alternativa, vai in fissa, guidi fino all’Ikea, perlustri per ore e
poi ti accorgi di non riuscire nemmeno a sollevare dagli scaffali quello che
vorresti caricarti in macchina e portarti in casa.

Quasi uguale a quello dell’Avanella

Tornando a tempi più moderni, essendo a caccia di divani, mi piaceva assai il design dell’Ektrop: molto classico, molto inglese, specie quello bianco a fiori neri. Molto bello, ma troppo caro e troppo grande. La pensavo così fino a quando, all’Avanella, ebbi un colpo di fulmine. Cosa sia l’Avanella lo sapranno al massimo una decina di amici, qualche centinaio di Italiani, e qualche migliaio di stranieri, perché all’Avanella vanno soltanto gli stranieri. I pochi italiani che la conoscono, sono quelli che ci abitano vicini, o sono gli amici della proprietaria, quasi tutta gentaglia che va a caccia e ha cani. L’Avanella può infatti vantarsi di aver ospitato più di un personaggio illustre appartenente a questa fetta di mondo. E sempre l’Avanella  può raccontare di avere avuto, prima tra tanti, un capo guardiacaccia donna, con tanto di laurea in scienze forestali.  L’Avanella è tante cose in una. Chi è curioso può andare su internet e scoprire che l’Avanella è un agriturismo, ma io non la considero tale. L’Avanella è anche una riserva di caccia, per l’esattezza un’azienda faunistico venatoria, ma anche qui siamo un po’ sui generis. Agriturismo? Il complesso di strutture dell’Avanella: villa, fienile e villini (le scuole) ricorda tutt’al più in villaggio. Negli agriturismi di solito si mangia, all’Avanella no: puoi dormire, tuffarti in piscina, o lavare i panni sporchi in mezzo agli altri. Se vuoi mangiare devi andare a Certaldo, o a San Gimignano, oppure passare alla HOOPPEE (il toscano per COOP) e poi accendere il fornello. La caccia all’Avanella è un lusso solo per pochi: Francesca & gli amici. I fortunati posso cacciare il cinghiale, il capriolo, i colombacci e i fagiani, ma non luglio quando all’Avanella ci sono finita io.

A luglio all’Avanella fa solo caldo: questo mi ha portato a
conoscere molto bene i suoi interni. Francesca mi aveva collocato nel fienile,
al piano terra del fienile, il territorio riservato alla famiglia e agli amici.
La struttura originale del fienile era stata conservata: il piano terra era
quindi piuttosto buio, lungo e stretto e suddiviso in due parti. La stanza da
letto, con il bagno, ne occupavano un terzo; gli altri due terzi erano un
lunghissimo spazio aperto al centro del quale spiccava un divano Ektrop, bianco
e a tre posti.

Che all’Avanella si cominciasse presto, lo intuii sin dalla
prima mattina, dalle ombre e dai rumori uditi nel dormiveglia. I rumori sconosciuti
erano stati provocati da Francesca che, in orario antelucano, aveva depositato
una brioche con la panna nell’angolo cucina. Nelle mattine successive, il mio
sonno fu disturbato presenze meno nobili: un bambino, credo russo, che ritenevo
risiedere al piano alto del fienile, correva e urlava sin dalle prime luci
dell’alba. Francesca, a dieci anni di distanza, continua a dire che non c’era
nessun bambino russo al secondo piano, io seguito a credere che abbia fatto
confusione sul registro delle presenze. All’Avanella, non solo si comincia
presto, ma tra cene, escursioni e grigliate si finisce tardi. Poi, di notte i
cinghiali bussano alla porta, così giorno si collaudano i divani. Fu così che
scattò l’amore tra me il divano Ektrop.

Era amore sì, ma non abbastanza forte per farmi decidere a
comprarne un gemello, costava troppo ed era troppo grande. Un paio di mesi dopo
aver abbandonato il mio divano toscano preferito, venni a sapere che il mio
amico P. sarebbe andato all’Ikea per comprare le forchette. La P puntata è per
tutelare la privacy del malcapitato a cui mi sono appiccicata, per aver modo di
trasportare fino a casa un divano di Ikea. Lo sventurato, infatti, era munito
di auto simil-furgonata che aveva sufficiente spazio per trasportare un divano
piccolo, almeno in teoria. Così siglammo un patto: “Io ti porto all’Ikea, ma ci
stiamo al massimo 10 minuti.” Sembra incredibile, ma abbiamo davvero sfidato e
vinto l’Ikea esplorandola in 10 minuti. Era andato tutto alla grande, fino a
quando i miei occhi hanno incrociato il profilo spaurito di un Ektrop a due
posti.  Era proprio quello bianco, con in
fiori neri. Il povero divano era stato abbandonato nell’angolo delle occasioni
perché ferito a bordo zampa, un’infermità minore, ma che ne riduceva
sostanzialmente il prezzo, facendolo rientrare nel mio budget. Ci siamo
guardati e ho capito che non potevo lasciarlo lì. Cioè, non l’ho capito proprio
subito, ho tentennato per altri dieci minuti che mi sono costati una punizione.
L’ho dovuto caricare sul carrello (da me) e poi spingere suddetto carrello, con
il divano sopra, fino alla cassa, tra l’ilarità e l’ammirazione degli astanti.

L’avventura è proseguita nel parcheggio quando abbiamo scoperto che un pezzo di divano, in qualsiasi modo lo girassimo, sarebbe rimasto fuori dall’auto. Peggio di una carretta del mare, ma un elastico, un portellone legato alla meglio, una targa dell’Uzbekistan, quest’ultima in senso figurato, ci hanno fatto passare la paura. Il mio Ektrop è qui, sotto alle cornici blu, in perenne memoria del “divano dell’Avanella”.

Se ti è piaciuto, trovi il pezzo precedente qui e il successivo qui.